10.02.2007. Assemblea degli studenti del Cutelli dopo i tragici fatti di venerdì
scorso allo stadio.
Il male contamina l’ambiente con facilità,
ma anche il bene può essere
contagioso. Lo hanno dimostrato ieri
gli studenti del liceo classico Cutelli,
che avevano previsto un’assemblea
d’istituto sul tema dell’eutanasia, e
hanno poi deciso d’incentrare la riunione
sui fatti che hanno scompigliato
quel clima di serenità in cui sono (in
cui siamo) abituati a vivere. Parliamo
del derby siciliano che si è macchiato
di sangue, ovviamente. Inizialmente,
a sentirli parlare quei "ragazzi del Bar
Europa", sembra che esistano due Catanie,
distinte e separate, quella delle
vie centrali e quella dei ghetti periferici:
«La città-bene, senza escludere il
fatto che anche lì ci sono le mele marce
- dice uno dei rappresentanti degli
studenti, Sebastian Intelisano - invece
d’integrare i quartieri periferici, li ha
abbandonati a se stessi, lasciandoli
all’erosione della criminalità».
Ma sono soltanto i figli di San Cristoforo,
Librino, Monte Po, gli orfani di
questa civiltà? Pian piano, le coscienze
si aprono all’esame, all’analisi: il
duro discorso della dirigente regionale
della comunità di S. Egidio, Alessia
Pesaresi, smuove gli animi di chi
ha iniziato a distrarsi, parlottando con
la vicina di poltrona (ci troviamo infatti
al cinema Capitol), di chi è presente
in questo giorno di (non)scuola
dove l’assenza è anche giustificata:
«Io non mi soffermerei su un’analisi
sociologica dei quartieri - spiega - perché
quello che è successo ha dimostrato
che si tratta di una reazione
trasversale, non legata alle zone disagiate.
Parliamo invece del "perché" di
tanta violenza, della facilità con cui
siamo abituati ad aggredire gli altri. A
Milano, 10 giorni fa, due ragazzi stavano
giocando per strada con una mela,
uno di loro l’ha scaraventata accidentalmente
su un’auto in sosta al semaforo:
il trentacinquenne al volante
è sceso e ha ucciso di botte uno di
quei ragazzi. Ma si può? Riflettiamo.
Guardate che non c’è un gran divario
tra i grandi conflitti del mondo e l’aggressività
quotidiana: la radice è la
medesima. Viviamo infatti in un mondo
dove la parola-chiave è contrapposizione
e ci illudiamo che preservare
la propria identità sta nell’essere più
forti e prevaricare l’altro. Lì dove l’altro
costituisce un pericolo, per il semplice
fatto che la diffidenza ha preso il
sopravvento. Non si può liquidare la
vicenda dicendo che è una questione
di pochi, che per quattro zaurdi abbiamo
pagato tutti. I ragazzi di S. Egidio -
conclude Pesaresi - hanno preso seriamente
una frase, detta più di 2000
anni fa: non fare al prossimo ciò che
non vorresti fosse fatto a te. Solo così
hanno superato questo limite».
Ecco il risveglio della platea, ecco
che qualcosa si è smosso: anche il più
timido si fa avanti per intervenire. E
nasce un bel dibattito, acceso dai colori
della giovinezza, grazie anche all’intervento
dell’inviato de "La Sicilia",
Andrea Lodato, sulla società ipocrita,
dove nessuno riesce a parlare il
linguaggio degli altri, dove per primi
sono i comunicatori, coloro non riescono
a raggiungere i giovani con il loro
messaggio: "Quegli stessi giovani
che parlano una lingua più semplice,
a volte banale, ma vera". "Io domenica
andrò a Messina per parlare di nuovo
di una partita di calcio - commenta
il giornalista - come potrò scrivere
di un rigore mancato, di un fallo subìto,
quando ancora, non c’è stato nemmeno
il tempo di asciugare le lacrime
per le parole di Fabiana (la figlia dell’ispettore
ucciso)?".
E poi una riflessione generale su
questa vita, spinta sempre di più dal
vento della maleducazione generalizzata
e della prepotenza istituzionalizzata.
E l’intervento di un altro
rappresentante d’istituto, Antonio
Reforgiato: «La persona violenta è un
debole: è più facile dare un pugno
che porgere l’altra guancia». E simbolicamente,
decine di pugni si schiudono
per alzare la mano e prender parte
al confronto costruttivo. Perché se è
vero che il male contamina l’ambiente
con facilità, anche il bene può essere
contagioso.
