1)
Caratteristica e struttura del contratto.
L’acquisizione
di strumenti informatici è un’attività che esige l’integrazione di competenze
multidisciplinari (tecniche, giuridiche, amministrative), e richiede di adottare
tutti i possibili accorgimenti per garantire la partecipazione di tutti i
potenziali concorrenti, per stimolare la concorrenza nel fornire soluzioni di
qualità e per valutarne in modo oggettivo ed obiettivo le proposte. Questo
processo è un fondamentale momento di crescita delle Amministrazioni
committenti, in quanto le costringe a focalizzare le proprie esigenze e le
proprie capacità di governo delle scelte.
Il rapporto di
un committente con la tecnologia non si esaurisce del resto con la fase di sua
acquisizione: le fasi del ciclo di vita di una tecnologia che seguono l’acquisto
e l’installazione sono anzi quelle forse più importanti ai fini della sua
efficacia. La capacità degli utilizzatori di fare un uso corretto e produttivo
degli strumenti dipende, infatti, in gran parte dai servizi che vengono
associati alla tecnologia acquisita: assistenza all’uso, formazione,
manutenzione, forme di garanzia, monitoraggio delle prestazioni, sono aspetti da
curare con altrettanto dettaglio della acquisizione.
Nell’ambito
delle Amministrazioni Pubbliche, l’informatica viene gestita presentando spesso
ricorso all’impiego di risorse esterne, anche, e talvolta soprattutto, in quelle
attività più critiche la cui diretta gestione dovrebbe assicurare alle
Amministrazioni piena autonomia progettuale e di controllo dei processi di
evoluzione e gestione del sistema informativo.
La Pubblica
Amministrazione stipula con soggetti privati e pubblici contratti di
informatica, i quali hanno la peculiarità di non presentarsi quasi mai come
schemi puri, ma di comprendere prestazioni di varia natura.
La fornitura di
un sistema informatico non si esaurisce, infatti, in una mera locazione o in una
mera compravendita, ma richiede, come condizione essenziale per consentire un
godimento del bene effettivo e conforme ai bisogni dell’utente, anche la
manutenzione del sistema e l’assistenza tecnica.
E’ chiaro che le
varie prestazioni connesse alla utilizzazione di un sistema informatico possono
essere disciplinate o in un unico contratto misto o in più contratti formalmente
distinti ma funzionalmente e teleologicamente collegati.
Ad esempio, la
fornitura di hardware e software non si esaurisce nell’installazione sic et
sempliciter, ma comprende, nella prassi commerciale comune, l’esame delle misure
di sicurezza e delle caratteristiche dei locali ed il training del personale.
I contratti nel
settore informatico possono distinguersi a seconda che abbiano per oggetto
l’hardware, il software ovvero la prestazione di servizi di varia natura.
L’hardware o
struttura rigida dell’elaboratore deve essere considerato alla stregua di tutte
le altre macchine, dato che non differisce da qualsiasi prodotto industriale di
natura meccanica e trova così una sua precisa collocazione nella teoria dei
beni; esso risulta costituito da un’unità centrale (C.P.U. - Central Processing
Unit), in cui si trovano i circuiti elettronici che consentono l’elaborazione
dei dati e da una o più unità periferiche (vale a dire tastiera, dischi, ecc.),
che servono per introdurre i dati in entrata e che, insieme alla prima, formano
la parte materiale del computer.
Gli stessi
contratti relativi all’hardware comprendono, oltre alla macchina ed ai suoi
accessori (terminali, stampanti, ecc.), anche il sistema operativo di base (o
software di base) che comunque può essere oggetto di un autonomo contratto.
Il software o
struttura morbida dell’elaboratore, vista l’impossibilità a tutt’oggi di
definirne in termini univoci la natura giuridica, è difficilmente riconducibile
ad un preciso significato.
Dalla normativa
ISO (International Organization for Standardization) si hanno queste
definizioni:
software:
“Creazione intellettuale che comprende i programmi, le procedure, le regole e la
relativa documentazione, pertinenti al funzionamento di un sistema per
l’elaborazione dati“ (ISO 9000-3);
prodotto
software: “insieme di programmi, procedure e della documentazione e dei dati
associati”(ISO/IEC 12207: 1995);
elemento
software: “parte identificabile di un prodotto software, ad uno stadio
intermedio od allo stadio finale di sviluppo” (ISO 9000-3);
servizio
software: “risultati di attività connesse con un prodotto software, come lo
sviluppo, la manutenzione, la gestione, etc……(ISO 9000-3).
In base alle
indicazioni ed alle linee di tendenza emerse a livello internazionale, si può
affermare che il programma è “......l’insieme di istruzioni scritte in qualsiasi
codice, notazione o linguaggio, anche letterario, destinato direttamente o
indirettamente a fare eseguire all’elaboratore una funzione, realizzare un
compito od ottenere un risultato” (definizione che ricalca, in linea di massima,
quella riportata nell’art. 1 delle “Disposizioni tipo sulla protezione dei
programmi per elaboratore”, curata dall’Organizzazione mondiale della proprietà
intellettuale - O.N.P.I.).
Va precisato che
sussistono due tipi di software, ossia il programma macchina e quello scritto in
linguaggio di programmazione, noto come programma sorgente o source.
Nell’ambito del
software, si procede di solito ad un’ulteriore e più importante distinzione fra
software di base e software applicativo.
Il primo è
costituito dall’insieme di programmi destinati a far funzionare la macchina in
maniera del tutto generica rispetto ad ogni altro tipo di impiego, permettendole
di compiere le operazioni più elementari e favorendone il miglior uso; esso si
caratterizza per la presenza del firmware, appartenente strutturalmente
all’elaboratore, e dei programmi di utilità, chiamati a svolgere varie funzioni,
fra le quali il coordinamento dell’unità centrale con i terminali, la selezione
dei dati secondo determinati criteri, ecc.
Mentre il
firmware viene fornito dagli stessi produttori delle apparecchiature e segue
quindi la sorte del contratto principale, i programmi di utilità possono essere
distribuiti dal costruttore dell’ hardware con il medesimo contratto o formare
oggetto di un negozio separato, anche se quest’ultimo caso è piuttosto raro
nella Pubblica Amministrazione.
Il software
applicativo comprende, invece, una serie di programmi o pacchetti di programmi
predisposti allo scopo di portare a termine una funzione specifica o di
risolvere un particolare problema dell’utente nell’ambito gestionale,
produttivo, tecnico.
Nell’interno di
questo tipo di software, si possono distinguere due categorie: il proprietary
package (o software applicativo standardizzato), cioè un programma
commercializzato dalla ditta fornitrice secondo un modello generale e
standardizzato e suscettibile di essere utilizzato dall’utente senza ulteriori
modifiche e il tailored software (o software applicativo personalizzato), vale a
dire un programma studiato e prodotto su ordinazione, allo scopo di soddisfare
determinate esigenze di tipo operativo dei singoli utilizzatori.
La produzione e
la fornitura del software, a seguito della crescente estensione delle sue
possibilità operative e del raggiungimento di una certa autonomia rispetto agli
elaboratori su cui deve intervenire, hanno finito con il formare oggetto di
prestazione di imprese specializzate (software houses) o di singoli specialisti,
uscendo dall’ambito esclusivo delle imprese costruttrici di hardware.
Oltre
all’hardware ed al software, i contratti nel settore informatico possono avere
ad oggetto anche “....la prestazione di servizi connessi, specificatamente, con
l’uso delle stesse apparecchiature e prodotti e, più in generale, con il
funzionamento di sistemi di elaborazione elettronica di dati e d’informazioni”
[1].
In linea di
massima, si può dire che le modalità delle prestazioni risultano essere
differenti e difficilmente riconducibili in un’unica tipologia.
Volendo operare
una classificazione dei servizi, cui più frequentemente ricorre la Pubblica
Amministrazione, appare corretto distinguere tra servizi di natura
tecnico-applicativa e servizi affidati a terzi.
I primi sono
particolarmente diffusi in relazione all’utilizzo delle apparecchiature e dei
programmi e si concretizzano in prestazioni di consulenza e di assistenza, come
la progettazione di sistemi (studi di fattibilità), l’analisi e lo sviluppo di
programmi applicativi specifici, l’ottimizzazione delle risorse hardware e
software.
I secondi si
riferiscono all’attività di consulenza e di programmazione offerta da un’impresa
(service bureau), che si impegna ad elaborare i dati del cliente sul proprio
sistema informativo, ricorrendo a software applicativi in forma standardizzata
per semplici funzioni di tipo generico (per esempio, tenuta della contabilità,
controllo dell’inventario, ecc.) e a fornire spesso prestazioni collaterali,
quali la conversione dei dati stessi in linguaggio comprensibile alla macchina e
la consulenza diretta all’individuazione delle specifiche esigenze di
programmazione.
Una variante non
molto dissimile dallo schema appena esaminato è il servizio di elaborazione, cui
possono fruire simultaneamente più utenti collegati tramite terminali ad un
potente sistema centrale (time-sharing service bureau).
La distinzione
proposta fra hardware, software e servizi, oltre che estremamente utile ai fini
di una corretta classificazione, risponde altresì alla necessità di tener conto,
a livello contrattuale, della varietà ed eterogeneità dei beni e servizi nel
settore informatico.
E’ chiaro che le
varie prestazioni connesse alla utilizzazione di un sistema informatico, possono
essere disciplinate o in un unico contratto misto o in più contratti formalmente
distinti ma funzionalmente e teleologicamente collegati.
Nel caso in cui
il complesso degli accordi sia redatto in testi separati (pluralità dei
contratti), purché stipulati con lo stesso contraente, l’unitarietà
dell’operazione, sotto il profilo economico, si riflette nel collegamento
negoziale, funzionale e teleologico, tra le diverse parti dell’accordo
[2].
Nel caso del
regolamento contrattuale redatto in un unico testo (contratto unico) raramente è
enucleata una sola prestazione, corrispondente ad uno schema tipico puro, ma il
più delle volte si è di fronte ad una pluralità di schemi contrattuali tipici,
nel caso di contratto misto, e atipici, nel caso di contratto complesso, fusi in
un’unica causa, per la realizzazione di un interesse unitario sul piano
pratico-economico.
Ad esempio, la
fornitura di hardware e software non si esaurisce nell’installazione sic et
simpliciter, ma comprende, nella prassi commerciale comune, l’esame delle misure
di sicurezza e delle caratteristiche dei locali ed il training del personale.
In proposito, la
giurisprudenza (App. Torino del 15 febbraio 1985), ragionando in termini di
unico contratto misto, ha ritenuto che “quando, nella vendita di un elaboratore
elettronico, il venditore assuma l’obbligazione di fornire al completo il
sistema prescelto dall’acquirente, oggetto del negozio stipulato fra le parti
non sia un semplice elaboratore, ma un vero e proprio sistema di elaborazione da
adattare alle esigenze del compratore; pertanto la fornitura incompleta dei
programmi dà luogo ad inadempimento contrattuale, sanzionabile con la
risoluzione del contratto” [3].
Anche il
Tribunale di Torino nella decisione del 13 marzo 1993
[4] preferisce parlare di un unico
contratto.
Il problema
dell’accertamento della natura di contratti misti o collegati è una res facti e
come tale suscettibile di essere ancorata a valutazioni astratte e generali
[5].
E’ il caso
concreto che si presenta di volta in volta, il punto di partenza per le
valutazioni dell’interprete. E’ chiaro, infatti, che nel caso di più fornitori
non si potrà certo parlare di unico contratto misto ma più correttamente di
contratti collegati.
Benché le due
soluzioni si presentino entrambe come astrattamente idonee a soddisfare le
esigenze contrattualmente complesse dei contratti di utilizzazione del computer,
la dottrina pare preferire l’ipotesi dei contratti collegati. La giurisprudenza,
come sopra visto, preferisce, invece, la figura dell’unico contratto misto.
La soluzione dei
conflitti nascenti dallo svolgimento di rapporti consistenti nell’insieme di
operazioni plurime andrebbe, infatti, rinvenuta, non tanto nell’individuazione
dello schema applicabile in base a una valutazione di sintesi (principio
dell’assorbimento o della prevalenza), quanto piuttosto dall’identificazione
della singola prestazione (principio della combinazione), e quindi dello schema
contrattuale ad essa applicabile, rispetto alla quale è sorto il contrasto
[6].
La disciplina
complessiva, perciò, non sarà quella di un unico schema tipico, corrispondente
alla prestazione prevalente, quantitativamente o economicamente, bensì la somma
di tante discipline specifiche quante sono le diverse utilità che formano il
contenuto globale unitario della pluralità di negozi.
Pertanto in caso
di controversia, dovrà essere applicata di volta in volta la disciplina della
vendita (art. 1470-1547 c.c.) per le questioni concernenti i beni acquisiti,
quella della locazione (art. 1571-1614 c.c.) per i beni in godimento, quella
dell’appalto (art. 1655-1677 c.c.) per opere ed i servizi forniti e così via.
Il riferimento
alla dottrina dei contratti collegati, che contempla una pluralità di contratti
separati, non significa, ovviamente, che non si debba tener conto
dell’unitarietà dell’operazione, e quindi del condizionamento reciproco tra le
varie prestazioni, specie per quanto concerne validità ed efficacia del
contratto e risarcimento dei danni. Seguire la strada della divisione
contrattuale significherebbe assecondare “l’intento di circoscrivere
responsabilità e garanzie del produttore alla fornitura delle singole parti,
escludendo ogni sua responsabilità per l’eventuale inidoneità del sistema nel
suo complesso” [7].
Per esempio, il
contratto di assistenza, o manutenzione, di hardware o di software, anche se
stipulato separatamente, è funzionalmente ed economicamente essenziale e deve
considerarsi comunque parte integrante del rapporto che ha per oggetto
l’acquisizione di un sistema informatico, perché soltanto idonee revisioni
periodiche e tempestivi interventi per la riparazione dei guasti dell’hardware,
nonchè aggiornamenti e correzioni del software, consentono un’utilizzazione
sicura ed effettiva del sistema medesimo.
