Esisterà ancora l'Europa nel 2057 ? Se lo chiede “Civiltà Cattolica” in un articolo del padre gesuita Giovanni Rulli
Data: Giovedì, 01 febbraio 2007 ore 19:05:22 CET
Argomento: Opinioni


Testata: Libero
Data: 30 gennaio 2007
Pagina: 21
Autore: Angelo Pezzana
Titolo: «Gerusalemme subisce ciò che l'Europa vivrà tra pochi anni»

Da LIBERO del 30 gennaio 2007, un articolo di Angelo Pezzana:

Esisterà ancora Israele nel 2057 ? Se lo chiede “Civiltà Cattolica” in un articolo del padre gesuita Giovanni Rulli, non abbiamo capito bene se spinto alla domanda da una sincera preoccupazione per il futuro dello Stato ebraico o piuttosto da un qualche desiderio profetico. Padre Rulli, dalla presentazione che ne ha fatto Repubblica, pare essere attento studioso delle vicende mediorientali, anche se la spiegazione che dà del declino della presenza cristiana in quella regione è alquanto curiosa.

Non dipenderebbe, come ogni persona bene informata sa, dalle condizioni di vita inaccettabili dovute all’oppressione della maggioranza musulmana nei territori governati dall’Autonomia palestinese, ma, guarda un po’ che sorpresa, da Israele che non mette fine al conflitto con il mondo arabo. Padre Rulli, che un grande equidistante non deve dunque essere, rischia di riportare l’autorevole rivista dei gesuiti ai tempi lontani in cui si schierava per la colpevolezza di Dreyfus in Francia, anni nei quali le sue pagine facevano a gara con le più note riviste antisemite del tempo.

Tempi passati, certo, ma un po’ di richiamo alla memoria non fa mai male. Anche perchè limitarsi ad esaminare i problemi demografici e statistici, cosa ottima di per sè, dello Stato d’Israele, dovrebbe per noi che viviamo in Europa, andare di pari passo con la stessa domanda rivolta non più a Israele ma a noi medesimi.

 

Esisterà ancora l’Europa nel 2057 ?

 

Se si giudica questa possibilità una benedizione del cielo, se crediamo che l’arrivo della Sharia risolverà i problemi che angustiano le nostre società, allora è il caso di cominciare a far festa, perchè il futuro è quello. Avete mai visto qualche inchiesta televisiva che ci illustrasse cosa capiterà a olandesi e belgi fra pochi decenni ? Oppure qualche grande giornalone ha mai affrontato questo tema ? Non ci pare. E padre Rulli, che come cattolico e gesuita forse qualche titolo per giustificare il suo interesse nel futuro di un’Europa che in qualche modo cristiana lo è ancora l’avrebbe, che fa ? Tirando in ballo la diminuzione dei cristiani in Terra Santa, e mistificandone la motivazione, si chiede, con una domanda retoricamente ambigua, se Israele sopravviverà al 2057. Caro padre Rulli, suvvia, sposti le sue analisi su un continente dove la previsione è facile da fare, lanci un appello dalle pagine della sua rivista per invitare gli europei ad aprire gli occhi prima che sia troppo tardi, chissà, l’Europa potrebbe persino svegliarsi.

"Esisterà ancora Israele nel 2057?".
la domanda del non equidistante gesuita Giovanni Rulli

Testata: La Repubblica
Data: 30 gennaio 2007
Pagina: 14
Autore: Marco Politi
Titolo: «"Nel 2057 Israele non ci sarà più" la provocazione dello studioso gesuita»



Da La REPUBBLICA del 29 gennaio 2007, un articolo sulla domanda del gesuita Giovanni Rulli : "Esisterà ancora Israele nel 2057?".
Per una critica a Rulli, alle sue amnesie sull'avanzata demografica islamica in Europa e alle sue distorsioni sulle cause della fuga dei cristiani arabi, rimandiamo all'articolo di Angelo Pezzana pubblicato da LIBERO del 30 gennaio 2007, visibile su Informazione Corretta a questo link )

Ecco il testo:

