CATANIA. Ecco Librino, percorsa in lungo e in largo negli ultimi
dieci giorni da decine di giornalisti inviati speciali, venuti a cercare
nelle tenebre della sera, nel dedalo di strade e stradoni, nei
palazzoni alti e tristi i lupi cattivi. Perché in un batter d’occhio
dopo la tragedia allo stadio, se c’è stato da scegliere un quartiere
tipo per dire che qui va tutto a rotoli, non ci sono state
molte esitazioni. Librino, manco a dirlo. Sarà stato perché
nelle settimane precedenti si erano susseguiti qui blitz delle
forze dell’ordine nelle torri di cemento. Sarà perché il quartiere
è ormai una città di 70 mila abitanti che ha una sua storia,
le sue caratteristiche, le curiosità, le ferite sempre aperte.
Sarà questo o quello, certo è che per tutti Librino è il quartiere
su cui tenere spalancati gli occhi, dove urlare all’emergenza,
da cui guardarsi bene, anche. Magari dicendo che non c’è
una salumeria e manco una farmacia, e nemmeno un bar.
E così anche l’allarme lanciato dal dirigente scolastico dell’Istituto
Tecnico Cannizzaro di Catania, Salvatore Indelicato,
sul livello, bassissimo, di scolarizzazione
con cui molti studenti
arrivano dalle Medie e,
spesso, anche su un vero e
proprio analfabetismo, ha finito
col toccare le corde di questo
quartiere. Dove c’è anche
una scuola bellissima, senza
grate alle finestre, dove non
rubano niente, dove non ci sono
atti di vandalismo. E che
vanta per i suoi 1200 studenti,
che partono dalle materne e
arrivano alla terza media, persino una piccola cittadella dello
sport. Palestre, campi di calcetto, convenzioni con le maggiori
società sportive cittadine e, udite udite, persino una piscina.
Si chiama Campanella-Sturzo.
Il miracolo, perché è un piccolo miracolo e vedrete perché,
è opera del preside Lino Secchi e della sua pattuglia di 151 docenti.
Che sono tutti sintonizzati sulla frequenza del preside,
che gira sempre a mille, che vive praticamente a scuola. Perciò
quella storia dell’esercito di analfabeti lo ha fatto arrabbiare.
«Ma mica con chi l’ha detto - spiega nella sua stanza piena
di carte, computer accesi, telefoni che squillano, circolari da firmare,
progetti da definire e varare - no. Perché è chiaro che
quando si agisce in zone difficili della città è tutto più complicato.
Quel che giudico inaccettabile è che dopo un evento tragico
si debba assistere a lezioni improvvisate di chi sino al giorno
prima è stato straordinariamente assente dalla scuola e da
qualunque processo di trasmissioni di legalità».
Il punto è chiaro. I professori che circondano Secchi, Maria
Luisa Torrisi, Angela Natoli, Niky Lo Bianco, Pietro Murabito e
Milko Nicosia lo fanno capire più con i fatti che espongono che
con parole in libertà. «La legalità - spiega ancora Secchi - per
noi nasce tutti i giorni a scuola. Avete visto bene, non ci sono
sbarre alle finestre,
non subiamo
furti, né danneggiamenti.
Perché i
ragazzi credono in
noi, perché questa
è la loro scuola, un
bene da tutelare e
su cui vigilare.
Non serve far vedere
loro la polizia
dentro la scuola,
quella deve stare
fuori, nel quartiere,
tra le strade».
Secchi ha titoli
per parlare senza
peli sulla lingua
anche di forze dell’ordine.
Perché, va
da sé, conosce il rispetto
per le istituzioni
e perché
suo padre era un
maresciallo dei carabinieri. Ne ha trascorsi di anni in caserma
il giovane Lino, perciò.
«So cosa vuol dire legalità, rispetto della legge, ma anche
quanto sia difficile entrare in certi ambienti, essere credibile,
convincere i ragazzi più difficili ad uscire dalla logica che chi
porta una divisa è uno sbirro».