Ovviamente anche
in questo caso la valutazione sul collegamento contrattuale dovrà essere
ancorata ad un esame del caso concreto.
Non vi è
tuttavia chi non abbia obiettato[8]
che un tale tipo di impostazione tradisce una fiducia eccessiva nell’oggetto del
contratto inteso come insieme delle prestazioni, che nel nostro ordinamento
svolgerebbe un ruolo importante ma non esaustivo.
Il procedimento
di qualificazione del contratto, per la sua riconduzione ad un tipo legale,
passa, infatti, alla stregua dei principi generali, attraverso le procedure di
interpretazione del contratto, di integrazione (con le clausole negoziali
d’uso), di esame della causa e di valutazione della distribuzione dei rischi tra
le parti nel rispetto del principio dell’equilibrio sinallagmatico e del
criterio di buona fede [9].
2) La
clausola aperta.
In merito ai
contratti di informatica stipulati dalla Pubblica Amministrazione, la
Commissione delle Comunità Europee (COM – 2000 - 275 def. del 10.5.2000) ha
constatato la necessità del ricorso a tecniche che consentano ai committenti di
beneficiare dell’evoluzione dei prodotti e dei prezzi. Essa ha osservato che in
appalti in costante evoluzione come gli appalti di prodotti e servizi nel
settore delle tecnologie dell’informazione, è difficilmente giustificabile,
sotto il profilo economico, vincolare i committenti pubblici a prezzi e
condizioni fissi. Di conseguenza, questo tipo di appalto deve essere improntato
alla necessaria flessibilità, almeno nei suoi elementi essenziali.
La necessità di
inserire una clausola contrattuale (c.d. clausola aperta) che disciplini tale
ipotesi deriverebbe dal fatto che i vantaggi conseguibili nei riguardi del
committente e connessi alle grandi quantità di prodotti forniti, restano spesso
vanificate dalla lunga durata del rapporto contrattuale e dalla concomitante
forte obsolescenza tecnica delle forniture dei prodotti previsti e non ancora
consegnati.
In altri
termini, anche se i prezzi unitari possono considerarsi particolarmente
convenienti, nondimeno tale vantaggio non equivale ovvero non supera lo
svantaggio dato dall’invecchiamento precoce delle singole unità di prodotto.
Sembra,
pertanto, opportuno inserire nei contratti in oggetto una clausola contrattuale
( c.d. clausola aperta ) per effetto della quale sarebbe consentito
all’Amministrazione, nei riguardi del soggetto prescelto, operare riscontri
periodici del prezzo pattuito e, in presenza di scostamenti che dovessero
superare determinate soglie, pretendere conseguentemente la riduzione del prezzo
predetto.
L’operatività
della clausola andrebbe abbinata ad una coerente scomposizione dell’acquisto del
quantitativo complessivo in lotti diversi, nei riguardi dei quali sarebbe dato
applicare il meccanismo revisionale.
La formula
contrattuale dovrebbe altresì prevedere che, secondo una logica non dissimile da
quella indicata, all’Amministrazione resterebbe consentito verificare
periodicamente l’esistenza sul mercato di configurazioni di prodotto migliori o
più convenienti - rispetto al prezzo contrattuale inizialmente pattuito – e,
quindi, ove l’analisi di mercato desse riscontri favorevoli, mutare, in corso di
contratto, l’ordinativo di lotti successivi di prodotto, passando così dalle
configurazioni già identificate ad altre più confacenti. Il risultato utile
sarebbe dato dalla possibilità di acquistare, per un prezzo complessivo
predefinito, prodotti costantemente aggiornati alle esigenze
dell’Amministrazione che dovessero evolvere nel corso dell’adempimento del
contratto.
Trattasi di una
normale fattispecie di revisione del prezzo; un istituto, questo, ora
disciplinato dall’articolo 6, comma 4, della legge n. 537 del 1993, come
modificato dall’articolo 44 della legge 724 del 1994, che ne pretende
l’applicazione a tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa.
Ovviamente, il
prezzo di riferimento dovrebbe essere un parametro acquisito in via preventiva,
attraverso l’analisi del mercato ed utilizzabile per definire il prezzo da porre
a base d’asta. Mentre, evidentemente, i prezzi di riferimento assunti dopo la
stipulazione possono essere utilizzati come parametro ricadente nella dinamica
applicativa della clausola revisionale.
Inoltre, va
evidenziato che, nell’ipotesi di scelta dell’affidatario avvenuta attraverso una
procedura concorsuale, al fine di evitare la modificazione illegittima
dell’oggetto del contratto d’appalto stipulato dopo l’aggiudicazione, la facoltà
di variare la configurazione dei prodotti originariamente pattuiti deve essere
esercitata attraverso la sostituzione di singoli oggetti all’interno della
configurazione predefinita.
Infine, è da
rilevare che la normativa comunitaria in materia sia di appalti di forniture che
di servizi contempla la possibilità che i contratti rechino opzioni. Pertanto,
la possibilità di modificare parzialmente l’oggetto dell’accordo, in corso di
esecuzione, pare potersi ricondurre, appunto, ad una facoltà di opzione in
favore dell’Amministrazione, riconosciuta a livello comunitario.
3) Gli studi
di fattibilità.
Ogni
Amministrazione, prima della stipulazione dei contratti per la progettazione,
realizzazione, manutenzione e conduzione operativa dei sistemi informativi
automatizzati, deve procedere all’esecuzione di studi di fattibilità,
finalizzati alla definizione degli obiettivi organizzativi e funzionali
dell’Amministrazione interessata (art. 13 D. lgs. n. 39/93), ossia delle
finalità che si intendono perseguire e delle modalità da seguire per
raggiungerle, tenendo conto dei tempi, dei costi previsti e delle risorse
occorrenti, nonché dei vincoli (specie di carattere organizzativo) eventualmente
da appianare.
E’ interessante
osservare come tale meccanismo sia stato previsto per i contratti di grande
rilievo, determinati come tali dall’ Autorità per l’Informatica nella Pubblica
Amministrazione in sede di programmazione triennale degli interventi e di
predisposizione dei provvedimenti che compongono la manovra di finanza pubblica.
La previsione di
questa normativa è dovuta al fatto che non sempre le iniziative di
informatizzazione e gli specifici progetti riescono a cogliere compiutamente gli
obiettivi di miglioramento desiderati. Si registra infatti una notevole
difficoltà ad avviare progetti e a concluderli secondo i piani, a concentrare
gli investimenti sulle aree di attività legate alla missione istituzionale e sui
processi di servizio più significativi, a integrare l’automazione con altri
interventi organizzativi e normativi, ad individuare soluzioni tecnologiche
coerenti con gli obiettivi di apertura ed integrabilità dei sistemi.
Lo studio di
fattibilità può costituire uno strumento importante per ottenere un sostanziale
miglioramento nell’utilizzo dei sistemi informativi e nell’efficacia e
nell’efficienza delle nuove iniziative.
L’obiettivo
fondamentale dello studio di fattibilità è quello di fornire ai centri di
responsabilità dell’ Amministrazione l’insieme delle informazioni necessarie
alla decisione per l’effettivo avvio della realizzazione di un progetto e quindi
sull’investimento necessario. Queste informazioni riguardano la fattibilità
tecnica e organizzativa, i benefici, i costi, i rischi, le scadenze temporali.
Per rispondere a
questo obiettivo lo studio di fattibilità deve rendere esplicite le condizioni
che rendono conveniente l’effettuazione di progetti di adeguamento dei sistemi
informativi automatizzati, chiarendo i benefici attesi ed evidenziando come essi
rispondono agli obiettivi di miglioramento individuati e valutando i rischi e
correlando tutti questi elementi. Lo studio deve contestualmente dare
concretezza all’ipotesi progettuale, verificando l’esistenza di un’adeguata
soluzione tecnico-organizzativa situata all’interno dei vincoli economici e
temporali dati, anche attraverso il confronto tra soluzioni diverse e la scelta
tra esse sulla base di criteri esplicitati e predefiniti, nonché fornire
elementi oggettivi per la definizione dell’eventuale ricorso al mercato ed alle
sue modalità.
La necessità di
effettuare uno studio di fattibilità nasce dal fatto che si è individuato un
possibile progetto che per dimensione economica, complessità dell’intervento,
incertezza sui requisiti e scelte da compiere sulle possibili alternative,
richiede un approfondimento prima di avviare la fase realizzativa, pena la
possibilità di avviare un progetto ad alto rischio di insuccesso.
Lo studio di
fattibilità quindi nasce sempre in presenza di un’idea progettuale già
esistente, che comprende gli elementi essenziali dell’individuazione del
problema e dell’area di intervento, le principali linee di intervento previste,
una definizione preliminare del progetto.
Non è quindi
compito dello studio di fattibilità individuare le esigenze di fondo che stanno
all’origine del progetto e quindi non ha senso caricare lo studio di fattibilità
di teoriche necessità di definire, attraverso tecniche specifiche, le opzioni di
fondo del “dove operare”, “cosa ricercare”, ecc.
Il problema vero
è quello di dare concretezza all’idea progettuale e di fornire tutti gli
elementi per l’avvio della fase realizzativa, sviluppando ciò che in precedenza
era solo un’idea progettuale, inevitabilmente generica e non sufficientemente
verificata e valutata. E’ attraverso lo studio che si dà sostanza all’ipotesi di
sistema che si intende realizzare e se ne cominciano a definire contenuti,
servizi da erogare, componenti; che si possono descrivere e misurare i benefici
attesi; che si individuano gli impegni necessari alla realizzazione e i relativi
costi, che si evidenziano e valutano i rischi che ci si accinge ad affrontare,
definendo nel contempo le modalità di realizzazione e di controllo del progetto
che consentiranno di ridurli.
La necessità di
definire in termini generali i progetti e di formalizzare tale definizione
attraverso la descrizione degli elementi essenziali del progetto di massima vale
per tutti i progetti di informatizzazione. Tuttavia la realizzazione di un vero
e proprio studio di fattibilità, che inevitabilmente implica impegno di risorse
e di tempo, va prevista essenzialmente per progetti significativi, tesi alla
realizzazione di sistemi informativi che impattano sui processi di servizio e di
dimensioni medio-grandi.
Tra questi
figurano in particolare i progetti di realizzazione o reingegnerizzazione di
sistemi applicativi, di realizzazione o reingegnerizzazione di infrastrutture
tecnologiche, i progetti globali di automazione d’ufficio, i progetti tesi alla
esternalizzazione delle attività di conduzione dei sistemi.
Uno dei compiti
principali dello studio di fattibilità è quindi quello di fornire tutti gli
elementi essenziali per la definizione dell’approvvigionamento dei
prodotti/servizi previsti dal progetto oggetto di studio.
Lo studio di
fattibilità dovrà pertanto contenere tutte le indicazioni necessarie alla
stesura del capitolato di gara e quindi sia le informazioni di base per la
stesura dell’allegato tecnico, sia le informazioni utili alla determinazione del
fornitore, alla definizione delle modalità di approvvigionamento e alla
formalizzazione dei criteri di scelta delle offerte.
Obiettivo finale
dell’utilizzo dei sistemi informativi automatizzati è quello di contribuire al
miglioramento dei processi di servizio ed è evidente che, per ottenere risultati
effettivi in termini di efficacia ed efficienza nell’erogazione dei servizi, è
necessario che i progetti informatici si collochino in un contesto di
razionalizzazione complessiva dei processi di servizio. Questo è ancor più
importante nella Pubblica Amministrazione dove sono presenti rischi concreti che
l’automazione intervenga su processi comunque obsoleti e mal organizzati e dove
perdurano visioni esclusivamente tecnologiche dei sistemi informativi.
E’ quindi
necessario che nella definizione di un progetto informatico si assuma un punto
di vista complessivo sul processo (o sull’insieme omogeneo di processi su cui ci
si propone di intervenire), esplicitando gli obiettivi di miglioramento ed
indicando le necessarie iniziative collaterali all’intervento informatico.
Molto spesso,
per ragioni di opportunità e/o convenienza, si impone la necessità di ricorrere
all’esterno tramite apposito contratto di studio, soprattutto per la ricerca di
prodotti nuovi e per la definizione delle specifiche tecniche, indispensabili
per una corretta valutazione dei costi e dei benefici e quindi anche per
un’efficace redazione dello studio di fattibilità.
Al riguardo, va
precisato che, qualora lo studio di fattibilità sia affidato ad imprese
specializzate, a quest’ultime è preclusa la possibilità di partecipare alla
procedura per l’aggiudicazione dei contratti di realizzazione del sistema
informativo (ivi compresa, se ne ricorrono i presupposti, la procedura
negoziata, ossia la trattativa privata), mentre l’Amministrazione contraente
dovrà rispettare le disposizioni comunitarie in materia di appalti pubblici di
servizi, sempre che siano superati gli importi minimi di applicabilità di tali
norme.
4) La scelta
del contraente.
La fase di
scelta del contraente si rivela alquanto delicata in campo informatico, dato che
l’Amministrazione si trova ad operare in un mercato piuttosto eterogeneo,
caratterizzato dalla presenza di diversi tipi di fornitori di elaboratori
elettronici (produttori di hardware, software-houses, consorzi, società miste,
ecc.) e da un quadro giuridico di riferimento complesso e articolato.
A ciò si
aggiunga, il contrasto fra le varie normative, nazionali e comunitarie, che nel
corso del tempo hanno tentato di uniformare i metodi di scelta dell’impresa con
cui negoziare.
Al riguardo, va
ricordato infatti che la L. 30 marzo 1981, n. 113, e successive integrazioni,
che ha recepito la disciplina comunitaria in tema di adeguamento delle procedure
di aggiudicazione delle pubbliche forniture, aveva stabilito, per le forniture
di importo superiore ai 130.000 E.C.U., che i sistemi per l’aggiudicazione
dell’offerta dovessero essere i pubblici incanti (procedura aperta), in virtù
dei quali tutti possono partecipare alla gara indetta dalla Pubblica
amministrazione o la licitazione privata e l’appalto concorso (procedura
ristretta), secondo cui sono ammessi a concorrere soltanto soggetti
prequalificati.