ROMA - «Esisterà ancora Israele nel 2057?». L´interrogativo - che riecheggia il celebre libro scritto da Andrei Amalrik ai tempi dell´Urss: «Sopravviverà l´Unione sovietica fino al 1984?» - non è di qualche spirito libero in vena di facezie, ma è stato lanciato dal gesuita Giovanni Rulli, serio studioso di politica internazionale per la rivista Civiltà Cattolica. Padre Rulli, che tra le molte sue opere ha scritto un ponderoso volume sullo stato di Israele, ha spiegato che la domanda circola da un po´ di tempo in alcuni ambienti diplomatici e trova un suo fondamento nella realtà ineluttabile della demografia. «Mi chiedo - argomenta proprio nel giorno in cui si commemora la Shoah - se tra cinquant´anni esisterà ancora Israele, visti i tassi demografici delle popolazioni arabe e considerato che gli Stati Uniti, in una prospettiva futura, potrebbero diminuire la loro attenzione verso quell´area del mondo e, di conseguenza, limitare anche l´appoggio ad Israele».
Il gesuita, per gusto del paradosso, mostra di giocare un po´ con la cabala. Di cinquant´anni in cinquant´anni sono successi eventi fondamentali: «Nel 1897 Theodore Herzl, il padre del sionismo, preconizzava l´idea di un luogo dove potessero vivere gli ebrei. Nel 1917, ai tempi del protettorato inglese, si cominciò a parlare di stato. Quarant´anni dopo, nel 1947, alle Nazioni Unite si votò per la costituzione di uno stato e l´anno dopo Ben Gurion proclamava la sua nascita». Tornando all´oggi Rulli spiega di temere soprattutto la "bomba demografica". Se oggi i musulmani sono un miliardo, è lecito domandarsi tra cinquant´anni quanti saranno, tenendo presente i loro tassi di crescita. Quanto agli americani, proprio i loro interessi nell´area mediorientale potrebbero cambiare in seguito ai mutamenti demografici. O almeno la loro percezione. Con effetti negativi per Israele.
L´intervento dell´esperto gesuita è caduto durante la presentazione del libro di Elisa Pinna "Tramonto del cristianesimo in Terra Santa", un serio e appassionante reportage sul calo crescente dei cristiani palestinesi, sfiduciati dal conflitto permanente e stretti nella condizione di essere - tra musulmani e israeliani - la «minoranza della minoranza». Sia l´una che l´altra preoccupazione (esistenza di Israele, permanenza dei cristiani in Medio Oriente) sono d´altronde all´origine delle pressioni continue della Santa Sede perché i governi israeliani chiudano il conflitto con i palestinesi, restituendo le terre secondo i confini del 1967 nonché la parte araba di Gerusalemme, e al tempo stesso gli arabi garantiscano definitivamente la sicurezza dello stato ebraico. Benedetto XVI ha rivolto ieri all´Angelus un accorato appello affinché nel Libano cessino gli «scontri fratricidi» e a Gaza tacciano le armi. Papa Ratzinger ha insistito anche su un dialogo con Islam ed ebraismo, sviluppato sulla base della ragione. Il pontefice ha indicato come esempio la «lungimirante saggezza» di san Tommaso d´Aquino che «riuscì a instaurare un confronto fruttuoso con il pensiero arabo ed ebraico del suo tempo, sì da essere considerato un maestro sempre attuale di dialogo con altre culture e religioni».

Islamizzazione dell'Europa: Bernard Lewis lancia l'allarme
e scatta il tentativo di screditarlo

Testata: Corriere della Sera
Data: 30 gennaio 2007
Pagina: 18
Autore: Viviana Mazza
Titolo: «Allarme di Lewis: «I musulmani domineranno l'Occidente»»



Bernard Lewis lancia l'allarme sul processo di islamizzazione dell'Europa.
Sul CORRIERE della SERA del 30 gennaio 2007 Viviana Mazza sostiene che Lewis avrebbe perso ogni credibilità presso molti studiosi con un articolo nel quale sostenne che il 22 agosto 2006, giorno dell'anniversario del Miraj (viaggio di Maometto a Gerusalemme da cui sarebbe asceso al cielo) poteva essere la data scelta da Ahmadinejad per cercare di porre fine all'esistenza di Israele.