Anche qua, ovviamente. I professori confermano che quando
hanno sollecitato i ragazzini a parlare della morte dell’ispettore
Raciti, la prima reazione è stata terribile e scontata in troppi
casi. «Persino un applauso - dice uno di loro - e quindi abbiamo
dovuto affrontare il tema cercando di stimolare altri punti,
altre sensibilità dei ragazzi. E, alla fine, crediamo in molti casi
di avere ottenuto quel che volevamo, cioé riaffermare l’importanza
della legalità. Anche semplicemente chiedendo ai più
irriducibili a chi si sarebbero rivolti se la loro mamma fosse stata
investita per strada. Alla polizia, ovviamente, hanno convenuto.
Anche se con qualche smorfia».
Inutile nasconderlo, con qualche smorfia. Perché qui c’è il
palazzo di cemento dove, dicono i ragazzini, loro fanno già gli
imprenditori. Ovviamente del crimine. La polizia è il nemico,
sono quelli che arrivano, perquisiscono, arrestano, portano via
loro, i fratelli, i padri. Non è facile così parlare di legalità. Certo,
ci sarebbero i progetti dei vari enti, poi. E il preside ha un
sussulto istintivo.
«Per favore, i progetti. Ma come si fa a varare progetti uguali
per una scuola di Librino e una del centro della città o delle
zone residenziali più agiate? Si usano gli stessi linguaggi per
mondi diversi. E con quale pretesa, poi».
Secchi è quasi furioso, i professori pure. Spiega Maria Luisa
Torrisi: «L’anno scorso abbiamo aderito al progetto del Comune.
Ci hanno detto di scegliere una trentina di ragazzi con storie
difficili, che fossero effettivamente da sensibilizzare sul tema
legalità. La prima volta sono spuntati, come ospiti ed
esperti, alcuni avvocati che indossavano le toghe e improvvisavano
un processo penale. Potete immaginare la reazione di
ragazzi abituati ad assistere ai processi dei familiari. E’ finita
con risate nervose, oppure fischi, ragazzi che se ne sono andati.
Siamo stati richiamati perché, secondo gli organizzatori, ci
volevano ragazzi più quieti per quel progetto. Ma allora cosa?».
Cosa? Niente. Le parole sono parole, i risultati stanno nei fatti.
Il dato nazionale della dispersione scolastica viaggia sul 10%.
Qua il dato che il dirigente scolastico ci agita orgogliosamente
sotto il naso dice che per strada ne perde soltanto l’1,2%. Come
fa? Lavorando, gettando energie e risorse nella missione scuola.
Facendo nascere la legalità non nell’astratto, ma nel
rapporto con i ragazzi, con le famiglie. Che chiedono aiuto.
«Lo fanno davvero - conferma il vice preside Pietro Murabito
- quando vado a trovare i genitori di ragazzi che non vengono
a scuola o che
hanno problemi,
mi chiedono come
devono comportarsi,
come educare
i figli. Ci sentono
vicini, questo è
importante».
Qua c’è pure la
piscina, roba da
matti. Il professor
Lo Bianco, uomo
di sport, può vantare
tutti i pregi
dell’impianto che
la scuola ha. «E che
è aperto mattina e
pomeriggio offrendo
ai ragazzi
del quartiere tutto
ciò che possono
chiedere in fatto di
impegno sportivo».
Anche questo aiuta la legalità. Secchi ci ripensa è non riesce
a darsi pace però. Di che?
«Conferenze, dibattiti, esperti, criminologi, psicologi. Adesso
vanno tutti in giro a parlare ai ragazzi di legalità, con il loro
linguaggio. Ma, dico io, non ci aiuterebbe di più far comprare
a famiglie davvero disagiate i libri di testo? Invece il Comune
da due anni non dà i buoni e i ragazzi non comprano i libri. Ma
di che conferenze andiamo parlando, dunque».
Cercano di intervenire i soliti professori, che si fanno regalare
i testi dai rappresentanti, che portano i loro libri, che
provano ad eliminare ogni alibi ai ragazzini che, ovviamente,
hanno la voglia di studiare di tutti i ragazzini, e anche un po’ di
meno. Ma non finisce qua. Potremmo aggiungere che per
aprire quella benedetta piscina ci voleva il cloro. L’ha dovuto
comprare Secchi con i suoi soldi. Hanno chiesto al Comune la
«Scopa nettafondo», una macchinetta che pulisce il fondo della
vasca. Spesa 200 euro, risposta: non c’è una lira. Nel frattempo
Secchi guarda dalla finestra la masseria che dovrebbero
consegnare alla scuola, perché il progetto alla Campanella-
Sturzo la assegna, e che invece da quando è ristrutturata viene
utilizzata da altri soggetti. Quali? Chiunque lo chieda, tranne
la scuola. Perché? Ah, quante cose volete sapere. Qua siamo
solo a Librino. E se, come dice l’ardito mecenate d’arte Antonio
Presti, che ha riempito mezzo mondo delle immagini più belle
e altrettanto vere del quartiere, we love Librino, sono problemi
vostri.