Il testo unico
emanato con il D. lgs. 24 luglio 1992, n. 358, in attuazione delle direttive
77/62/CEE, 80/767/CEE e 88/295/CEE, ha cercato di fare ordine nella disciplina
degli appalti pubblici di forniture, abrogando i precedenti provvedimenti
legislativi in materia.
Esso stabiliva,
in primo luogo, che la forma d’affidamento principale da adottare - nelle
forniture d’importo superiore ai 200.000 E.C.U. - fosse, di norma ed in via
generale, quella della gara aperta a tutti i concorrenti che sono in possesso
dei requisiti richiesti (procedura aperta).
Il ricorso alla
licitazione privata o all’appalto concorso (procedura ristretta) era invece
possibile solo in presenza di specifiche condizioni, per lo più di ordine
tecnico, non facilmente ed oggettivamente dimostrabili.
Molto più chiare
sono le motivazioni del ricorso alla trattativa privata (procedura negoziata),
una novità nella legislazione in materia: nella legge n. 113/81, essa non era,
infatti, contemplata, pur essendo praticata dalle Amministrazioni, anche in
relazione a casi di effettiva necessità.
Più
precisamente, tale sistema d’asta può essere utilizzato solo nei casi
tassativamente indicati nel decreto (fra l’altro, unico fornitore, speciali ed
eccezionali circostanze, ecc.) ed impone comunque alle Amministrazioni
aggiudicatrici di redigere un apposito verbale recante la motivazione del
ricorso a detta procedura.
Il d. lgs. 20
ottobre 1998, n. 402, ha apportato rilevanti modificazioni ed integrazioni, tra
queste si segnala, al riguardo, l’equiparazione tra gara aperta e ristretta. Il
comma 5 dell’art. 8, che sostituisce l’art. 9 del d. lgs. n. 358/92 fa cadere la
precedente gerarchia nelle procedure, in forza della quale la procedura aperta
era da considerare la regola e la procedura ristrette l’eccezione; non occorre
più, pertanto, giustificare perché sia scelta la procedura ristretta, ormai
posta sullo stesso piano di quella aperta, così come previsto dalla normativa
che disciplina gli appalti pubblici di servizi e di lavori. Per quanto concerne
la disciplina della trattativa privata, questa è rimasta sostanzialmente
invariata.
A questo punto,
va ricordato come, il d. Lgs 17 marzo 1995, n. 157, emanato in attuazione della
direttiva CEE 18 giugno 1992, n. 50, modificato ed integrato dal d. Lgs. 25
febbraio 2000, n. 65 che si applica agli appalti pubblici di servizi di importo
superiore ai 200.000 diritti speciali di prelievo (D.P.S.) prevede, fra le
fattispecie da regolamentare, anche i servizi informatici ed affini.
Essa individua,
all’art. 6, quali sistemi di aggiudicazione degli appalti, tre tipi di
procedure, ossia le procedure aperte, le procedure ristrette, le procedure
negoziate, mentre all’art. 26 prende in esame i concorsi di progettazione.
La peculiarità
della nuova disciplina riguarda proprio l’ultimo tipo di procedure, i concorsi
di progettazione, che sono destinate ad individuare, con o senza l’attribuzione
dei premi, l’affidatario degli incarichi in vari settori, fra i quali quello
dell’elaborazione dei dati.
Tale affidatario
deve essere prescelto, previo espletamento di una vera e propria gara, a cura di
una commissione aggiudicatrice, in base a criteri selettivi chiari e non
discriminatori.
Le normative
nazionali e comunitarie appena descritte risultano parzialmente in contrasto con
la disciplina contenuta nel Capitolato d’oneri in materia di informatica del
Provveditorato generale dello Stato del 1986 e nella legge 11 novembre 1986, n.
770.
Infatti, il
Capitolato prevede, in generale, il ricorso alla licitazione privata o
all’appalto concorso ed in casi limitati (da motivare debitamente) alla
trattativa privata, preceduta da un’esplorazione di mercato e da un invito a più
imprese per la scelta delle quali si prevede di integrare e aggiornare l’Albo
dei fornitori del Provveditorato stesso (art. 6, comma 6); esso non rivolge
invece alcun cenno al metodo dei pubblici incanti che, secondo l’orientamento
comunitario, dovrebbe essere la procedura normale da seguire.
La legge n.
770/86 contempla il ricorso alla trattativa privata con un preventivo confronto
concorrenziale, per le acquisizioni di prodotti ad elevata tecnologia già
disponibili sul mercato(art. 4, comma 3).
Per quanto
concerne, infine, le disposizioni contenute nel D. lgs. n. 39/93 e, più in
particolare, quelle che attengono alle procedure negoziali da seguire, l’art. 2
prevede, al riguardo che le Amministrazioni debbano di norma provvedere
direttamente, con proprio personale, alla progettazione, allo sviluppo ed alla
gestione dei propri sistemi informativi automatizzati.
Solo nel caso di
particolari necessità di natura tecnica, adeguatamente motivate, le singole
Amministrazioni possono rivolgersi a terzi, anche attraverso l’ istituto della
concessione, sempre che la relativa proposta sia contenuta e venga accolta
(dall’ Autorità) nel piano triennale di automazione.
Si è dell’avviso
che la concessione di servizi ricada in una fattispecie di tipo meramente
negoziale e, come tale, debba essere sottoposta all’applicazione delle
disposizioni comunitarie in materia di appalti pubblici di forniture e/o di
servizi, senza invece limitarsi all’esclusivo richiamo della trattativa privata.
Ciò appare
confermato, seppur indirettamente, dalla direttiva n. 92/50, la quale conteneva,
in una versione provvisoria, una definizione esclusivamente contrattuale della
concessione di pubblici servizi, soppressa poi in sede di redazione definitiva
del provvedimento.
A ciò si
aggiunga che anche lo stesso parere del Consiglio di Stato dell’11 novembre
1991, n. 354/90 sembra confermare come l’informatica nella Pubblica
Amministrazione non rivesta la natura di pubblico servizio, ma debba semmai
essere considerata semplicemente come una modalità organizzativa di servizi e
funzioni di prevalente natura tecnica, con la conseguenza che pure la
concessione di progettazione, realizzazione e gestione di un sistema informativo
pubblico andrebbe inquadrata in una fattispecie di natura contrattuale.
Il dibattito è
comunque, al riguardo, piuttosto vivace e tutt’altro che chiuso, anche perché,
in sede comunitaria, è in corso di elaborazione il progetto per la redazione di
una carta europea dei servizi pubblici e si sta definendo una bozza di direttiva
per regolamentare il delicato settore delle concessioni.
Da quanto si
evince dal “Progetto di comunicazione interpretativa della Commissione su: le
concessioni nel diritto comunitario degli appalti pubblici”, elaborato dalla
Commissione Europea - Direzione Generale XV - Mercato interno e servizi
finanziari - Politica degli appalti pubblici - pur nel silenzio della direttiva
92/50/CEE, che non contiene una definizione della nozione di concessione di
servizi, gli elementi distintivi propri della nozione di concessione di lavori,
definita dal legislatore comunitario nella direttiva 93/37/CEE, sono comuni
anche alla nozione di concessione di servizi: “una concessione, infatti, riveste
le stesse caratteristiche distintive indipendentemente dall’oggetto che le è
proprio”. Pertanto, come per le concessioni di lavori, il criterio della
gestione costituisce una caratteristica essenziale per determinare se si è in
presenza di una concessione di servizi. In virtù di questo criterio, nella
concessione di servizi l’imprenditore assume il rischio di gestione del servizio
remunerandosi per una parte significativa presso l’utente, in particolare
mediante la riscossione di canoni, sotto qualsiasi forma; se il rimborso dei
finanziamenti fosse assicurato dall’Amministrazione senza l’alea connessa alla
gestione, l’elemento rischio verrebbe meno ed il contratto dovrebbe essere
considerato come appalto e non come concessione.
Tralasciando
quindi, per il momento, le soluzioni adottate dalle normative in precedenza
citate circa i metodi di aggiudicazione delle offerte nello specifico comparto
dell’informatica pubblica, si ritiene opportuno procedere ad alcune
considerazioni generali sulla loro validità e sui loro limiti.
Bisogna dire,
innanzi tutto, che l’asta pubblica non sempre risulta essere adeguata allo
scopo, in quanto sottopone l’Amministrazione ad una serie di adempimenti e di
procedure che richiedono un lasso di tempo piuttosto lungo, in contrasto con la
necessità di disporre tempestivamente degli elaboratori elettronici; inoltre,
essa si basa su criteri di aggiudicazione eccessivamente legati al fattore
prezzo ed alla comparabilità di beni e servizi offerti che, in ambito
informatico, si dimostra essere difficilmente realizzabile, se si considera che
gli Enti Pubblici sono in genere sprovvisti delle competenze tecniche
indispensabili per distinguere o confrontare, ad esempio, software di diversa
natura e provenienza.
Anche la
licitazione privata appare scarsamente utilizzabile, poiché gli Organi
amministrativi incorrono sovente in notevoli difficoltà nel predisporre
prescrizioni tecniche o capitolati definiti nei minimi particolari e nel
giudicare successivamente le proposte, sulla scorta dell’indicazione del prezzo
più basso. Anche nell’ipotesi che si applicasse la normativa comunitaria, che
prevede l’aggiudicazione in base all’offerta economicamente più vantaggiosa,
permangono comunque dei problemi, dovuti alla necessità di effettuare
valutazioni sui diversi elementi che compongono la prestazione ( valore tecnico,
qualità, rendimento, ecc.) e di avere in seguito il coraggio di assegnare il
contratto anche a chi non abbia presentato il prezzo più conveniente.
La procedura di
scelta più consona nel settore informatico sembra essere l’appalto concorso che,
oltre a mantenere le caratteristiche positive della gara ristretta (vista la
presenza delle sole ditte ritenute idonee), consente all’Amministrazione un
giudizio più meditato delle soluzioni proposte, attraverso una serie di
comparazioni e verifiche di tipo economico e tecnico.
Tale procedura
viene utilizzata per l’acquisizione di prodotti e servizi per i quali non si
ritiene possibile stabilire capitolati tecnici; il soggetto pubblico, forniti
gli obiettivi di massima e le indicazioni di fattibilità operativa, lascia alle
imprese specializzate il compito di presentare, nei termini, modi e forme
stabiliti nella lettera d’invito, i progetti tecnici relativi all’iniziativa di
automazione, con l’indicazione dei rispettivi prezzi. Spetterà poi agli organi
interni o ad apposite commissioni procedere, insindacabilmente, alla scelta
della soluzione migliore, sulla base delle condizioni di esecuzione, tecniche ed
economiche più convenienti e richiedendo, eventualmente, gli aggiornamenti e le
rettifiche ritenuti opportuni.
Affinché
l’appalto concorso risulti davvero efficace, bisogna che l’Amministrazione, in
sede di gara, fornisca con chiarezza gli obiettivi di massima dei progetti,
avvalendosi dei risultati delle ricerche condotte in via preliminare per la
predisposizione degli studi di fattibilità. In tal modo, le offerte presentate
risultano improntate a criteri di omogeneità, pur nel rispetto della creatività
e originalità dei singoli contraenti e permettono, quindi, di effettuare
valutazioni, comparazioni e scelte, realizzando contestualmente un certo
contenimento dei costi ed un maggior sfruttamento della ricerca e dello sviluppo
tecnologico, a livello di mercato.
In realtà, anche
se l’appalto concorso sembrerebbe essere la procedura di scelta del contraente
più adatta in campo informatico, la maggior parte delle Amministrazioni ha fatto
ricorso, finora, alla trattativa privata, che consiste nello stringere un
rapporto negoziale con una ditta, senza avere esperito nessuna gara o solo dopo
aver sondato il mercato con una rapida indagine preliminare (confronto
concorrenziale).
Le ragioni della
preferenza per tale procedura sono varie, ma possono sinteticamente essere
indicate nell’urgenza di provvedere celermente all’automazione dei servizi,
nella mancanza all’interno di ogni singola realtà amministrativa delle
indispensabili competenze tecniche per svincolarsi definitivamente dalle imprese
che hanno stimolato le prime applicazioni informatiche e, infine, nell’esigenza
di mantenere un continuo contatto con i fornitori, soprattutto nella fase di
definizione di specificazione dei bisogni.
In effetti, il
ricorso alla trattativa privata dovrebbe essere limitato ad alcuni casi
eccezionali tassativamente previsti nella legge di contabilità generale dello
Stato e nelle disposizioni comunitarie, ma molte Amministrazioni hanno potuto
usufruire di normative ad hoc che ne consentono l’utilizzo, precisando
addirittura il tipo di impresa con cui contrattare. E’ il caso della
realizzazione, gestione e sviluppo di sistemi informativi affidata, in base a
particolari convenzioni, a società a prevalente partecipazione pubblica (o
statale) [10].
Il Trattato
C.E.E. non limita la facoltà degli Stati membri di ricorrere alla concessione o
ad altre forme analoghe di partnerariato pubblico-privato, purché le modalità di
scelta siano compatibili con il diritto comunitario. Come affermato dalla Corte
di giustizia nella giurisprudenza concernente le direttive in materia di appalti
pubblici, gli Stati membri, pur rimanendo liberi di stabilire regole materiali e
procedurali, sono tenuti ad osservare tutte le disposizioni pertinenti del
diritto comunitario e, in particolare, i divieti che derivano dai principi
sanciti dal Trattato in tema di diritto di stabilimento - articolo 52 e seguenti
- e di libera prestazione di servizi - articolo 59 e seguenti - (sentenza del 9
luglio 1987, cause riunite 27/86, 28/86 e 29/86, Bellini). Pertanto, la Corte ha
considerato contrarie a dette norme del Trattato ed al principio della parità di
trattamento le disposizioni che riservano determinati appalti pubblici alle
società a prevalente o totale partecipazione statale o pubblica (sentenza del
5.12.1998, C-3/88, Data Processing).
Al riguardo va
ricordato che l’articolo 15 della legge 19.2.1992, n. 142 (Disposizioni per
l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità
Europee) ha abrogato tutte quelle disposizioni che affidavano appalti di
forniture nel settore dell’informatica a società costituite con prevalente
partecipazione statale, anche indiretta.