Ma Lewis aveva formulato un'ipotesi, fondata anche sulle dichiarazioni di Ahmadinejad, senza presentarla come una certezza.

Anche le dichiarazioni di di Olivier Roy , secondo il quale in Europa non esisterebbe il politically correct e Lewis sarebbe incapace di analisi credibili sul presente in quanto "rifugiato nel passato" contrastano con i fatti.

L'ideologia multicultutralista, l'isolamento e l'intimidazione, anche fisica, di quanti la contestano sono in Europa realtà innegabili.
E Lewis continua ad essere uno dei pochi studiosi di islam che si confrontano con la realtà attuale di quel mondo.

Ecco il testo:

MILANO — Lo spettro di un'Europa islamizzata, sottomessa, dominata dai valori musulmani è diventato uno dei cavalli di battaglia di Bernard Lewis.
Lo storico novantenne, nato in Gran Bretagna da famiglia ebrea, ora docente alla Princeton University negli Stati Uniti, è uno dei più noti esperti del mondo islamico. Ieri, in un'intervista al quotidiano Jerusalem Post, ha detto che l'Islam potrebbe presto diventare «la forza dominante» in Europa, perché «nel nome del politically correct gli europei hanno rinunciato a combattere la battaglia per il controllo della cultura e della religione». E ha avvertito che la sola domanda rilevante per capire il nostro continente sarà presto: «Avremo un'Europa islamizzata o un Islam europeo?».
Nel luglio 2004, in un'intervista al quotidiano tedesco Die Welt, Lewis aveva già dato l'allarme: «L'Europa sarà parte dell'occidente arabo, del Maghreb — aveva detto —. Questo lo desumiamo dalle migrazioni e dalla demografia. Gli europei si sposano tardi e non fanno figli o ne fanno pochi. L'immigrazione invece è forte: i turchi in Germania, gli arabi in Francia, i pakistani in Inghilterra. Si sposano presto e fanno tanti figli. Stando alle tendenze attuali, l'Europa avrà maggioranze musulmane nella popolazione, al più tardi per la fine del XXI secolo». Nel dibattito nato da quei commenti, un moderato di origini siriane immigrato in Germania, Bassam Tibi, aveva replicato che «il problema non è se la maggioranza degli europei sarà musulmana, ma quale Islam prevarrà, l'Islam della sharia o l'Islam europeo».
Lewis sembra ora riprendere quell'appunto, senza però dire esattamente cosa ci aspetta. Da una parte «gli europei stanno perdendo la fedeltà nei propri principi e la fiducia in se stessi. Non hanno rispetto per la propria cultura» afferma. Dall'altra i musulmani potrebbero imporsi come forza dominante «attraverso l'immigrazione e la democrazia» ammonisce, una prospettiva «preoccupante dato il crescente sostegno per l'estremismo e il terrorismo nel mondo islamico». In passato il professore aveva immaginato il sopravvento dei fondamentalisti islamici come «crollo dell'Occidente» o come «guerra razziale» che potrebbe distruggere ambe le parti. Stavolta non fornisce dettagli.
La visione di Lewis del rapporto tra musulmani e cristiani in Europa è cambiata nel tempo. Nel '93, in Islam and Liberal Democracy, scrisse: «La vasta maggioranza dei musulmani immigrati in Europa occidentale e nel Nord America non ha interesse né collegamenti con movimenti estremisti o rivoluzionari. Al contrario questi emigranti partecipano sempre più ai processi democratici dei Paesi adottivi, mentre restano in contatto con i Paesi d'origine. La mentalità che acquisiscono come risultato della loro esperienza della democrazia potrebbe rivelarsi tra i più importanti fattori di rinnovamento nel futuro politico del mondo islamico».
Dopo l'11 settembre, però, Lewis si è convertito alla linea dura, appoggiando la guerra di Bush al terrorismo. Ha spiegato che se si fallisce, anche l'Europa potrebbe essere sopraffatta. Ha dichiarato che sono gli stessi valori dell'Occidente a facilitare l'avanzata del fondamentalismo: «La separazione tra Stato e Chiesa che vige in Occidente va a vantaggio degli estremisti, perché dà loro il controllo dell'istruzione religiosa». Esperti come il francese Olivier Roy, autore di Global Islam, lo criticano: «Il politically correct aiuta l'Islam a prevalere in Europa? Ma l'Europa non è affatto politically correct —dice al Corriere —. Lo è molto più l'America. Pensiamo ai violenti attacchi contro il velo in Gran Bretagna e Olanda. Lewis è uno storico e da storico col tempo si è rifugiato nel passato. Ha perso il contatto con la realtà ed è diventato sempre più mistico, come quando ha previsto l'Apocalisse lo scorso agosto». Sul Wall Street Journal,
Lewis disse che il 22 agosto 2006, giorno dell'anniversario del Miraj (viaggio di Maometto a Gerusalemme da cui sarebbe asceso al cielo), «sarebbe stato saggio aspettarsi che l'Iran cercasse di porre fine con l'apocalisse a Israele». Da allora, agli occhi di diversi studiosi ha perso ogni credibilità.

