Scruti la platea del cinema Odeon,
strapiena e parlottante come a una
prémiere, ma con un pubblico di
soli adolescenti, e ti compiaci nel vedere
come in questo pubblico c’è una buona
parte della Catania di domani. Una piccola
città interessata, coinvolta, sorpresa, indignata,
interrogativa, esclamativa. Così
diversa e così migliore, rispetto a quella
proposta e sbattuta in prima pagina un
mese fa: la città violenta e assassina, indolente
e festaiola, offesa e parolaia, la
stessa città che ha prodotto la tragedia allo
stadio e che poi ha fatto finta d’interrogarsi
e di correre ai ripari proponendo
mille cose e, persino, non uno ma ben
due stadi nuovi di zecca e a prova di ultrà.
Qui in mezzo, per la legge dei grandi numeri,
potrebbe esserci almeno un prefetto
o un comandante dei carabinieri, una
poetessa o uno scrittore. Magari anche un
genio del crimine o un criminale come
tanti. Chissà. Forse saranno tutti soltanto
catanesi e basta. Oggi, comunque, provano
tutti a immaginare un futuro diverso.
Sono i ragazzi dello Spedalieri, quei diciottenni
o giù di lì che hanno scelto di
abbandonare il ruolo del testimone silenzioso,
magari arrabbiato ma silenzioso,
per urlare, attraverso il nostro giornale,
una disperata richiesta di aiuto. Di fronte
a loro c’è the man who start it all: Pietro
Barcellona, il professore, l’intellettuale,
l’uomo che con il suo editoriale - anche
questo pubblicato sul nostro giornale - ha
smosso in loro il desiderio di cambiare.
Suscitando l’approvazione di tanti dei loro
stessi insegnanti, le bacchettate di altri
professori, i distinguo di alcuni rappresentanti.
Ma sono riusciti, i ragazzi dello
Spedalieri, a smuovere le acque per creare,
ecco il capolavoro e la grande novità,
sua maestà il dibattito.
E’ proprio questo, salutando quasi
emozionato la platea, che ha subito rilevato
il prof. Barcellona: «Quando accade
qualcosa di importante o clamoroso - ha
detto rivolgendosi ai ragazzi - è facile diventare
protagonisti. Meno facile non dimenticare
e continuare a coltivare e arricchire
il movimento d’opinione e d’idee.
Non con questi numeri perché siete troppi.
Ma dovete continuare, formate dei
piccoli gruppi di coscienza. Parlate, discutete,
proponete, cercate il contatto e riscoprite
l’importanza del gesto, del corpo,
e il valore del confronto diretto».
Le parole, ecco. Il confronto, la gestualità.
Sembra così strano sentirne parlare
oggi, che si comunica rapidissimamente
con il linguaggio astruso degli sms o via
internet, cioè stravolgendo la parola o
annullando il contatto fisico...
Introdotto da Sergio Sciacca, prof e
amico degli studenti, moderatore colto e
non pedante, Barcellona racconta del suo
approccio all’insegnamento, di una passione
coronata da una lunga e brillante
carriera, e dell’importanza oggi fin troppo
trascurata della parola e del contatto.
«La parola è la messa in campo di sé, della
propria vita e della propria esperienza,
è come un parto, qualcosa che profondamente
preme e preme fino a vedere la luce
per diventare, appunto, importante.
Altrimenti è solo come quelle che siamo
abituati a sentire in così grande quantità:
chiacchiere. La chiacchiera non corrisponde
a nulla e non provoca né smuove
nulla nelle nostre coscienze. Le parole
sono a volte più importanti dei fatti. Non
pensate di vivere in un mondo fatto di
persone che sono tutte a nostra disposizione.
Io vi metto in guardia dalla demagogia,
dalla pubblicità, dalle false verità,
dalle formule usate per suggestionare,
influenzare e guidare. Dalle parole che a
questo scopo vengono usate e che non
sono innocenti, non sono la verità. Fidatevi
della vostra verità, quella che viene
dal vostro cuore».
E la scuola, l’università? Barcellona risponde
agli interventi di alcuni ragazzi e
di altrettanti insegnanti, e lo dice chiaro,
che non sempre e non dappertutto le cose
funzionano. A partire dall’Università:
«Devo purtroppo smentire il mio amico
professore Antonio Di Grado a proposito
dell’Università, di cui oggi non è affatto
chiaro il progetto finale e per il quale vi
sono evidentemente precise responsabilità
politiche: vi è oggi un numero di figli,
amanti, parenti e amici di professori
che mai s’era registrato nella storia della
Repubblica. E questo non significa criminalizzare
i figli o le amanti dei professori
saliti in cattedra, ma significa semplicemente
che figli parenti o amanti non
sono in quanto tali abilitati all’insegnamento».
E la violenza? «Non può esserci una
visione manichea secondo cui i malvagi
sono antropologicamente malvagi. Questo
è razzismo. La violenza può anche
essere indirizzata, trasformata. Si può tirare
fuori dagli stati d’animo che producono
rabbia e reazione. Se viene analizzata
e incanalata, per esempio, può diventare
agonismo. E siccome dobbiamo parlare
anche di cose concrete, diciamolo:
dove sono oggi le strutture pubbliche a
disposizione dei giovani per incanalare,
strutturare, trasformare la violenza?»
MICHELE NANIA (da
www.lasicilia.it)