A conclusione
dell’analisi critica circa i metodi di scelta del contraente più adatti per la
Pubblica Amministrazione nel settore informatico, si può ribadire che l’appalto
concorso sembra tener conto in misura maggiore della peculiarità dei negozi
posti in essere ed appare, quindi, come la soluzione più indicata per un’estesa
ed obiettiva esplorazione dei mercati.
5) Il
controllo interno di gestione.
La funzione del
controllo nasce e si specifica in riferimento all’attività produttiva alla quale
il controllo stesso si applica ed alle interdipendenze che sussistono tra il
sistema controllato e gli altri soggetti economici che operano sul mercato.
Il controllo
esterno ha scopi e caratteristiche diversi dal controllo interno. Il controllo
esterno risponde ad un’esigenza di informazioni da parte della generalità dei
cittadini sulle attività pubbliche; esso è volto a far rispettare le regole, le
procedure ed i vincoli che limitano le scelte degli amministratori e
disciplinano i modi di porre in atto pubbliche attività.
Il controllo
interno ha, invece, la prevalente finalità di verificare e/o di elevare il
livello di efficienza e di efficacia raggiunto nel corso della gestione; esso
risponde ad esigenze di conoscenza interne ad ogni organismo produttivo che deve
realizzare obiettivi prestabiliti.
Tradizionalmente, nelle Pubbliche Amministrazioni è stato privilegiato
l’esercizio del controllo esterno e si è tralasciato quello interno. Il primo è
svolto da strutture specialistiche che hanno il compito di garantire la
legittimità degli atti posti in essere dalla Amministrazione, mentre il secondo
è esercitato all’interno delle Autorità Pubbliche al fine di far conoscere agli
stessi organi di direzione i comportamenti operativi tenuti durante la gestione
e gli effetti che essi abbiano prodotto sugli obiettivi perseguiti.
La funzione del
controllo interno è volta a monitorare l’attività di gestione, a rilevare gli
scostamenti tra ciò che si sta verificando e ciò che è stato programmato e ad
analizzare le cause che hanno determinato detti scostamenti
[11]. E’ un controllo di carattere
informativo e collaborativo: di qui la sua essenza di funzione strumentale.
In tale tipo di
attività viene, dunque, fotografato l’andamento gestionale, mediante la verifica
dell’efficacia, dell’efficienza e dell’economicità della stessa. In generale, il
controllo di gestione si traduce in motivate osservazioni finalizzate ad
indirizzare l’azione futura ed a correggere gli scostamenti determinatisi in
quella in atto rispetto ai parametri revisionali.
Più che in un
giudizio, si traduce in una analisi, rappresentando un insieme di rilevazioni di
risultati economici della gestione, in virtù dei quali è possibile trarre utili
elementi di valutazione per la futura attività
[12].
In particolare,
per quanto riguarda i contratti stipulati dalla Pubblica Amministrazione nella
materia concernente i servizi per lo sviluppo e la conduzione di sistemi
informativi, la forma di controllo interno, che potremo definire in itinere, è
quella prevista dall’art. 13 del d. lgs. n. 39 del 1993
[13], il quale ha stabilito che
l’esecuzione dei contratti in parola debba essere fatta oggetto di un periodico
monitoraggio, secondo i criteri e modalità stabiliti dall’ Autorità per
l’Informatica nella Pubblica Amministrazione.
Il monitoraggio
e la verifica rispondono alla necessità di una adeguata e corretta gestione, da
parte delle Pubbliche Amministrazioni, dei contratti in materia di sistemi
informativi.
Per questo
costituiscono uno strumento operativo di buona amministrazione che, applicato ai
contratti di servizio ed ai progetti ad essi relativi, è finalizzato al
perseguimento di efficacia, rappresentata come capacità di un progetto di
raggiungere l'obiettivo contrattualmente assegnatogli; efficienza, intesa quale
caratteristica di una gestione contrattuale di ottenere un dato risultato con i
minori mezzi; economia, espressa dal grado di priorità dell'obiettivo
progettuale nell'economia complessiva dell'amministrazione; trasparenza,
attestata dalla disponibilità dell'informazione necessaria ai diversi attori
interessati.
Per questa
pluralità di intenti il monitoraggio e la verifica si distinguono dagli altri
strumenti di controllo e valutazione che le organizzazioni applicano a progetti
d'investimento.
L’attività di
monitoraggio, a differenza del collaudo, non si limita alla verifica a
posteriori, finalizzata all'accettazione della fornitura, ma copre tutta la
durata del contratto e ha l'obiettivo di scoprire ed evidenziare i problemi
affinché siano risolti in tempo utile. Il monitoraggio per essere efficace non
deve avallare l'accettazione di una fornitura, ma contribuire a che la fornitura
stessa soddisfi in pieno le esigenze dell' Amministrazione committente.
Rispetto alla
direzione lavori, il monitoraggio non può essere affidato a un singolo
professionista. L'efficacia desiderata richiede, infatti, risorse adeguate per
un'attività di controllo la cui durata si estende anche oltre i tempi del
contratto.
Il monitoraggio
sulla bontà dell'investimento può essere visto come una forma di controllo dei
costi per l'informatizzazione, una verifica che le esigenze espresse
dall'amministrazione rispecchiassero reali bisogni o effettive prospettive di
miglioramento. Esso rappresenta, pertanto, una forma completa e innovativa di
controllo efficace delle forniture, caratteristica che lo rende esportabile ad
altri contesti, oltre quello della Pubblica amministrazione, per i quali
l'informazione costituisca la materia prima del loro processo produttivo
(settori bancario ed assicurativo).
Tale tipo di
controllo ha senso come azione di rilevamento dati, esclusivamente all'interno
di un contratto. Ciò nonostante le sue risultanze possono travalicare il
contratto stesso. Per questo, detta attività ha due obiettivi, a breve termine
ed a lungo termine.
L'obiettivo a
breve termine riguarda l'identificazione di scostamenti dalle prescrizioni
contrattuali. Da questo obiettivo discendono due tipi di azioni: da un lato,
identificare azioni preventive e correttive atte a superare le anomalie
rilevate; dall'altro, modulare l'adeguamento delle tariffe, inizialmente
calcolate sulla base di una stima di volumi e prestazioni attese, per il tramite
di meccanismi contrattuali di parametrazione ai volumi, e delle penali sullo
scostamento rispetto ai valori prestazionali concordati (disponibilità, tempo di
risposta, puntualità), sino ad un limite inferiore sotto il quale c'è un degrado
del servizio inaccettabile all'interno del contratto in essere.
L'obiettivo a
lungo termine si lega all'evoluzione delle forme contrattuali. Da questo
obiettivo discendono l'azione di rilevamento dei dati a consuntivo e la scelta
dei volumi e dei livelli prestazionali da inserire nella rinegoziazione del
contratto o nella stesura del contratto successivo, basate non più su stime, ma
confortate da serie storiche di dati oggettivi.
6) Il monitoraggio informatico.
Il monitoraggio
deve essere avviato immediatamente a seguito della stipulazione dei contratti
ovvero entro 120 giorni dall’entrata in vigore del decreto
[14] (ossia il 1° gennaio 1994) per
i contratti in corso di esecuzione, a cura dell’Amministrazione o, su richiesta
di quest’ultima, dall’ Autorità per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione
(A.I.P.A.). A tal fine, si può far ricorso alla consulenza di società
specializzate incluse in un elenco predisposto dalla stessa A.I.P.A., attraverso
le procedure previste dalla disciplina comunitaria in materia di appalti
pubblici di servizi.
E’ prevista
anche una particolare procedura d’impulso da parte dell’Autorità, alla quale è
consentito sostituirsi d’ufficio all’amministrazione in caso di sua inerzia,
sopportandone anche l’onere finanziario.
Di particolare
rilievo appare inoltre la disposizione contenuta nel 3° comma dell’art. 13 del
citato decreto legislativo, laddove è previsto che non è consentito procedere al
rinnovo alla medesima impresa contraente dei contratti di grande rilievo, ove
non sia stata dapprima effettuata la verifica dei risultati conseguiti in
precedenza secondo quanto previsto dall’art. 7, comma 1, lett. d), dello stesso
decreto legislativo n. 39.
Con riferimento
al monitoraggio sono sorti quesiti in ordine alla possibilità che a svolgere
l’attività in questione siano chiamate anche le associazioni e le fondazioni
senza scopo di lucro nonché in ordine alle modalità di affidamento
dell’incarico.
Per rispondere
ai predetti quesiti, avendo il legislatore omesso qualunque indicazione circa il
concetto di società specializzata come possibile affidataria dell’attività di
monitoraggio e circa le procedure contrattuali da seguire per tale affidamento,
appare opportuno procedere pregiudizialmente ad un’accurata analisi del termine
monitoraggio, definendone contenuto e ambito applicativo, al fine di trarre
utili notazioni per risolvere i quesiti posti.
In via
preliminare, converrà intanto osservare che, sotto il profilo temporale, il
monitoraggio è visto dal legislatore come un’attività coeva all’esecuzione del
contratto, tant’è che ne è disposto l’avvio immediato non appena si sia
provveduto alla stipulazione e, nel caso di contratti già in essere, l’avvio
entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo
n. 39.
Tale termine è
peraltro da considerare meramente ordinatorio, e pertanto non preclusivo
dell’avvio di un’attività di monitoraggio anche dopo la sua scadenza, ancorché
appaia logico ritenere che il termine utile per l’avvio dell’attività in
questione debba considerarsi esaurito con il completamento dell’esecuzione del
contratto da monitorare.
Operando un
collegamento tra la succitata prescrizione normativa e quella contenuta
nell’art. 7 lett. d) del decreto legislativo - in virtù del quale all’Autorità
per l’Informatica spetta, tra l’altro, di “verificare periodicamente, d’intesa
con le amministrazioni interessate, i risultati conseguiti nelle singole
amministrazioni, con particolare riguardo ai costi e ai benefici dei sistemi
informativi automatizzati, anche mediante l’adozione di metriche valutazioni
dell’efficacia e della qualità”- può trarsi una prima conclusione: il
monitoraggio è considerato dal legislatore come un’attività continuativa,
intessuta di una serie di operazioni tecniche e amministrative, intese a
verificare, contestualmente all’esecuzione del contratto, se le risorse
economiche e umane impiegate per realizzare l’opera o il servizio siano
utilizzate in modo da conseguire i risultati preventivati o quelli ulteriori e,
in ipotesi, diversi che fossero stati definiti in corso d’opera.
In altre parole,
si tratta di un’attività di valutazione in corso d’opera, mirante, da un lato, a
un controllo-conoscenza dei dati quantitativi rilevabili in sede di attuazione
del progetto, per verificare il grado di aderenza ad eventuali scostamenti della
realtà rispetto al modello di riferimento, dall’altro all’acquisizione di uno
strumento di governo, guida e correzione continua del modello in parola in vista
delle finalità perseguite.
Detta opera di
valutazione potrà essere caratterizzata da una maggiore o minore complessità,
non solo in relazione all’importanza del progetto, ma altresì in funzione del
grado di analiticità e di dettaglio che si vuole dare all’attività di verifica,
in relazione agli obiettivi e alle finalità perseguite.
Si potrà quindi
oscillare tra un monitoraggio sommario – consistente in una mera valutazione del
contratto nel suo complesso, teso a fornire indicazioni sul valore del bene e
sulla congruità tecnico-economica della prestazione convenuta - ed un
monitoraggio particolareggiato, consistente in una verifica approfondita,
contestuale all’avanzamento dell’ esecuzione contrattuale, con la rilevazione
degli adempimenti, degli eventuali scostamenti rispetto ai programmi, della
ricerca delle cause e degli effetti stimati, fino a effettuare, in casi di
particolare rilevanza, anche un controllo amministrativo-contabile (auditing),
nel senso di una verifica della validità dell’intero sistema organizzativo
realizzato, in termini di adeguatezza, efficienza ed efficacia dello stesso
rispetto ai fini perseguiti. In tal caso si parla di monitoraggio analitico.
Così
sommariamente descritto il monitoraggio, occorre ora individuare i soggetti che
tale attività sono abilitati a svolgere sotto il profilo tecnico-professionale,
l’unico in grado di dare contenuto e pregnanza alla previsione normativa che ne
fissa i criteri di legittimazione sotto il profilo tecnico-giuridico.
Si è già detto
infatti che il legislatore si è limitato a stabilire, in modo generico, che
l’esecuzione del monitoraggio può essere affidata a società specializzata
inclusa in uno speciale elenco predisposto dall’Autorità, evidentemente
riconoscendo, all’inclusione nel suddetto elenco, effetto di legittimazione da
un lato e preclusivo dall’altro, ai fini dell’identificazione dei soggetti quali
possibili destinatari di incarichi di monitoraggio.
Poiché è lecito
pensare che la discrezionalità dell’Autorità nella predisposizione dell’elenco
stesso sia eminentemente tecnica, non può non discendere, sotto l’aspetto logico
e giuridico, che solo quei soggetti che dimostrino particolari capacità tecniche
nell’effettuare attività come quelle già descritte possono legittimamente
aspirare a essere inclusi tra i possibili destinatari di un incarico.
