SANREMO 2007: PAROLACCE, PAROLINE, PAROLONE...
Data: Sabato, 03 marzo 2007 ore 00:05:00 CET
Argomento: Rassegna stampa


Sanremo 2007 – Parolacce, paroline, parolone
di Giuseppe Antonelli*

Trovando, in un’edizione ottocentesca del Vocabolario della Crusca, la sequenza di voci Fottitore, Fottotoio [sic], Fottitura, Fottuto, Alessandro Manzoni commentava con un quadruplo Ohibò!  e annotava nella sua copia: «Perché tutte queste schifezze?». Meno pudichi si mostravano, in quegli stessi anni, altri scrittori (dal Leopardi al Porta, dal Giordani al Monti, per limitarsi a qualche nome), che non esitavano a colorire le loro lettere private con qualche tocco di turpiloquio.
 A due secoli di distanza, nella narrativa contemporanea non c’è autore (anche il più raffinato) che voglia o riesca a farne a meno, perché oggi – che ci piaccia o no – le parolacce fanno parte del modo di esprimersi quotidiano e informale di quasi tutti gli italiani. In un libro recente (Parolacce. Perché le diciamo, che cosa significano, quali effetti hanno) Vito Tartamella, caporedattore della rivista «Focus», nota che nel film Natale sul Nilo se ne contano cento in cento minuti. Nazional-popolare per nazional-popolare: cosa sono, in confronto, le sei parolacce che si sentiranno in cinque serate sul palco dell’Ariston? Basta poco, direbbe Vasco Rossi, per gridare allo scandalo ...

«Brillantina dopobarba sigarette trombe fiati e putipù»

La realtà è che anche quest’anno molti tra i testi presentati perpetuano la tradizione festivaliera, rimanendo all’interno di una gamma stilistica che va dalla retorica patetica di Zero all’evanescente minimalismo degli Zero assoluto. Ma stavolta spicca anche un bel gruppetto di brani linguisticamente interessanti (Silvestri e Cristicchi su tutti) o comunque  non banali (Concato, Mango, Tosca); e persino tra le giovani proposte si torna a osare qualcosa (una menzione almeno per Khorakhané e Grandi animali marini).
 Uno degli elementi che fa la differenza è proprio la ricchezza lessicale: la capacità di usare un ventaglio di parole che vada oltre il circoscritto vocabolario sanremese. Specie quando questo ampliamento sposta il baricentro del cantabile dallo pseudo-sublime alla realtà. Penso, ad esempio, alle serie nominali con cui Tosca descrive una festa di paese («brillantina dopobarba sigarette trombe fiati e putipù») o al lessico rurale dei Khorakhané («Falce, forcale, vanga o rastrello»), ma anche alla colloquialità credibile di Fabio Concato («l’hai capito o no, mi hanno mandato a casa»).
 In Ti regalerò una rosa di Simone Cristicchi troviamo manicomio in rima con demonio, polistirolo in rima con solo e archivi in rima con vivi; anche, sempre a fine verso, un prosaicissimo termosifone. Il che non esclude il ricorso al binomio poetico volutamente na_f rosa : sposa (che, come il titolo, riporta a un bel brano di Max Gazzè). In questo contesto, la «puzza di piscio e segatura» evoca bene lo squallore che quella rosa intende riscattare; niente a che vedere col trasandato «non ho tempo per pisciare», una delle tante frasi che Pier Cortese butta là, ruotando a vuoto intorno al verso-puntello non ho tempo (per vivere al sole, per guardare l’aquilone, ecc.).

Paroline e parolone

A distinguere i cattivi dai buoni, come si vede, non sono certo le parolacce.
 Casomai, le paroline: i soliti monosillabi messi alla fine del verso per far sì che l’accento cada sull’ultima sillaba. Anche a costo di invertire l’ordine delle parole («ed un senso io darò alla vita che non ho» Leda Battisti; «chiusa dai divieti tuoi» Romina Falconi) o di ricorrere a evidentissime zeppe («ancora noi sì», «per mano uniti là» nel testo di Mogol per i fratelli Bella). Caso limite la canzone di Jasmine, che sciorina in rigorosa rima baciata la sequela te : c’è : tu : più : no : però : metà : qua.
 Casomai, le parolone; come implora o oblio nel testo scritto da Renato Zero per Al Bano, zeppo di tratti melodrammatici: certe interrogative retoriche («dimmi: guarirò?»), certe immagini («sazio di dolore»), il ricorso al passato remoto («dove ieri mi lasciasti tu»). O come quelle che popolano il testo interpretato da Piero Mazzocchetti, Schiavo d’amore, in cui non si guarda ma si scruta il cielo e si dice folle invece di pazzo.