Prima neofascista, poi comunista, infine fondamentalista islamico
considera Ahmadinejad "un pio" e sulla Shoah la pensa come lui

Testata: La Stampa
Data: 29 gennaio 2007
Pagina: 16
Autore: Francesca Paci
Titolo: «Fare carriera con l'islam»



Dalla STAMPA del 29 gennaio 2007:

Marco De Martino è nato a Napoli nel 1964. All’inizio degli anni ‘80 frequenta gli ambienti dell’estrema destra partenopea e i campi hobbit, i raduni dei giovani neofascisti. Nel 1985, dopo il diploma alla scuola alberghiera, parte per Londra per andare ad imparare l’inglese. Trova invece lavoro nella moda e non torna più in Italia. Nel 1987 si converte all’islam sciita, prende il nome di Amir e sposa una ragazza iraniana. E’ la nuova vita: si laurea in lingua persiana e studi islamici, ottiene una docenza all’Islamic College for Advanced Studies e nel 1996 comincia a collaborare con l’Islamic Centre of England, dove, in breve, fa carriera. Oggi occupa uno dei ruoli chiave del centro, è il responsabile delle relazioni interreligiose, tiene conferenze e, all’occorrenza, guida anche la preghiera del venerdì. Salam aleikum, sorella», saluta Amir portandosi al petto la mano destra che l’ortodossia gli impedisce di porgere a una donna. Una ragazza sulla trentina avvolta nel chador sorride e abbassa lo sguardo: sebbene Amir sia stato il suo maestro di esercizi spirituali non si è ancora abituata a sentir parlare in italiano qui, nella sala di preghiera dell’Islamic Centre of England. Questo è il tempio dello sciitismo londinese, tenuto d’occhio da Scotland Yard dopo le bombe del 2005 come alcune altre moschee cittadine, la casa-madre dove 5 mila fedeli di ogni nazionalità dialogano in inglese, ripetono le sura del Corano in arabo, leggono «Ettela’at», la rivista in lingua farsi.
Marco Amir De Martino ha 43 anni, ma la «umma», la famiglia del Profeta, lo considera un veterano, rispettato dalla diaspora khomeinista e dai convertiti come lui. Un italiano che ha fatto fortuna all’estero: è il responsabile delle relazioni interreligiose dell’Islamic Centre e insegna all’Islamic College for Advanced Studies, quello finito nella bufera nel 2006 dopo l’inchiesta del «Times» sugli studenti educati a odiare gli infedeli. Un curriculum interessante, anche per i servizi segreti: «Mi conoscono, è capitato che chiedessero di me, “l’italiano”. A casa mia però, non sono mai venuti: io non nascondo nulla».
Croci celtiche e Corano
«Arrivai a Londra per studiare. A Napoli avevo fatto l’alberghiero e dovevo imparare l’inglese. Era l’85, mio padre si era appena convertito, ma a me l’Islam non interessava. In casa c’erano i libri di Evola, Guenon, la filosofia neopagana, tomi e tomi sul sionismo... Io però volevo capire il mondo più che il rapporto tra uomo e Dio. A Londra trovai lavoro nella moda, prima da Burberrys e poi nel made in Italy».
Sembra una vita fa. Quando al posto dell’anello con l’ambra amata da Maometto, Marco sfoggiava la celtica e frequentava i campi hobbit, i raduni dei giovani missini cresciuti con «Il signore degli anelli» e «Mein Kampf». Il padre, Luigi Ammar De Martino, militante nell’estrema destra partenopea negli anni Settanta e predicatore evangelico porta-a-porta, è il leader del gruppo sciita «Il puro Islam», alcune decine d’italiani passati in tarda età dal neofascismo al Corano.
La rivelazione