Al riguardo va
osservato, peraltro, che, oltre ai requisiti per così dire positivi, concernenti
le capacità tecniche e organizzative già indicate, la legge fissa anche dei
requisiti negativi, che consistono:
in una forma
particolare di incompatibilità nel non poter partecipare all’assegnazione di
contratti di monitoraggio da parte di quei soggetti che prestano la loro opera o
siano comunque collocati con imprese appaltatrici impegnate in fasi di sviluppo
di un sistema informativo automatizzato. Il richiamo all’art. 7 della legge 10
ottobre 1990, n, 287, attesa la sempre maggiore diffusione della pratica
societaria delle partecipazioni azionarie incrociate, esalta e amplia
notevolmente la portata del divieto sancito dall’art. 13 del decreto n. 39, ma
sottolinea, nel contempo, il carattere neutro e imparziale dell’attività di
monitoraggio, parzialmente vista anche come funzione, tanto che ne è previsto,
in modo prioritario, lo svolgimento da parte della stessa Pubblica
Amministrazione, che notoriamente è tenuta all’osservanza del principio di
imparzialità, ex art. 97 Cost.;
nel divieto,
sancito dal comma 3 dell’art. 13 del decreto, di rinnovare alla medesima impresa
un contratto di grande rilievo ove non sia stata dapprima effettuata la verifica
dei risultati conseguiti in precedenza: effetto preclusivo di grande
significato, ove si ponga nella dovuta evidenza che allo svolgimento di una
corretta ed efficace azione di monitoraggio è strettamente legato il
conseguimento di quegli obiettivi di efficienza e di efficacia che costituiscono
uno dei fini rilevanti perseguiti dal legislatore con la normativa sui sistemi
informativi automatizzati.
Va inoltre
aggiunto che il carattere tecnico e specialistico dell’attività e il potenziale
accesso a procedure riservate o coperte da segreto d’ufficio giustificano, da un
lato, la previsione di standard tecnici, elaborati dall’Autorità (“secondo
criteri e modalità stabiliti dall’Autorità”, recita la norma), ai quali i
soggetti prescelti si devono attenere nell’eseguire il monitoraggio; dall’altro
l’individuazione di soggetti, oltre che dotati di capacità tecniche e di
know-how adeguati – di cui rendere partecipe l’Amministrazione - pienamente
affidabili sotto il profilo della correttezza e della onorabilità professionale,
atti a garantire l’Amministrazione sulla corretta esecuzione delle obbligazioni
contrattuali assunte dall’impresa contraente. Ciò implica anche la fissazione,
da parte dell’Autorità, di requisiti tecnici e morali di grande rigore, se si
vuole che il monitoraggio consegua gli scopi per cui è stato imposto dal
legislatore.
Consegue, la
necessità che le società aspiranti all’inclusione nell’elenco dei soggetti
abilitati devono dimostrare le proprie capacità tecniche nel campo delle
metodologie informatiche, attraverso la produzione di un adeguato curriculum
delle esperienze effettuate nell’esecuzione di contratti di monitoraggio di
sistemi informativi o, quanto meno, di attività di auditing in materia di
investimenti produttivi ad alta tecnologia o di consulenza aziendale in settori
produttivi avanzati.
La prescrizione
del legislatore circa la specializzazione della società che intende candidarsi
all’assegnazione di un contratto di monitoraggio è, del resto, in linea con la
normativa comunitaria, la quale (art. 32 della dir. 92/50 sugli appalti di
pubblici servizi) stabilisce che la capacità dei prestatori a eseguire servizi
può essere valutata, in particolare, con riferimento alla loro competenza,
efficienza, esperienza ed affidabilità e, inoltre, che la prova della capacità
tecnica può essere fornita, a seconda della natura, della qualità e dello scopo
dei servizi da prestare mediante: l’indicazione dei titoli di studio e
professionali dei dirigenti dell’impresa o delle persona responsabili della
prestazione di servizi; l’elencazione dei principali servizi prestati ad
amministrazioni, certificati dall’autorità competente; la dichiarazione relativa
agli strumenti ed alle apparecchiature tecniche di cui il prestatore di servizi
dispone; infine, qualora i servizi da prestare siano particolarmente complessi,
una verifica compiuta dall’ Amministrazione o, per suo conto, da un organismo
ufficiale competente.
Inoltre, in
base all’art. 35 della suddetta direttiva, “gli Stati membri che dispongono di
elenchi ufficiali di prestatori di servizi riconosciuti devono adeguarli alle
disposizioni dell’art. 29, lettere da a) a d) e g) e degli articoli da 30 a 32”,
avendo presente che l’art. 29 disciplina i casi in cui un prestatore di servizi
può venire escluso dal partecipare ad un appalto (per gravi inadempienze di
legge o contrattuali), mentre gli articoli da 30 a 32 attengono alla
dimostrazione della sua capacità finanziaria, economica e tecnica.
Le osservazioni
che precedono circa il rilievo preminente che le norme, sia nazionali che
comunitarie, attribuiscono alla qualificazione tecnico-professionale del
prestatore di servizi, oltre che alle sue qualità morali, inducono a ritenere
non vincolante, sotto il profilo lessicale, il termine società adottato dal
legislatore nazionale per individuare i possibili destinatari di un incarico di
monitoraggio, con la conseguenza che anche le associazioni e le fondazioni
debbono considerarsi potenziali soggetti contraenti di un contratto del tipo,
sempreché le stesse diano dimostrazione di possedere le capacità tecniche
necessarie per svolgere in maniera efficace l’attività che loro si richiede e
siano in possesso degli altri requisiti prescritti dall’Autorità: ciò in quanto
le associazioni e fondazioni possono svolgere anche attività imprenditoriali,
che rispetto agli scopi istituzionali possono trovarsi o in rapporto meramente
strumentale, in quanto volto al reperimento dei mezzi occorrenti per gli stessi,
oppure in rapporto diretto, in quanto di per sé idonee alla immediata
realizzazione degli scopi medesimi [15].
Sempre secondo la richiamata sentenza, in analogia con quanto dispone per gli
Enti Pubblici economici l’art. 2001 cod.civile, associazioni e fondazioni
acquistano la qualità di imprenditori commerciali, con conseguente applicazione
del relativo status e della legge fallimentare, quando la gestione dell’impresa
esaurisca l’attività dell’ente o sia prevalente rispetto ad altre attività, in
modo da assurgere, ancorché di fatto, a oggetto esclusivo o principale dell’ente
medesimo.
Altro problema
che si pone è quello concernente le procedure di affidamento che debbono essere
seguite per dare corso al monitoraggio. Al riguardo, occorre, in via
preliminare, osservare che, sulla scia di quanto si è detto in ordine alla
modalità ed alla tecnica di esecuzione del monitoraggio, è lecito pensare che
quest’ultimo si atteggi più come un servizio che come una funzione. La
distinzione non è da considerarsi puramente accademica, atteso che da una
diversa configurazione del monitoraggio possono derivare effetti diversi in
ordine ai poteri trasferibili al soggetto affidatario e, conseguentemente, alle
procedure di scelta di quest’ultimo da parte dell’ Amministrazione.
Sotto il primo
profilo, benché il controllo costituisca, senza dubbio alcuno, una funzione
propria della Pubblica Amministrazione, è tuttavia vero che esso si concretizza
anzitutto in un’attività conoscitiva e, conseguentemente, propositiva da parte
del monitore nei confronti della stessa Amministrazione: sicché la sua attività
si concretizza presumibilmente nell’acquisire la maggiore quantità possibile di
dati conoscitivi, nell’elaborare il significato e nel proporre
all’Amministrazione uno strumento per la verifica dei risultati e di guida e
indirizzo per la prosecuzione dell’intervento.
Essa appare
perciò tipicamente strumentale all’attività definitoria dell’Amministrazione,
cui soltanto compete ogni decisione operativa in ordine al contratto monitorato.
Se quanto si è osservato risponde a realtà, appare difficile ipotizzare che
l’affidamento del contratto di monitoraggio sia disposto attraverso un atto di
concessione, benché il ricorso a tale procedura sia stato espressamente previsto
nell’art. 2, comma 2, del decreto legislativo n. 39, laddove si legge che “ove
sussistono particolari necessità di natura tecnica, adeguatamente motivate, le
amministrazioni possono conferire affidamenti a terzi, anche tramite
concessione, qualora la relativa proposta sia accolta nel piano triennale di cui
all’art. 9”.
Invero, benché
la norma non specifichi, sembra lecito ritenere che la stessa faccia riferimento
ai contratti per la realizzazione di sistemi informativi automatizzati di cui al
1° comma dello stesso art. 2, rispetto ai quali l’Amministrazione ritenga di
dover esercitare un potere di intervento più penetrante, in relazione anche a
taluni profili organizzativi che impongono una particolare cautela nel tutelare
la riservatezza di progetti. E’ ben vero però che tale esigenza di riservatezza,
potrebbe riguardare anche l’attività di monitoraggio, se non altro per motivi di
connessione. In tal caso deve ritenersi che anche ai relativi contratti si possa
procedere attraverso la procedura concessoria, ancorché subordinatamente a
esplicita previsione da parte del piano triennale di cui all’art. 9 del decreto.
In tutti gli altri casi sembra doversi accogliere la tesi che ravvisa in tali
contratti un vero e proprio appalto di servizi.
Tutto ciò
premesso, deve ritenersi che, nella scelta delle procedure di aggiudicazione, le
Amministrazioni interessate non possono che seguire la procedura ristretta,
nell’ambito della quale possono presentare offerte soltanto i prestatori di
servizio invitati dall’Amministrazione. A tale conclusione non induce soltanto
l’ovvia considerazione di assicurare un minimo di concorrenzialità nell’offerta
da parte del prestatore di servizi, ma la circostanza che, essendo questi ultimi
legittimati a ricevere l’invito per la semplice circostanza di essere inclusi
nell’elenco predisposto dalla Autorità a termini dell’art. 13 del decreto
legislativo, un’eventuale esclusione dal partecipare alla gara rischierebbe di
costituire oggetto di impugnativa davanti al giudice amministrativo.
A conferma di
quanto sopra, è forse utile ricordare che ormai in sede comunitaria la stessa
concessione viene considerata alla stregua di un contratto e perciò soggetto
alle regole della procedura ristretta, seppur limitata a soggetti in possesso di
particolari requisiti, con la conseguenza che, in forza alle norme comunitarie,
l’Amministrazione non è più libera di scegliere discrezionalmente il
concessionario venendo così a mancare quella discrezionalità che costituisce il
fondamento pubblicistico dell’atto concessorio.
Ciò non esclude
che in qualche caso possa configurarsi l’ipotesi formulata nella stessa
direttiva comunitaria del ricorso alla procedura negoziata (sostanzialmente
trattativa privata): anche qui, tuttavia, tranne il caso della estrema urgenza
determinata da avvenimenti imprevedibili per l’Amministrazione, tali che non
possano essere osservati i termini per la procedura aperta o ristretta, e
dell’ipotesi della cosiddetta privativa, ossia del caso in cui una sola ditta
sia in grado di offrire il servizio richiesto, deve ritenersi che anche la
procedura negoziata debba essere preceduta dall’espletamento di una gara
informale, previa pubblicazione di un bando di gara.
Recentemente, in
data 9 maggio 2002. è stato approvato dal Consiglio dei Ministri uno schema di
regolamento recante la soppressione dell’Autorità per l’Informatica nella
Pubblica Amministrazione e del Centro Tecnico di cui all’articolo 17, comma 19,
della legge 15 maggio 1997, n. 127 e l’istituzione dell’Agenzia nazionale per
l’innovazione tecnologica.
L’Agenzia
subentra in tutti i rapporti giuridici, attivi e passivi, dell’A.I.P.A. e del
Centro Tecnico, e ad essa sono conferite le strutture e le risorse a qualunque
titolo attribuite ai precedenti organismi.
Rimangono,
pertanto, in vigore le circolari emanate dall’Autorità.
In particolare,
per quanto riguarda il monitoraggio dei contratti informatici di grande rilievo,
la circolare 28 dicembre 2001, n. AIPA/CR/38, ha precisato i compiti e le
responsabilità riferiti all’azione di monitoraggio e alla verifica dei contratti
informatici, ponendo in evidenza l’attività di direzione dei lavori.
Detta attività
svolta dal monitore non si sostituisce alle funzioni di direzione lavori e di
controllo interno del Fornitore (Assicurazione qualità del Fornitore e controlli
qualità previsti dal ciclo di vita del Fornitore stesso), né alla funzione di
direzione lavori svolta dal Committente al fine di garantire che i lavori siano
effettuati in coerenza con il progetto ed a regola d’arte.
Essa integra le
capacità di governo del contratto da parte del Committente, attraverso verifiche
ed analisi di particolare profondità e complessità tecnica effettuate da una
terza parte su incarico del Committente, per rilevare eventuali scostamenti
dagli obiettivi contrattuali, se possibile nelle fasi alte del ciclo di vita
della fornitura, collaborando alla risoluzione delle criticità anche con
proposte di azioni correttive e seguendone l’eventuale applicazione.
L’interlocutore
del monitore è il Responsabile dei Sistemi Informativi Automatizzati del
Committente.
Il monitoraggio
è affidato ad una squadra comprendente una pluralità di competenze.
Si osserva che
la direzione dei lavori, di norma collegata ad un contratto di appalto, trova
origine per i progetti di ingegneria, finalizzati alla realizzazione ed
attuazione di un modello progettuale, nel quale sono definiti l’obiettivo da
raggiungere, i metodi ed i calcoli per la costruzione dell’opera che realizza
l’obiettivo, le attività necessarie e il loro calendario, i costi ed i vincoli
contrattuali.
La direzione
lavori è un ufficio dell’Amministrazione, normalmente rappresentato da un suo
tecnico, con il quale la stessa Amministrazione, da un lato, controlla il
positivo andamento dei lavori secondo i patti contrattuali, dall’altro, si tiene
a disposizione dell’appaltatore per quella necessaria cooperazione tra
appaltante e appaltatore nella esecuzione dei lavori.
Normalmente
l’incarico è attribuito ad un funzionario della stessa Amministrazione
appaltante, ma non è escluso che la nomina venga effettuata nei confronti di
professionisti estranei all’Amministrazione, iscritti in albi professionali; la
nomina avviene intuitu personae, vale a dire il soggetto viene scelto in quanto
si riconoscono in capo allo stesso capacità e nozioni tali da renderlo
tecnicamente particolarmente idoneo all’incarico. Per questi motivi la
prestazione deve essere considerata non ratione officii e, pertanto, remunerata
a parte.
In quanto
garante, come si è detto, che i lavori siano effettuati in coerenza con il
progetto ed a regola d’arte, il direttore dei lavori è responsabile per scadente
esercizio della propria attività e per danno eventuale arrecato
all’Amministrazione. Le conseguenze sono diverse a seconda che il direttore dei
lavori sia o meno un dipendente pubblico.