Testi bonbon

La sensazione è che quest’anno si sia passati, in molti casi, dalla trasparenza della lingua domopak al luccichìo della carta argentata; quella, per intendersi, dei baci Perugina o di certi bonbon di un tempo, dal gusto un po’ stucchevole e sempre uguale a dispetto dei vari aromi.
 Per avere una conferma, basta la cartina di tornasole delle similitudini: «la mia tristezza è dolce ma talvolta è come un altro carceriere», canta Mazzocchetti; e gli fa eco una folta schiera di giovani proposte: «istanti sospesi / come le foglie cadute fin qui» (Stefano Centomo); «silenziosa come la neve» (Elsa Lila); «il tuo respiro nella notte, come un filo, / che lega la mia vita» (Sara Galimberti). Su un altro piano, invece, il «mi sento come un verme schiacciato da un trattore» che si legge in Napoleone azzurro dei Grandi animali marini, testo dai piacevoli sprazzi surreali («Mille piccoli cavalli azzurri sfilano sulla piazza d’armi»).
 Passando dal tornasole al sole, si può osservare che in quest’edizione riscuote larga fortuna la metafora meteorologica: «per te che il sole non finisce mai di splendere» (Paolo Meneguzzi), «guardami quel sole non c’è più» (Stadio), «sotto una pioggia di stelle» (Velvet); la stessa piegata a esiti più raffinati in Mango: «chissà se nevica al di là di un dolore / se è dispari il freddo del cuore/ se da un tramonto è giusto prendere un fiore».

Per modo di dire

Ironizzava Rino Gaetano, nel testo inedito proposto da Paolo Rossi: «in Italia si sta be-ne / in Italia ci sta il so-le». Luoghi comuni, frasi fatte come quelle cucite insieme nel diafano tessuto di Appena prima di partire (Zero assoluto): «mi sembra tutto più difficile»,«credevo di essere più forte», «basta una volta e non lo scordi più». Tessere preconfezionate di un puzzle con pochi pezzi e nessun rompicapo: quasi un precipitato pop di veteroavanguardia involontaria.
 E chissà cosa sarebbe uscito dal confronto con il letteratissimo reduce della neoavanguardia Edoardo Sanguineti: il suo Habanera, escluso dal Festival, era – stando alle sue parole – «un testo dal lessico molto comunicativo». Difficile dire altrettanto dei versi (anche questi esclusi) scritti da Ada Merini per Giovanni Nuti: «questa resurrezione / non è un’adolescenza / ma è la maternità della luce / che hai sempre avuto nel grembo».
 Se tra gli autori ammessi in gara non ci sono poeti laureati e premi Nobel, c’è però lo scrittore italiano che oggi vende di più nel mondo: quel Giorgio Faletti, maestro del thriller, che nel testo per Milva rimane impaniato in una scrittura molto prevedibile: «gli artisti falliti hanno il passo strisciato / per vergogna d’impronte che non hanno lasciato». E, con lui, un folto drappello di cantanti autori di libri («non chiamateli scrittori», diceva il critico letterario Paccagnini in un articolo di qualche anno fa). Tra questi almeno Mango – l’unico dei presenti a essersi cimentato con la poesia – Nada, Cristicchi, Matteo Maffucci degli Zero Assoluto (giunto da poco alla terza opera narrativa) e Daniele Silvestri, che invece ha tentato la via del diario di viaggio con L’autostrada, pubblicato nel 2003.

Papaveri e paranze

L’anno prima aveva presentato a Sanremo la sua Salirò, poi singolo più suonato in radio nel 2002. Ora torna con La paranza, fritto misto a base di cronaca giudiziaria (udienza, latitanza, in prima istanza, a piede libero; anche quel Taormina mascherato da nome di luogo) che occulta il tema politico mescolando il nonsense sanremese alla Papaveri e papere, il gusto linguaiolo di certe canzoncine anni Trenta e la tiritera da ballo per l’estate anni Sessanta (con un occhio attento alle parodie di Elio e le storie tese: vedi alla voce pippero e dintorni).
 Silvestri è l’unico a puntare sulle figure di suono: la sua è una retorica ludica che per metà del testo gioca scanzonatamente sull’assonanza -anza/-enza/-onza (a una certa distanza, anche Ponza, panza e il finto intruso pensa, che a Roma è penza). Finché, più avanti, la variazione sul tema tracima via via in filza monorime (illecito : abito : merito : discapito), per sfociare infine nel bisticcio vimini : Rimini : Bimini.

Parola d’autore

A dire il vero, qualcuno ci ha provato anche tra i giovani. Ma quei versi aperti da spazzola / frizzola / ruzzola / spizzica non bastano davvero a sollevare il livello del brano di Piero Baù («come api sopra un fiore / fare miele, far l’amore»). E, nel caso di Fabrizio Moro, una serie come faide e famiglie - biglie - meraviglie - conchiglie - figli e figlie in un brano dedicato alla piaga della mafia crea un palese cortocircuito con l’ormai classica Fight the faida di Frankie Hi-Nrg: («guerra fra famiglie fomentata dalle voglie di una moglie colle doglie che oggi dà la vita ai figli e domani gliela toglie»).
 D’altra parte, se la Canzone tra le guerre di Antonella Ruggiero può ricordare alla lontana la Ninna nanna de la guerra di Trilussa cantata da Baglioni, c’è chi con il citazionismo è andato ben oltre. Clamoroso il caso della famiglia Facchinetti, che prima parafrasa il Lucio Dalla di Disperato erotico stomp («ma l’impresa più speciale [lì era: eccezionale] / è vivere [lì: essere] normale»), poi attinge di peso alla «storia siamo noi» di De Gregori, tralasciando – chissà perché – il verso più adeguato: «siamo noi padri e figli».
*Giuseppe Antonelli insegna Linguistica italiana all’Università di Cassino. Il prossimo 15 marzo sarà in libreria il suo L’italiano nella società della comunicazione (Bologna, Il Mulino).







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