ANDREA LODATO
(da www.lasicilia.it)
Documento
del Comitato
studentesco
del liceo «Spedalieri»
di Catania sui fatti
del 2 febbraio.
«Non ci fermiamo alla
rabbia, insegnateci il valore della vita»
I fatti accaduti allo stadio lo scorso 2 febbraio ci hanno
turbato profondamente. Siamo addolorati, perché un
uomo, l’ispettore di polizia Filippo Raciti, ha perso la vita,
vittima di inaudita violenza. Non ci sentiamo però di
fermarci alla rabbia e alla vergogna, né vogliamo unirci
al coro di tutti gli "indignati". L’indignazione
non serve a capire il motivo di
tanta violenza a livello giovanile e soprattutto
non ci esonera dal dare un
contributo costruttivo.
Questi fatti ci interpellano personalmente,
ci pongono diversi interrogativi,
ci chiamano in causa e ci invitano a una
riflessione, riguardo alla coscienza che
abbiamo della realtà, a un’identità vera
con la quale ci impegniamo dentro le
circostanze della vita e a una speranza
fondata con cui possiamo guardare il
nostro futuro.
Se il cosiddetto "partito degli onesti"
che si vergogna, la società perbene e
moralista, dalla quale peraltro provengono
tanti dei ragazzi teppisti e violenti,
non ci offre se non regole e principi
astratti da una parte, e dall’altra il cinismo
di chi, avendo ormai rinunciato a
cercare la verità e il bene, propone solo
l’individualismo sfrenato e l’opportunismo
in cerca del successo personale, noi
ci sentiamo franare il terreno sotto i piedi
e ci sentiamo soffocati dal nulla che è
attorno a noi. Siamo intrappolati nella
rete del consumismo di una società che
si sviluppa all’insegna dei rapporti usa e getta e che promuove
shock a livello emotivo nell’immediato e dopo
apatia.
E’ vero quello che ha scritto il prof. Pietro Barcellona
sulle pagine de "La Sicilia" nei giorni scorsi: " Si gioca
con la morte quando la vita non vale niente".
Dove dovremmo impararlo noi il valore della vita?
Chi ce lo dovrebbe comunicare? Certo in primis la famiglia
e la scuola.
E allora non basta la repressione o escogitare nuove
regole per la sicurezza negli stadi. Occorre ripartire dall’educazione.
Che non sono le buone
maniere o i comportamenti civili.
Consideriamo questa come la prima
emergenza e la vera via d’uscita da quella
che si presenta sempre più come una
cultura di morte.
Noi abbiamo bisogno che qualcuno
ci aiuti a trovare il senso del vivere e del
morire, qualcuno che non censuri la nostra
domanda di felicità e verità.
Noi riteniamo che la scuola possa costituire
uno spazio adatto per questa ricerca
e che liberamente uno possa verificare
tutta la positività e il bene che la
realtà ci promette. Dentro le cose che
studiamo, dentro il tempo scolastico,
dentro il rapporto con i professori.
Per questo chiediamo innanzitutto ai
prof e alla scuola intera che ci prendano
più sul serio, che prendano sul serio le
nostre vere esigenze.
Che non debba accadere che un ragazzo
finisca male o che comunque perda il
gusto del vivere perché a scuola s’è trovato
attorno, soprattutto tra gli educatori,
gente rassegnata, opportunista e vuota.
Quanto a noi, bisogna smetterla di
perseguire come unico ideale della vita il comodo e la
facilità, il divertimento balordo a tutti i costi. Ci stiamo
giocando la vita degna d’esser vissuta e nostro stesso
futuro.
COMITATO STUDENTESCO
LICEO «SPEDALIERI», CATANIA
(da www.lasicilia.it)