Nel primo caso
si ha una responsabilità disciplinare ed il danno è risarcibile nell’apposito
giudizio davanti alla Corte dei Conti (responsabilità amministrativa per danno
patrimoniale all’erario); nel secondo caso si può arrivare alla risoluzione
anticipata del contratto e l’ipotesi di danno si inquadra nel risarcimento dei
danni per inadempimento contrattuale, con competenza del giudice civile.
Le direzioni dei
lavori prevista, invece, dalla citata circolare n. 38 deve essere intesa come
attività di project management [16]:
cioè come capacità di segmentazione dei progetti, di definizione degli obiettivi
contrattuali, di pianificazione e controllo di tempi, costi, risorse utilizzate
e risultati ottenuti, di sintesi e reporting.
Il monitoraggio
e la verifica si distinguono dagli altri strumenti di controllo e valutazione,
in quanto si dedicano all’intera problematica progettuale a partire dalla
validità degli obiettivi.
Il monitoraggio
si articola in diverse azioni, specifiche di ogni fase del ciclo di vita della
fornitura. Esse sostengono il Responsabile dei Sistemi Informativi Automatizzati
nella valutazione dell’impatto economico ed organizzativo, nel controllo
dell’avanzamento dei progetti e nell’accertamento dei livelli di servizio e
comprendono i seguenti cinque gruppi di attività: realizzazione dello studio di
fattibilità, redazione degli atti di gara, direzione dei lavori, assistenza al
collaudo e realizzazione del piano di continuità ed emergenza.
La verifica dei
contratti informatici va effettuata dopo che la fornitura sia stata eseguita;
eventualmente al termine di sue fasi significative. L’attività di verifica è
effettuata con particolare riguardo ai costi ed ai benefici dei sistemi
informativi automatizzati, mediante l’adozione di metriche di valutazione
dell’efficacia, dell’efficienza e della qualità. Essa sostiene il Responsabile
dei Sistemi Informativi Automatizzati nella valutazione dei risultati ottenuti
mediante: comparazione tra l’analisi costi/benefici effettuata ex ante ed ex
post; l’ analisi della relazione tra beni e servizi informatici ricevuti dal
fornitore, altre risorse impiegate e risultati ottenuti; l’ analisi delle cause
che abbiano eventualmente limitato o impedito il raggiungimento degli obiettivi.
In
considerazione di quanto sopra evidenziato, si rileva che ai sensi della citata
circolare n. 38, punti 5 e 6, le attività di monitoraggio e di verifica ex post
devono, in ogni caso, essere affidate a soggetti diversi. Il successivo punto 7
dispone, poi, che i monitori interni svolgenti attività di verifica ex post
devono operare in condizioni di indipendenza dal Responsabile dei Sistemi
Informativi Automatizzati mentre l’attività ex ante, alla luce dei compiti
precisati dall’A.I.P.A., dovrebbe essere preferibilmente collocato nell’ambito
dell’Ufficio del predetto Responsabile.
7) Il controllo della Corte dei Conti.
I contratti ed i
relativi atti di esecuzione in materia di sistemi informativi automatizzati sono
sottoposti al controllo successivo della Corte dei conti, la quale comunica alla
Autorità per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione gli eventuali rilievi
riscontrati (art. 14 decreto legislativo n. 39/93).
Il controllo
successivo di cui al suindicato art. 14 deve essere considerato non isolatamente
ma in un contesto normativo che regola appositamente tale attività di controllo.
Il combinato
disposto dell’art 14 del decreto legislativo 12.2.1993, n. 39 e dell’art. 3
della legge 14.1.1994 n. 20 stabilisce che i contratti ed i relativi atti di
esecuzione in materia di sistemi informativi automatizzati stipulati dalla
Amministrazioni dello Stato sono sottoposti al controllo successivo della Corte
dei conti. A tal fine la Corte riceve, entro 30 giorni dalla stipulazione, gli
atti necessari ad aprire il procedimento relativo al controllo successivo nonché
periodiche informazioni sulla gestione dei contratti stessi. La disposizione,
quindi, qualifica tale tipo di controllo come successivo di gestione, e,
pertanto, appare indubbio che tale attività deve svolgersi secondo le
prescrizioni dettate dal comma 4 dell’art. 3 della legge n. 20 del 1994.
A seguito
dell’entrata in vigore della legge n. 639 del 1996, il controllo della Corte dei
conti sui contratti relativi all'acquisto di materiale informatico da parte
delle Pubbliche Amministrazioni, ai sensi del combinato disposto dell'art. 14,
comma primo, del decreto legislativo n. 39 del 1993, e dell'art. 3, comma
ottavo, della legge n. 20 del 1994, va ricondotto nell'ambito del sistema
generale del controllo nel senso cioè che ove gli importi superino i limiti
previsti dall'art. 3 della legge n. 20 del 1994, comma primo, lett. g), i
decreti approvativi sono soggetti a controllo preventivo di legittimità mentre i
contratti aventi valore inferiore formeranno oggetto di un obbligatorio
controllo sulla gestione, con esclusione, peraltro, di ogni valutazione di
legittimità su singole fattispecie [17]
.
La legge n. 20
del 14 gennaio 1994 rappresenta un complesso normativo di non facile
interpretazione e applicazione. Le ragioni di tali difficoltà dipendono in larga
misura dai diversi compromessi di ordine politico di cui la legge stessa è stata
vittima in una girandola di decreti legge non convertiti, reiterati e poi
abbandonati e trasformati [18].
Questa
situazione ha avuto quanto meno il merito di focalizzare l’attenzione sulla
necessità di aggiornare le tipologie dei controlli effettuati dalla Corte. Il
punto principale di tale dibattito è il passaggio da una metodologia di
controllo per atti a un sistema di verifiche che abbia per oggetto il complesso
della gestione amministrativa. La legge n. 20 del 14 gennaio 1994 ha per
l’appunto riformulato la normativa in materia di esercizio dei controlli e di
azione di responsabilità. Con tale legge si è cercato di combinare al meglio il
controllo preventivo, che investe la legittimità formale e che costituisce una
condizione per l’efficacia dell’atto, con quello successivo, che riguarda
appunto la gestione.
Per quanto
riguarda il primo tipo di controllo, la legge ne ha disciplinato l’esercizio,
introducendo il principio del silenzio assenso. Gli atti, di cui la Corte non
dichiari la non conformità entro 30 giorni, divengono efficaci.
Quanto al
controllo successivo, va rilevato che costituisce la parte più ricca di
potenzialità per l’attività della Corte e per la possibilità di incidere
positivamente sul funzionamento della Pubblica Amministrazione.
8) Il controllo preventivo di legittimità.
Attraverso la
riforma dei controlli della Corte dei conti, attuata con l’emanazione della
legge 14 gennaio 1994, n. 20, il legislatore ha cercato di configurare al meglio
il controllo preventivo, che investe la legittimità formale e che costituisce
una condizione di efficacia dell’atto, unitamente a quello successivo.
Per quanto
riguarda il primo tipo di controllo, come è stato già riferito, la legge ne ha
disciplinato l’esercizio introducendo il principio del silenzio assenso: gli
atti, per i quali la Corte dei conti non dichiari la non conformità a legge
entro trenta giorni dal ricevimento, divengono efficaci. Questa novità ha
eliminato la lentezza dell’azione amministrativa causata dalle lungaggini delle
procedure di registrazione da parte della Corte stessa.
Dalla relazione
di accompagno al disegno di legge di conversione emergeva, appunto, che
l’impegno assunto con i decreti-legge suindicati era quello di predisporre
opportuni strumenti capaci di offrire al Paese appropriate misure atte a
condurre la Pubblica amministrazione con principi di correttezza ed imparzialità
nell’interesse esclusivo del cittadino. La ratio di detta normativa è quella,
pertanto, di rendere più rapido e snello l’iter dei procedimenti amministrativi.
L’art. 3 della
legge in argomento, richiamando quanto in precedenza definito dall’art. 7 dei
reiterati decreti legge [19], ha
notevolmente ristretto l’area di operatività del controllo preventivo di
legittimità della Corte dei conti limitandolo ai soli atti tassativamente
elencati nel comma 1, e, stabilendo, nel contempo, che il controllo successivo
sarà svolto secondo programmi e criteri che la stessa Corte dovrà definire
annualmente.
La nuova
disciplina relativa alla funzione del controllo preventivo della Corte dei conti
stabilisce la conclusione del procedimento stesso in tempi stretti, il cui
inutile trascorrere dà luogo alla formazione del silenzio assenso. Questo
istituto giuridico è stato di recente introdotto nel Diritto amministrativo per
la tutela del cittadino contro l’indifferenza o l’arroganza della Pubblica
Amministrazione. Esso, ove ricorrono i presupposti fissati dalla norma, assume
significato giuridico costituendo momento conclusivo del procedimento
amministrativo, a seguito del silenzio della Pubblica Amministrazione protratto
oltre il termine stabilito.
La tendenza a
qualificare in termini di positività il decorso di un termine determinato,
costituisce, pertanto, nel piano della politica legislativa, un modo di
privilegiare la speditezza del procedimento. Dal punto di vista giuridico, il
silenzio accoglimento equivale alla pronuncia positiva dell’Organo di controllo
in merito alla legittimità dell’atto.
9) I termini per l’esercizio della funzione di
controllo esterno.
Passiamo ora ad
esaminare i termini per l’esercizio del controllo, così come delineato dal comma
2 dell’art. 3 della legge n. 20 del 1994 successivamente modificato dall’art. 2
del decreto legge 8 agosto 1996, n. 441
[20].
La normativa
suindicata stabilisce un termine generale per la definizione del procedimento di
trenta giorni dal ricevimento dell’atto da parte della Corte, trascorso il quale
senza che l’Organo abbia dichiarato l’atto stesso non conforme a legge o ne
rimetta l’esame alla Sezione del controllo, ovvero abbia richiesto chiarimenti o
elementi integrativi di giudizio, il provvedimento diviene efficace.
Ulteriore
termine di trenta giorni decorre dal ricevimento delle controdeduzioni
dell’Amministrazione: trascorso il quale senza che la Corte dichiari l’atto non
conforme a legge ovvero ne rimetta l’esame alla Sezione del controllo, l’atto
diventa efficace e, pertanto, idoneo a portare in esecuzione la volontà
provvedimentale.
Qualora, invece,
esso venga rimesso all’esame della Sezione del controllo, è previsto un
ulteriore termine di trenta giorni. In questo caso, infatti, la normativa
vigente stabilisce che la Sezione del controllo si pronunci definitivamente nei
trenta giorni successivi dal ricevimento delle controdeduzioni. Anche in tale
fattispecie l’inutile trascorso del termine rende l’atto sottoposto a controllo
preventivo suscettibile di essere portato in esecuzione.
La prima parte
del procedimento sopra descritto si svolge davanti al magistrato delegato;
mentre le altre si svolgono davanti alla Sezione del controllo. Perciò, il
Consigliere delegato, nei trenta giorni assegnati dalla legge, o dichiara l’atto
non conforme a legge, o chiede chiarimenti all’Amministrazione. Decorsi trenta
giorni dal ricevimento delle controdeduzioni dell’Amministrazione - prescrive
l’articolo 3, comma 2, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, così come modificato
da ultimo dall’articolo 2 del decreto legge 8 agosto 1996, n. 441 - il
provvedimento diventa esecutivo qualora non venga rimesso all’esame della
Sezione del controllo. In quest’ultimo caso la pronuncia sulla conformità a
legge dovrà aversi entro i trenta giorni dalla data di deferimento.
Quando la fase
procedimentale concernente il controllo preventivo si conclude con esito
positivo, esso si formalizza in un duplice atto: il visto che viene apposto
sullo stesso testo dell’atto controllato e la registrazione di questo.
Se il
provvedimento si conclude con esito negativo si verifica, per conseguenza, che
l’atto sottoposto a controllo viene definito inefficace. Questo comporta una
serie di conseguenze in ordine ai rapporti con i terzi nonchè ai rapporti con la
Corte dei conti, come autorità di controllo, e le singole Amministrazioni dello
Stato.
Infatti, il
procedimento di controllo preventivo davanti alla Corte dei conti non si
configura quale provvedimento autonomo rispetto all’atto ad esso sottoposto.
Cosicché, come ha rilevato la giurisprudenza
[21], il giudizio finale della
Corte non può essere oggetto di impugnativa o di sindacato né da parte
dell’Amministrazione controllata, ne da parte dei soggetti terzi.
L’unico
provvedimento impugnabile resta quello sottoposto a controllo, una volta che
esso sia divenuto efficace con l’apposizione del visto e con la registrazione.
In conclusione,
è da rilevare che l’esclusione della quasi totalità degli atti adottati
dall’Amministrazione attiva dal controllo preventivo della Corte ha reso
pressoché esclusivo il controllo delle Ragionierie, con più conseguenze sul
piano della responsabilità [22].
10) Il controllo successivo di legittimità da parte
della Corte dei Conti: natura della dichiarazione di illegittimità dell’atto.
La legge 14
gennaio 1994, n. 20, ha attuato, con l’art. 3, una profonda modifica della
funzione del controllo della Corte dei conti prevedendo, in aggiunta al
controllo preventivo di legittimità, limitato come si è precedentemente
evidenziato a determinate categorie di atti e sottoposto a termini di decadenza,
il controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle
Amministrazioni pubbliche, finalizzato alla verifica della rispondenza dei
risultati conseguiti dall’azione amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla
legge.
Va subito
rilevato, però, che il controllo successivo non è svincolato dalla verifica
della legalità dell’azione amministrativa: ché, anzi, a questa si aggiungono
altre tipologie di controllo (efficienza, efficacia, economicità, produttività)
comunemente classificate nell’ambito del controllo di gestione.
In definitiva,
con la normativa n. 20 del 1994 si è operata una nuova ripartizione tra le aree
del controllo preventivo e quello successivo. L’area di quest’ultimo risulta
essere molto più vasta, non solo perché si è ridimensionata quantitativamente la
funzione del controllo preventivo, ma anche perché, dal punto di vista
soggettivo, esso riguarda tutte le pubbliche amministrazioni, e, dal punto di
vista oggettivo, si esplica sulla intera attività di gestione delle risorse
pubbliche.