ASSIA LA ROSA
(da www.lasicilia.it)
L’IDENTIKIT DEL «SOCIOPATICO»
- «Incapacità d’integrarsi e provare sensi di colpa»
La violenza esaminata in tutti i suoi
aspetti, implica anche considerazioni
di carattere scientifico. Ecco perché
durante l’assemblea dei cutelliani, il
prof. Emanuele Antonio Corso, già titolare
della cattedra di Neurologia
presso l’Università di Catania, ha esaminato
il profilo dello psicopatico, ovvero
del soggetto che si comporta in
modo anormale nei riguardi della società
e che nel linguaggio psichiatrico
viene definito col sinonimo di personalità
abnorme.
«La devianza personologica responsabile
di sofferenza e di conflittualità
sociale - ha spiegato Corso - è considerata
una variante dell’indole umana
connessa ad esperienze psicologiche
negative della prime fasi evolutive:
dev’essere quindi distinta dalle personalità
che conseguono
a lesioni
del sistema
nervoso e a malattie
mentali. Il
termine di psicopatico
ha assunto
un significato
negativo
in senso etico e
sociale e tende
oggi ad essere
identificato, soprattutto
nella
letteratura anglosassone con quello
di personalità sociopatica. Tuttavia il
concetto di personalità psicopatica
non equivale a "socialmente inferiore":
alcune di esse infatti possono avere
un alto grado intellettivo ed essere
culturalmente impegnate». Si tratta
spesso di soggetti che non sono riusciti
ad equilibrare dentro di sé la propria
persona e il proprio destino: «Non si
tratta infatti di malattia ma di stato
abnorme permanente contrassegnato
da alcune peculiarità formali del carattere,
del temperamento - continua
Corso - il disturbo della personalità altera
la modalità di reagire ai bisogni
interni e alle situazioni ambientali:
da ciò discendono la conflittualità
soggettiva, la difficoltà di instaurare
armoniosi rapporti interumani e i
comportamenti socialmente inadeguati
».
Le teorie più accreditate valorizzano
il ruolo svolto da fattori ambientali,
con particolare rilievo alle figure
genitoriale: «La privazione di affetto
da parte dei genitori, soprattutto nei
primi anni di vita (madre incapace o
ambivalente nei confronti del proprio
ruolo, padre assente o autoritario), si è
dimostrato di primaria importanza
nel determinare tale stato. La mancanza
di un clima affettuoso e rassicurante
ed un rapporto di dualità, genitore-
bambino, impedisce la interiorizzazione
di quelli atteggiamenti e di
quelle norme che costituiscono la moralità
e lo strutturarsi dell’ideale dell’io
e del super-Io. Si edifica così una pseudo
identità in antagonismo alle figure
genitoriale e alle norme socioculturali
di appartenenza». Così, i moti aggressivi
hanno facile accesso all’io e si
scaricano immediatamente nel mondo
circostante.
Ma qual è l’identikit del sociopatico?
«Queste personalità hanno un
comportamento che non evoca né angoscia
né sentimenti di colpa: tipico è
il loro "non poter tornare indietro",
"non potere rinunciare" che condiziona
un progetto esistenziale unilaterale.
Una delle caratteristiche più rilevanti
- conclude il professore - è la
mancanza di capacità sulla sfera pulsionale:
il comportamento è privo di
schematizzazione, come quello del
bambino nel quale non sono ancora
intervenuti quegli apprendimenti che
consentono di armonizzare il soddisfacimento
dei desideri con le esigenze
della realtà. È incapace di seguire
nel tempo il suo comportamento secondo
uno schema gerarchizzato di fini
da raggiungere, difetta di un programma
di vita concreto e realistico, e
ha una condotta e discontinua, volubile,
dominata da desideri fuggevoli.
Ogni avvenimento è vissuto come
nuovo, senza confronti con il passato
né anticipazioni con il futuro, ogni legame
interumano è passeggero, privo
di profondità emozionale e di tenerezza.
Un contrassegno fondamentale è
l’incapacità ad integrarsi: il basso livello
di tolleranza alle frustrazioni fa sì
che il mancato soddisfacimento delle
pulsioni determina la liberazione di
scariche aggressive. che si esprimono
verso l’esterno con il rifiuto delle leggi
e delle norme che regolano il gruppo
sociale e il rifiuto di qualunque forma
di autorità».
A. L. R. (da
www.lasicilia.it)