CORSA (INSENSATA) ALLA PENSIONE IN UNA SOCIETA' DI CENTENARI
Data: Giovedì, 28 dicembre 2006 ore 00:05:00 CET
Argomento: Opinioni


Corsa (insensata) alla pensione in una società di centenari
Chi va in pensione a 58 anni con 35 di contributi, può aspettarsi di vivere altri 25 anni abbondanti. Solo in parte coperti da versamenti
STRUMENTI
«Non è lecito al governo trincerarsi dietro le difficoltà finanziarie del sistema previdenziale». Indovinello: chi l’ha detto? 1) Paolo Ferrero 2) Alfonso Gianni 3) Paolo Cento. No: il segretario del Pci Luigi Longo, nel dibattito del marzo 1968 sull’abolizione, poi fallita, delle pensioni di anzianità. Quattro decenni dopo, però, il succo del dibattito sulle pensioni non è cambiato molto. Con un’aggravante: adesso sappiamo. Sappiamo ad esempio che l’aspettativa di vita, che allora era di 68,3 anni per l’uomo e 73,5 per la donna, è salita rispettivamente a 77,3 e a 83.
E punta ad allungarsi ancora (evviva) fino ad arrivare, per i quarantenni di oggi, a 83,3 e 88,8 anni. Venti di più dell’età in cui si moriva allora. Una gioia per i protagonisti dell’allungo, un incubo per i conti pubblici. Eppure, a leggere i giornali di ieri, la consapevolezza del tema demografico non abbonda affatto. Anzi. Impallinato sull’ipotesi di innalzare la soglia a 62 anni, il ministro del Lavoro Cesare Damiano si è precipitato a precisare che, per carità, lui sta addirittura «studiando una modifica della legge Maroni per consentire ancora ai lavoratori italiani che abbiano raggiunto i 35 anni di contributi di andare in pensione con meno di 60 anni, ad esempio a 58».
Al che il collega Ferrero, agghindando la sua opinione con la tesi che «disturbare il manovratore» è il «miglior modo di far vivere il governo» (replay del Bertinotti che si preparava anni fa ad affondare Prodi: «I governi migliori sono quelli terremotati») ha spiegato: «Ma quanto vogliamo farli restare in fabbrica? 35-36 anni di lavoro, a seconda di quando si arriva all’età pensione, mi sembrano sufficienti». Non bastasse, si son levate (ovvio) indignate reazioni a destra. Una su tutte, quella di Giulio Tremonti: «Vogliono mettere i pensionati nel tritacarne. Chi può andare in pensione ci vada subito». E dire che le tabelle sono lì, sotto gli occhi di tutti. E danno ragione, per esempio, agli studi dell’americano Robert W. Fogel, dell’Università di Chicago. Il quale, confrontando la salute di circa 5.000 veterani dell’Esercito di alcuni decenni fa e di un analogo campione di oggi, ha potuto stabilire che quelli colpiti da una malattia cardiaca al compimento dei 60 anni sono scesi dall’80 a meno del 50 per cento.
Un miglioramento netto non solo in questo campo: «Il dato più sorprendente è che molte malattie croniche, come quelle cardiache, quelle polmonari e l’artrite compaiono in media da 10 a 25 anni più tardi rispetto al passato», ha spiegato il New York Times. Di più: negli ultimi cento anni, per Fogel, gli abitanti del mondo industrializzato avrebbero avuto una «forma di evoluzione unica non solo per il genere umano ma per le 7.000 generazioni di esseri umani precedenti ». Un dato, per capire: un settantenne di oggi poteva aspettarsi alla nascita, negli anni Trenta, di vivere mediamente 55 anni scarsi. Invece... Insomma: a prender per anno base il 1961, la speranza di vita è aumentata in Italia di 2 anni e mezzo a decennio. Nessuno, spiega lo studioso di demografia Massimo Livi Bacci, «avrebbe immaginato allora una cosa simile. Così come non sarei così ottimista oggi sull’idea che la speranza di vita continuerà meccanicamente a salire.
Per esempio non è detto che possiamo continuare a permetterci questo sistema sanitario. In Russia, quando saltò tutto, la speranza di vita si abbassò. Quindi, cautela...». Guai a prendere i numeri per oro colato. Detto questo, sottovalutarli può essere fatale. Tanto più se mettono spavento. Secondo i calcoli dell’Istat, che tra il 1961 e il 2005 ha registrato un’impennata dell’indice di vecchiaia (il rapporto tra la popolazione con oltre 65 anni e quella con meno di 14) dal 38,9% al 137,7%, siamo destinati a essere stravolti. Basti dire che fra dieci anni gli ultrasessantenni saranno 17.459.984 (quasi tre milioni più di oggi) e fra venti anni esatti (un battito di ciglia, nella storia) addirittura 19.226.581 (cinque più di oggi) nonostante un aumento complessivo della popolazione (+ 205.616) quasi impercettibile. E non è tutto: cresceranno oltre ogni aspettativa non solo gli «over 70» ma anche gli «over 80»: oggi sono 2.898.204, nel 2016 saranno un milione in più: 4.080.881.
Presumibilmente in larga parte bisognosi di assistenza e alle prese con un welfare ridotto rispetto ad oggi. Per non dire dei nonnetti con oltre 90 candeline: oggi sono 491.521, fra vent’anni saranno il doppio: 1.044.592. E il bello è che, in questo Paese gerontofilo (lo sbarbatello delle alte cariche dello Stato è il subcomandante Fausto che ha 66 anni: venti più di Bill Clinton all’ingresso alla Casa Bianca) saranno guardati quasi come dei ragazzi: gli ultracentenari, oggi 9.091, saranno quintuplicati: 45.129. Poco meno che gli abitanti di un capoluogo regionale quale Campobasso. Tema: chi governa (ma anche chi sta all’opposizione) ha il diritto di buttar lì oggi le stesse cose che furono dette nel ’68 in quel delirante dibattito parlamentare, quando perfino il liberale Emilio Pucci si oppose «all’abolizione della pensione di anzianità proprio mentre il progresso tecnologico e la sempre più accentuata automazione delle industrie richiedono manodopera giovane altamente qualificata»? Allora, forse, non era chiaro ciò che sarebbe successo.
Ma oggi, dopo le denunce di mille grilli parlanti, da Pier Paolo Baretta a Giuliano Cazzola ad altri ancora? Dopo che la riforma Dini del ’95 aveva previsto in questi dieci anni un aumento della speranza di vita di un anno e ce ne ritroviamo due? Eppure una tabella con i calcoli belli e fatti già c’è. E dice (Commissione Brambilla 2001) che chi va oggi in pensione a 58 anni con 35 di contributi, può aspettarsi di vivere mediamente, con l’allungarsi della speranza di vita, altri 25 anni abbondanti. Solo in parte coperti dai versamenti che ha fatto nei decenni di lavoro. Bene: dopo aver incassato quanto aveva accantonato, se è un impiegato pubblico verrà mantenuto dalla collettività per altri 10 anni, se è un dipendente privato per altri 8, se è un artigiano o un commerciante (solo cinque anni e mezzo per riavere quanto versato) per altri 20, quasi. E si tratta di calcoli riferiti a sei anni fa. Da ritoccare al rialzo.
Gian Antonio Stella






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