Ai sensi della
suindicata normativa, occorre, quindi, individuare i tipi di controllo vigenti,
in relazione ai poteri cognitori e decisori della Corte, distinguendo i
controlli di legittimità da quelli sulla gestione e aprendo, poi, nella
categoria dei controlli di legittimità una ulteriore distinzione a seconda del
momento in cui i controlli stessi vengono effettuati; e cioè se essi
intervengono prima che l’atto possa produrre effetti ovvero se hanno come
oggetto di cognizione atti che hanno già avuto esecuzione o la cui esecuzione è
in corso.
Il controllo
successivo di gestione non riguarda più tutti gli atti emanati, ma è operato
sulla base di apposite scelte programmate periodicamente dalla Corte. Il nuovo
sistema del controllo de quo comporta, infatti, di per sé, che esso, non potendo
coprire sul piano operativo l’intera area di gestione rimessa all’Organo
istituzionale, sia mirato e programmato secondo scelte preparate dalla stessa
Corte. Ciò comporta pure, correlativamente, che sia questa, nell’ambito di dette
scelte, a richiedere alle Amministrazioni controllate ed agli Uffici del
controllo interno, gli atti, documenti e notizie che occorrano per l’esercizio
delle sue funzioni.
Per altro verso,
l’introdotto controllo sulla gestione non esclude che i programmati riscontri
portino ad adottare determinazioni circa la conformità, o meno, a legge, di atti
che vengono singolarmente in evidenza nell’ambito del controllo sulle attività e
gestioni prescelte facendone, quindi, oggetto di specifiche pronunce.[23]
Infatti, lo stesso comma 4 dell’art. 3, prima parte, della legge n. 20 del 1994
ha espressamente previsto il controllo successivo di legittimità su determinati
atti.
Circa gli
effetti giuridici del sistema del controllo successivo di legittimità sugli atti
da parte della Corte dei conti, come delineato dalla normativa vigente, va
chiarito che solo il giudizio finale sulla legittimità comporta l’obbligo
dell’Amministrazione ad adottare i necessari procedimenti di ottemperanza,
laddove, in presenza di semplice rilievo dell’Ufficio di controllo, la medesima
Amministrazione ha la sola facoltà di far ricorso al potere di annullamento
d’ufficio, valutando discrezionalmente la sussistenza di un pubblico interesse
alla rimozione dell’atto [24].
Quanto sopra
esposto pone in evidenza, a parere della giurisprudenza
[25], che il rilievo oltre ad
essere diretto all’acquisizione di chiarimenti, documenti e notizie, è rivolto
anche a contestare all’Amministrazione profili di illegittimità dell’atto senza,
beninteso, alcuna anticipazione del giudizio finale sul provvedimento ma
soltanto al limitato fine, per appunto istruttorio, di conoscere le eventuali
deduzioni contrarie. Quindi il giudizio finale sulla legittimità dell’atto
sottoposto a tale controllo successivo è rimesso alla determinazione del
Consigliere ovvero della Sezione del controllo.[26]
Ne deriva, quanto agli esiti, che non può darsi più ingresso a formali pronunce
sul visto e la registrazione degli atti, le quali permangono solo come tipico
esito del controllo preventivo di legittimità. Tale tesi viene supportata dalla
presunzione di legittimità degli atti amministrativi, la quale è da ritenersi
implicita nell’ordinamento vigente in quanto, diversamente, verrebbe vanificato
il principio di necessità dell’azione amministrativa con il conseguente rischio
di paralisi dei pubblici poteri [27].
Il controllo
successivo de quo sugli atti consente, invece, al soggetto controllante di
intervenire anche dopo che l’atto abbia dispiegato, in tutto o in parte, i suoi
effetti, ed ha come fine quello di impedire ogni eventuale ulteriore efficacia
se l’atto si dimostri contrario alle regole poste dall’ordinamento.
In merito alla
deliberazione di non conformità a legge ed alla natura del vincolo, da parte
dell’Amministrazione, di ottemperare a quanto dichiarato dall’Organo di
controllo, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 226 del 1976
[28], ha affermato che la censura
sulla legittimità dell’atto sottoposto al controllo successivo della Corte dei
conti ha valore costitutivo e natura giurisdizionale. Pertanto, la decisione di
annullamento comporta la successiva attività vincolata e non discrezionale di
ottemperanza. Sussisterebbe, quindi, alla stregua dell’orientamento accolto
nella richiamata sentenza n. 226 del 1976, un vero e proprio obbligo di
ottemperanza conseguente al diniego di legittimità dell’atto soggetto a
controllo successivo: obbligo che si tradurrebbe in un’attività vincolata
dell’organo di amministrazione volta a porre nel nulla gli effetti dell’atto
illegittimo.
L’orientamento
in parola appare censurabile perché fondato su argomentazioni assolutamente
carenti di dati normativi di supporto e perviene ad una assai problematica
asserzione della natura costitutiva del diniego di legittimità del provvedimento
in via successiva.
L’effetto di
annullamento che alla delibera de qua si vorrebbe attribuire appare in contrasto
con la estraneità della funzione di controllo rispetto alla funzione
amministrativa, posto che non potrebbe negarsi un sostanziale coinvolgimento
dell’Organo di controllo nell’attività dell’Amministrazione ove si accogliesse
l’ordine di idee cui si ispira la tesi suddetta. Del resto, per ragioni non
dissimili, al giudicato dell’autorità giudiziaria ordinaria (questo sì
giurisdizionale) che pronunci l’illegittimità dell’operato dell’Amministrazione
Pubblica si attribuisce carattere meramente dichiarativo, con effetti
obbligatori limitatamente al caso deciso.[29]
Ed in tal caso la dottrina è concorde nel ritenere che l’Amministrazione
conservi i propri poteri di valutazione in ordine ai tempi e ai modi di eseguire
il giudicato.[30]
E’ necessario
portare il problema in discussione in un ambito più aderente alla realtà
dell’ordinamento positivo. La decisione della Corte dei conti esaurisce il
procedimento di controllo; alla pronuncia stessa denegatoria della legittimità
conseguono responsabilità che insistono, normativamente e concettualmente, su un
piano diverso da quello amministrativo.
In sostanza si
vuole dire che una volta dichiarato illegittimo un atto assoggettato a riscontro
in via successiva, ogni ulteriore profilo, compreso quello dell’eventuale
rimozione dell’illegittimità, esula dalla sfera del rapporto di controllo (ormai
esaurito) e ricade nel diverso ambito della responsabilità del soggetto agente
(nei termini in cui questa può essere giurisdizionalmente accertata). Non
sussiste alcun obbligo di dare adempimento specifico alla pronunzia, posto che
questa è, strutturalmente, un atto di giudizio e non un atto d’imperio. Alla
pronuncia di illegittimità, in sede di controllo successivo, non può essere
riconosciuta attitudine maggiore e diversa da quella impositiva di un obbligo di
rivalutazione, da parte dell’Amministrazione, per concorrenti profili di
illegittimità riferibili all’attività di quest’ultima, ma tutto questo nel
contesto di un autonomo apprezzamento collegato al pubblico interesse.
In definitiva,
in sede di controllo successivo, nell’ipotesi di delibera di illegittimità da
parte dell’Organo di controllo, gli effetti restano circoscritti
all’accertamento definitivo ed irretrattabile dell’illegittimità ed al riferito
obbligo di rivalutazione degli atti censurati, affinché sia considerata
l’eventualità di rimuoverne i vizi ove ciò non contrasti con il pubblico
interesse.
Pertanto,
nell’ipotesi di atti sottoposti a controllo di legittimità in via successiva (il
che comporta di solito che i relativi effetti si siano già prodotti e talvolta
perdurino) ove l’Amministrazione intenda accogliere la delibera dell’Organo di
controllo, deve fare uso, con efficacia ex tunc, del potere di annullamento
d’ufficio, il quale, per il suo esercizio, presuppone l’esistenza di due
requisiti: il vizio di legittimità nell’atto da annullare e l’interesse pubblico
all’eliminazione dell’atto medesimo. Conseguentemente, l’annullamento d’ufficio
degli atti illegittimi, che abbiano avuto esecuzione, viene attuato, da parte
dell’Amministrazione con un provvedimento discrezionale.[31]
Per quanto sopra
detto, va rilevato che la legittimità dell’azione amministrativa costituisce un
dovere generale della Pubblica Amministrazione e ad un interesse pubblico alla
cui realizzazione deve tendere l’attività dei soggetti pubblici. Ne consegue
che, ove nei confronti di un atto della Pubblica Amministrazione sia stata
dichiarata, da parte dell’Organo a ciò appositamente abilitato (Corte dei
conti), un’illegittimità, in maniera definitiva ed irretrattabile, insorge
nell’Amministrazione stessa il dovere di attivarsi al fine di assicurare, ove
possibile, l’interesse pubblico primario connesso al principio di legittimità
della propria azione.
Su questo
argomento, parte della dottrina [32]
ritiene che annullare d’ufficio gli atti amministrativi invalidi si configuri,
per l’Autorità che ha posto in essere gli atti stessi (e dei superiori
gerarchici, nonchè dell’autorità di vigilanza che disponga di poteri sostitutivi
o di annullamento), come un vero e proprio dovere giuridico quando l’invalidità
sia stata dichiarata da un’Autorità di controllo che non disponga essa stessa
del potere di annullare l’atto amministrativo e parla in tal caso di
autoannullamento doveroso in contrapposizione all’autoannullamento
discrezionale. Nello stesso senso Cannada-Bartoli
[33] sostiene che “l’annullamento
connesso all’esercizio di una potestà di controllo non è facoltativo....ma
obbligatorio” e non costituisce, in senso stretto, espressione di autotutela
(che detto Autore riferisce solo all’annullamento d’ufficio discrezionale).
Il dovere di
annullamento del quale si è prima parlato non sembra però aver carattere
assoluto nel senso che l’Amministrazione deve in ogni caso assicurare
automaticamente il ripristino della legittimità in esecuzione della pronuncia
dell’organo di controllo. Possono infatti esistere delle ipotesi in cui accanto
all’interesse pubblico espresso dall’esigenza di ripristino della legalità
sussiste, nel caso concreto, un interesse pubblico contrario a che l’atto venga
annullato (es. rispetto di situazioni consolidate): cioè un interesse a
mantenere in vita l’atto [34]. In
tali casi la giurisprudenza del Consiglio di Stato è concorde nel ritenere che
l’Amministrazione deve sempre procedere ad una comparazione dei due descritti
interessi, pervenendo all’annullamento attraverso la consapevole valutazione di
essi e la prevalenza accordata in concreto al primo
[35]. In particolare, il Consiglio
di Stato ha affermato [36] che nel
caso di un provvedimento che abbia già avuto esecuzione e che la Corte dei conti
dichiari poi illegittimo (nella specie si trattava di atto soggetto a controllo
preventivo, eseguito prima che la Corte ne ricusasse il visto) l’Amministrazione
non può ritirare il provvedimento stesso adducendo solo la circostanza
dell’esercizio negativo del controllo ma è tenuta, invece, ad effettuare una
comparazione tra l’interesse pubblico al ritiro dell’atto ritenuto illegittimo e
l’interesse inerente alle posizioni consolidatesi nel frattempo.
Tenuto conto di
quanto sopra, sembra, nella buona sostanza, che la vincolatività dell’esercizio
dell’annullamento di ufficio in seguito alla pronuncia dell’Organo di controllo
vada intesa come obbligo di far luogo ad un procedimento necessario di riesame
della fattispecie e delle situazioni oggetto della dichiarazione di
illegittimità al fine di pervenire, di regola, alla loro eliminazione ove non
esista un contrario interesse pubblico alle conservazioni degli atti e delle
situazioni stesse.
Le riflessioni
di cui sopra ricevono conferma da altro genere di argomentazioni afferenti la
natura stessa della funzione di controllo attribuita alla Corte dei conti. Com’è
noto, detta funzione ha, in linea generale, lo scopo di assicurare la
legittimità dell’azione amministrativa, la cui tutela è, appunto, il contenuto
ed il fine della funzione stessa. Tale scopo, nel controllo preventivo, è
raggiunto direttamente, mediante la subordinazione della efficacia dell’atto
controllato al visto di legittimità della Corte. Il rapporto controllo-sanzione
è in questo caso immediato e la sanzione si configura come congegno che incide
direttamente sull’atto controllato. Non si ha ragione di ritenere che nel
controllo di legittimità di tipo successivo la natura della funzione sia
diversa, dovendosi ammettere che essa sia egualmente preordinata alla tutela
della legittimità dell’azione amministrativa. Nel controllo successivo, però, la
sanzione non ha lo stesso rapporto di immediatezza con gli atti controllati, ma
tende ad agire come strumento sollecitatorio, nei loro confronti, di misure e
procedimenti già esistenti o comunque realizzabili nell’ordinamento
[37]. Nella specie, l’anzidetto
carattere si esprime nella posizione di uno specifico dovere di riesame a carico
dell’Amministrazione, nel senso sopracitato.
La tesi sopra
rappresentata ha trovato inveramento nella disposizione contenuta nell’art. 2
bis della legge 20 dicembre 1996, n. 639, la quale dichiara la soppressione
delle parole “può altresì pronunciarsi sulla legittimità di singoli atti delle
amministrazioni della Stato” contenute nel comma 4 deel’art. 3 della legge n. 20
del 1994.
Pertanto ora, ai
sensi dell'art. 14, comma secondo, del decreto legislativo n. 39 del 1993, norma
fatta salva dall'art. 3, comma ottavo, della legge n. 20 del 1994, la Corte dei
conti esercita un controllo successivo di legittimità sui contratti (o meglio
sui decreti approvativi) concernenti l'acquisto di beni e servizi in materia di
sistemi informativi automatizzati. La funzione della Corte, in caso di esito
positivo del controllo, consiste esclusivamente nella dichiarazione di
conformità all'ordinamento giuridico di un atto già efficace, mentre
nell'ipotesi contraria la dichiarazione di legittimità non inficia
immediatamente la perfezione e l'efficacia del provvedimento, destinate a
permanere sino a che l'Amministrazione non emetta provvedimenti di autotutela a
seguito del doveroso riesame della fattispecie (annullamento, revoca, rettifica,
ecc.) [38].
la
giurisprudenza [39] ha rilevato,
inoltre, che la disposizione contenuta nell'art. 14, comma primo, del D.Lgs. n.