«Un giorno papà mi chiese di riportargli un tappetino per pregare quando tornavo a Napoli». Nel 1987 Londra era già un’avanguardia islamica: oggi, con 700 mila musulmani e 133 centri tra moschee e scuole coraniche, sobborghi compresi, è una delle capitali della mezzaluna globale. «Al centro islamico di Regent’s Park comprai un tappetino e un libro, “L’uomo nel Corano”. Fu una vera illuminazione». Amir, camicia e pantaloni neri, piedi scalzi, siede sui talloni in un angolo della sala di preghiera adorna solo dei drappi verdi con i versetti sacri. Una sorella porta un vassoio di plastica con il tè e un piattino di biscotti Leibniz, essenziali e secchi tipo gli Oro Saiwa.
«Mi convertii quasi subito, presi il nome di Amir e lasciai la moda, troppo vacua, immorale, una lobby omosessuale...». Nella «umma» c’è posto per tutti, figurarsi per un «pentito» come Marco: anglosassone d’adozione ma nemico giurato del «grande Satana americano», innamorato della rivoluzione degli ayatollah e devoto all’eredità religiosa di Khomeini quanto il presidente iraniano Ahmadinejad, «un uomo pio».
La comunità sciita londinese lo accoglie da fratello e gli procura un lavoro all’agenzia petrolifera iraniana, l’iscrizione all’Università Orientale e poi all’Islamic College, una moglie originaria di Teheran, impiegata all’Iran Air e molto religiosa («d’estate a Ischia faccio il bagno al mare solo la mattina presto, se non c’è nessuno. Lei no. Va in spiaggia solo in Iran dove ci sono le stazioni balneari riservate alle donne»).
La City delle moschee
Nel 1995, all’apertura dell’Islamic Centre of England in Maida Vale, un ex cinema ristrutturato, Amir De Martino ha le carte in regola: è sposato («un musulmano single è un controsenso»), doppiamente laureato in studi islamici e lingua persiana, svelto abbastanza da gestire corsi, conti e i sit-in degli studenti iraniani anti-regime che periodicamente protestano davanti al Centro. Un perfetto manager religioso: «Farsi valere non è difficile, gli orientali sono disorganizzati e si sentono sempre un po’ inferiori rispetto a noi occidentali. In più io, da napoletano, so muovermi...».
Da allora a Maida Vale comandano l’ayatollah Khamenei, cui il Centro fa riferimento, il presidente Abdolhossein Moezi, un team di amministratori (l’attività è finanziata da Teheran ma, in teoria, si mantiene col «qums», l’elemosina), e mister De Martino, che in Italia avrebbe gestito un’agenzia turistica e qui guadagna 18 mila sterline l’anno.
La paura del terrorismo e la tentazione islamofobica hanno intensificato il suo lavoro. Oltre alle celebrazioni di questi giorni per l’Ashura, la festa sciita per il martirio dell’imam Husseyn, Amir cura i convegni internazionali come quello con i rabbini Neturei Karta, gli ebrei ultraortodossi antisionisti «special guest» alla conferenza sull’Olocausto di Teheran. Nulla di nuovo per l’ex neofascista («l’ultima volta però ho votato comunista»), che ignora il dibattito italiano sul negazionismo: «La Shoah mi lasciava scettico sin da giovane».
E’ la forza dei convertiti, gli «imam dagli occhi azzurri», più devoti dei devoti, orfani d’ideologie, disciplinati. La nuova frontiera dell’islamismo che tanto preoccupa l’intelligence inglese: ultimamente ce n’è sempre uno nei commando kamikaze. Scotland Yard tiene le orecchie aperte. Ma da Amir l’italiano neppure una parola: ama Londra. Qui in fondo ha trovato la sua Mecca.

La Francia e il conformismo filo-islamico
parla lo storico Christian Delacampagne, amico di Robert Redeker

Testata: Il Foglio
Data: 25 gennaio 2007
Pagina: 3
Autore: la redazione
Titolo: «La febbre orientalista francese e i brividi dell’affaire Redeker»



Dal FOGLIO del 25 gennaio 2007:

La Francia come le altre nazioni europee, sta entrando in un periodo buio e difficile”. Christian Delacampagne legge l’affaire Redeker – il pestaggio mediatico e la fatwa islamica contro il professore di filosofia francese – come epifenomeno di un vasto malessere, quasi una distrofia culturale e una piaga dello spirito laico repubblicano. Prestigioso contributor di Commentary e docente alla John Hopkins University, Delacampagne in un saggio per il mensile ha elencato le reazioni alle minacce di morte a Redeker: le due più grandi organizzazioni di insegnanti hanno ufficialmente preso le distanze dal suo articolo, Pierre Tévanian lo ha definito “razzista”, il ministro dell’Istruzione Gilles de Robien lo ha invitato alla “prudenza”, il giornalista Jean Pierre Elkabbach ne ha chiesto il mea culpa e il comitato di redazione del Monde ha definito “blasfemo” il suo intervento. coloniale come un episodio di genocidio e denunciare la politica americana in medio oriente”. Nel 2004 un professore di filosofia fu selezionato per entrare nel prestigioso Collège International de Philosophie. “Le sue credenziali erano formidabili, ma quando le sue idee filoamericane divennero note, fu organizzata una campagna efficace per negargli il posto. I dettagli furono riportati dall’Express. Il suo nome era Robert Redeker”. Il quale ha appena pubblicato il suo diario dell’intimidazione, “Il faut tenter de vivre” (edizioni di Seuil). Da Louis Massignon a Jacques Berque, da Olivier Roy a François Burgat, l’ideologia “orientalista” sui rapporti fra occidente e mondo arabo è diventata mainstream. “Per scoraggiare qualsiasi sentimento di minaccia dell’occidente da parte dell’islam, gli orientalisti hanno minimizzato l’importanza dell’islam radicale e l’aggressione alla li- Delacampagne ha cercato di spiegarsi questa “vergogna nazionale” attraverso la pressione elettorale. Al Foglio dice: “Durante la punta massima delle rivolte delle banlieues, i quotidiani hanno mostrato scarso interesse all’influenza della propaganda islamica. Di fronte alla militanza islamica, i giornalisti francesi hanno compromesso la loro professionalità”. Poi si è rivolto a quello che descrive come un tracollo culturale. “Lavorare su temi sensibili come razza e religione non è mai stata una scelta facile per un docente, soprattutto se le interpretazioni vanno al di là delle convenzioni di sinistra”. Un esempio su tutti: durante gli anni Cinquanta, il grande storico Fernand Braudel cercò di scoraggiare Léon Poliakov dall’occuparsi di antisemitismo. “Per parlare alle conferenze ed essere nominato in posizioni importanti, uno studioso deve prepararsi a descrivere l’era bertà internazionale. Questa generazione di orientalisti è onnipresente sui media. Pensano che il problema di Israele sia la sua stessa esistenza e incoraggiano l’uso della parola ‘islamofobia’. Diventerà sempre più dura per gli intellettuali elaborare posizioni che non vengono accettate dagli islamisti. E i governi non ci aiuteranno per paura di inimicarsi la comunità islamica”. Delacampagne volge lo sguardo alle elezioni: “Nicolas Sarkozy è in grado, a differenza di Ségolène Royal, di far fronte alla minaccia islamista. Ma la Francia deve sconfiggere il proprio nichilismo, ha il diritto e il dovere di difendere i suoi valori, la tolleranza, la libertà di parola e di critica. Quando ho raggiunto via e-mail Redeker poche settimane dopo la fuga, era ancora scosso. ‘Non avrei mai pensato che una cosa simile potesse accadere nella Francia repubblicana’, mi ha scritto. Nemmeno io lo pensavo”.



 







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