39 del 1994, richiamata dall'art. 3, comma ottavo, della legge n. 20 del 1994,
in base alla quale i contratti relativi ai sistemi informativi automatizzati
sono soggetti esclusivamente al controllo successivo, non può essere intesa come
riferita esclusivamente a quegli atti concernenti la progettazione e la
realizzazione di programmi e all'acquisto e messa in opera delle
apparecchiature, dovendosi ritenere estesa anche ai servizi di elaborazione e di
immissione di dati qualora affidati all'esterno tramite atti negoziali;
pertanto, un contratto relativo all'affidamento di una serie di attività
finalizzate all'inserimento di dati e notizie all'interno di un sistema gia'
operativo, è comunque, soggetto a controllo successivo, ai sensi della
disposizione sopracitata.
11) Il controllo successivo sulla gestione
da parte della Corte dei Conti.
I contratti ed i
relativi atti di esecuzione in materia di sistemi informativi automatizzati sono
sottoposti al controllo successivo della Corte dei conti, la quale comunica alla
Autorità gli eventuali rilievi riscontrati (art. 14 D. lgs. n. 39/93).
Il controllo
successivo di gestione non riguarda più tutti gli atti emanati, ma è operato
sulla base di apposite scelte programmate periodicamente dalla Corte. Il nuovo
sistema del controllo de quo comporta, infatti, di per sé, che esso, non potendo
coprire sul piano operativo l’intera area di gestione rimessa all’Organo
istituzionale, sia mirato e programmato secondo scelte preparate dalla stessa
Corte. Ciò comporta pure, correlativamente, che sia questa, nell’ambito di dette
scelte, a richiedere alle Amministrazioni controllate ed agli Uffici del
controllo interno, gli atti, documenti e notizie che occorrano per l’esercizio
delle sue funzioni.
L’essenza dei
controlli sulla gestione è quella di esaminare il modo di operare della Pubblica
Amministrazione al fine di individuare eventuali responsabilità nell’utilizzo
delle risorse. Infatti, sono i controlli successivi a far emergere sprechi,
lungaggini, disorganizzazione e inefficienze, suggerendo così le correzioni ed
aggiustamenti da apportare. Lo sbocco naturale di tali controlli è il riferire
sia agli organi di governo, in quanto vertici politici dell’Amministrazione, sia
agli organi elettivi, in quanto titolari di poteri normativi e di indirizzo nei
confronti del governo.
Nell’esercizio
di questa funzione, dunque, la Corte dei conti mentre viene a trovarsi nei
riguardi del potere esecutivo in contrapposizione dialettica, trova, invece, nel
Parlamento il suo naturale e diretto interlocutore.
Il controllo
successivo diventa sede di osservazione del contesto amministrativo e
finanziario pubblico attraverso verificazioni programmate che mirano ad
accertare, non tanto la legittimità formale di singoli atti (a presidio della
quale rimane per i provvedimenti più importanti il controllo preventivo), quanto
la regolarità delle gestioni pubbliche intesa come corrispondenza dei risultati
agli obiettivi in rapporto ai tempi, modi e costi dell’azione amministrativa,
secondo i parametri dell’efficacia, dell’efficienza e della economicità che
caratterizzano i sistemi di controllo sulle pubbliche finanze in tutti i Paesi
industrializzati.
L’art. 3, comma
4, della ricordata legge n. 20 intesta alla Corte dei conti due diversi tipi di
controllo: il primo è qualificato come successivo sulla gestione, il secondo è
accertativo del buon andamento.
Orbene, è sorta
questione circa il significato da attribuire alla espressione “controllo
successivo sulla gestione”. Le opinioni al riguardo sono le più diverse.
Alcuni Autori
[40] ritengono trattarsi sempre di
controllo di legittimità ancorché svolto dopo che gli atti hanno prodotto o
cominciato a produrre i loro effetti. Altri
[41], viceversa, opinano per
qualcosa di molto diverso, che attiene all’attività globale svolta
dall’Amministrazione controllata, a nulla rilevando le vecchie classificazioni
relative alla legittimità o al merito.
In sostanza, le
disposizioni contenute nel suddetto comma 4 ci indicano chiaramente come deve
essere svolto il controllo successivo sulla gestione. Esse, infatti, dispongono
che il controllo deve essere effettuato verificando la legittimità e la
regolarità delle gestioni.
Il che significa
che la verifica deve essere fatta tenendo conto non solo della legittimità ma
anche della regolarità.
Infatti, l’uso
di due diversi sostantivi per indicare il tipo di verifica, induce a ritenere
che si è in presenza di due differenti parametri, il primo (la legittimità),
attinente alla necessaria rispondenza dell’attività amministrativa a norme e
principi giuridici (generalmente norme d’azione); il secondo (la regolarità)
alla rispondenza e proporzione della stessa attività anche ad altre regole, che
non possono che essere di natura diversa (generalmente norme contabili o
tecniche).
Se così non
fosse, la regolarità risulterebbe pleonastica rispetto alla legittimità. E ciò
sarebbe incongruo, visto che le due espressioni legittimità e regolarità qui
esaminate sono collocate, una accanto all’altra, nella medesima disposizione
normativa.
In sostanza, la
legittimità e la regolarità fanno insieme parte di una sorta di legittimità
allargata, nella quale la regolarità afferisce generalmente a presupposti
caratterizzati dall’osservanza di regole e procedimenti di natura tecnica o
contabile.
Al controllo
indicato nel primo alinea del comma 4 sono connessi precisi effetti giuridici
che possono condurre alla declaratoria della legittimità o della illegittimità
degli atti e, in quest’ultimo caso, alla loro cancellazione di fatto dal mondo
del diritto [42].
Altra cosa,
invece, è il controllo che sulle medesime Amministrazioni Pubbliche deve essere
svolto dalla Corte ai sensi del secondo alinea del più volte citato comma 4, nel
quale è disposto che la Corte accerta, anche in base all’esito di altri
controlli, la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa agli
obiettivi stabiliti dalla legge, valutando comparativamente costi, modi e tempi
dello svolgimento dell’azione amministrativa.
Non pare dubbio
che in questo caso si è in presenza di un controllo che attiene al buon
andamento dell’azione amministrativa; controllo che deve essere effettuato sulla
base di programmi definiti annualmente, non necessariamente concernenti tutte le
attività svolte da ciascuna Amministrazione statale, e secondo criteri
predeterminati. Non solo, ma svolto anche in base all’esito di altri controlli,
evidentemente effettuati da organismi diversi a ciò deputati dalla legge.
Questi ultimi
dovrebbero essere i servizi di controllo interno, o nuclei di valutazione,
previsti dal decreto legislativo n. 29 del 3 febbraio 1993, come modificato
dall’art. 6 del decreto legislativo n. 470 del 18 novembre dello stesso anno.
Il disegno di
riforma del sistema dei controlli interni è stato portato a compimento con il
decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286.
Orbene, un
controllo che tende ad accertare se l’Amministrazione controllata abbia o meno
conseguito i risultati stabiliti dalla legge, e per fare ciò l’Organo di
controllo deve valutare comparativamente costi, modi e tempi dello svolgimento
dell’azione amministrativa, non può non ascriversi alla categoria dei controlli
di merito e di buon andamento.
Ora, se un
controllo esterno di tal genere fosse accompagnato anche da effetti diretti (di
carattere sanzionatorio) nei confronti dell’Amministrazione pubblica
controllata, costituirebbe una grave menomazione per quest’ultima e si porrebbe,
per altro verso, al di fuori del quadro normativo di livello costituzionale
[43].
L’attribuzione
di questo controllo sulla gestione alla Corte dei conti vuol significare che
l’esito del controllo sulla gestione porta ad un accertamento in relazione ai
risultati che si sono conseguiti o non conseguiti. Pertanto, sembra potersi
affermare che l’istituto della responsabilità amministrativa si arricchisce di
un nuovo settore che è quello della responsabilità per il mancato perseguimento
del risultato. Lo schema tradizionale della responsabilità amministrativa è
quello della responsabilità aquiliana, nel senso di un danno subito per il
quale, poi, si agisce per il risarcimento. Ora con l’introduzione
nell’ordinamento del controllo successivo sulla gestione e con il decreto
legislativo n. 29 del 3 febbraio 1993, il quale prevede la responsabilità
manageriale del funzionario pubblico, il mancato perseguimento del risultato
nella gestione della cosa pubblica costituisce inadempimento da parte del
funzionario della Pubblica Amministrazione con conseguente responsabilità
contrattuale.
Ministero del tesoro-Provveditorato generale dello Stato,
D.M. 8 febbraio 1986 (art. 2), in GURI 3 marzo 1986, n. 51.
Sulla Gazzetta Ufficiale n. 2 del
3.1.2002 è stata pubblicata la
circolare 28 dicembre 2001, n. AIPA/CR/38, inerente il monitoraggio dei
contratti di grande rilievo, che precisa i compiti e le responsabilità
inerenti l'azione di monitoraggio con particolare riferimento alla direzione
dei lavori. Al tempo stesso si estende l'utilizzo delle competenze e
professionalità dei monitori ad attività (realizzazione dello studio di
fattibilità, redazione degli atti di gara, direzione dei lavori, assistenza
al collaudo, realizzazione del piano di continuità ed emergenza) che,
essendo collocate all'interno dello stesso ciclo di vita della fornitura cui
l'esecuzione del contratto si riferisce, contribuiscono a
rafforzare l'azione di governo dei contratti informatici migliorandone
efficienza ed efficacia.
18
Decreti legge n. 143 del 15 maggio 1993, n. 232 del 17 luglio 1993, n. 359
del 14 settembre 1993, e n. 453 del 15 novembre 1993.
V. nota n. 18.
20 Gaz. Uff. n. 199 del 26 agosto 1996.
Cass. 8.10.1979, n. 5186.
Decreto leg.vo n. 29 del 2 febbraio 1993, concernente la "Realizzazione
dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della
disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'art. 2 della legge
23 ottobre 1992, n. 421" - Gaz. Uff. del 6 febbraio 1993, n. 14.
- Corte dei conti, sez. contr., 11 giugno 1993, n. 95, in Foro it., 1993,
III, p. 518;
-
Corte dei conti, deliberazione n. 122/94, adunanza generale della Sezione
del Controllo del 27 settembre del 11 ottobre 1994.
Corte dei conti, sez. contr., 23 novembre 1978, n. 913, in
Foro ammin. 1979, pag. 178.
T.A.R. Friuli-Venezia Giulia 7 maggio 1980, n. 123, Foro it.,
Rep. 1981, voce Corte dei conti, n. 24.
Corte dei conti, sez. controllo 23 novembre 1978, n. 913
cit.
- Galateria - Stipo, Manuale di diritto amministrativo,
Torino, 1989;
- Galli R., Corso di Diritto
Amministrativo - Padova 1994, pag. 679 e seg.;
- Satta F.,
Atto amministrativo, Enc. giur. Treccani vol. IV, 1988.
Corte Cost. 12 novembre 1976, n. 226, in Foro ammin., 1976,
I, pag. 2953.
Art. 4, comma 2, della L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E.
cfr. Sandulli A. M., Manuale di diritto amministrativo,
Napoli, 1984, pag. 1256; - Satta F., Atto amministrativo, Enc. giur.
Treccani, cit.; - Quaranta A., Lineamenti di diritto amministrativo, Novara,
1987, pag. 433; - Virga P., Diritto amministrativo - Atti e ricorsi -,
Milano, 1992, pag. 239; - Nigro M., Giustizia Amministrativa, Bologna, 1983,
pag 244 e seg.; - Anelli C., Rizzi F., Talice C., Contabilità pubblica,
Milano, 1996, pag 789.
- Sandulli A.M. - Manuale di diritto amministrativo, cit.,
pag. 710;
- Quaranta
A., Lineamenti di diritto amministrativo, cit., pag. 330;
- contra,
Cerulli Irelli V., Corso di Diritto amministrativo, Torino, 1994, pag. 245 e
seg..
- Cannada-Bartoli E., Annullabilità e annullamento, in Enc.
dir., vol. II, pag. 493.
- Cerulli Irelli V., Corso di Diritto amministrativo, cit.,
pag. 245;
- Giannini
M.S., Diritto amministrativo, Milano, 1988, pag. 1014;
- Virga P.,
Diritto amministrativo - Atti e ricorsi -, cit., pag 137 e seg..
Cfr. per tutte, C.d.S., Sez. VI, 31 marzo 1967, n. 201.
C.d.S., Sez. VI, 14 gennao 1969, n. 722.
Cfr. Guccione, Ricognizione dello stato attuale dei
controlli e ipotesi ricostruttive nel quadro della finanza regionale, in Riv.
trim. dir. pubbl. 1974, pag. 647; Anelli C., Izzi F., Talice C., Contabilità
pubblica, cit., pag. 784.
Sez. Contr. Sic., det. n. 38 del 10-09-1997, Proc. della
Repubblica di Siracusa.
- Sandulli A.M. - Diritto amministrativo, cit., pag.400;
- Virga P., Diritto amministrativo -
Atti e ricorsi -, cit., pag 31;
- Moretti
B., Mastelloni A., Mancuso E., La Corte dei conti, Milano, 1985, pag. 151 e
seg.;
- Paone P.,
La natura giuridica del controllo della Corte dei conti, Riv. trim. dir.
pubbl., 1960, pag. 178 e seg..
- Galli R. - Corso di diritto amministrativo, cit., pag. 770 e seg.;
- Sepe O.,
Enc. Giur. Treccani, voce: controlli amministrativi, vol IX.,1988;
- Anelli
C., Izzi F., Talice C., Contabilità pubblica,cit., pag. 780.
GIUSEPPE
CHIÀNTERA