Nessuna conquista, nessun passo
avanti. L'ex presidente del Senato Marcello Pera, in Spagna, per
l'apertura di un seminario di studi sociali, si scaglia contro il matrimonio
gay, appena approvato dal Parlamento di Madrid.
Pera boccia senza possibilità
d'appello la nuova legge spagnola: «È falso che si tratti di conquiste civili o
di misure contro le discriminazioni». Secondo il presidente del Senato, il
matrimonio gay rappresenta piuttosto «il trionfo di quel laicismo che pretende
di trasformare i desideri, e talvolta anche i capricci, in diritti umani
fondamentali». È il laicismo, ormai il nemico numero uno di Pera.
Quel laicismo che, sulla procreazione
assistita, «ha imposto un referendum al paese» e che però «è stato sconfitto in
modo clamoroso grazie all'alleanza tra la chiesa, il sentimento profondo dei
cittadini e una minoranza di laici non laicisti». Pera identifica il laicismo
con l'arroganza di chi «vuole imporre una sorta di religione di stato». Una
religione basata su diritti che hanno scarso fondamento e che minano l'identità
europea e occidentale. È questo il caso del matrimonio gay. Ma Pera nutre dubbi
anche sui Pacs, quei patti di convivenza e solidarietà che gli omosessuali
italiani chiedono come forma di riconoscimento diversa dal matrimonio. «Se ci
sono discriminazioni basate sul costume sessuale, per esempio nell'ambiente di
lavoro, bisogna toglierle. Ma - avverte - un'altra cosa è andare oltre il
superamento di queste discriminazioni rivendicando diritti di altra natura».
Sui Pacs, insomma, Pera dice di non
avere un'opinione: si tratta di una «questione tecnica» sui cui si può
discutere. L'importante, lascia capire il presidente del Senato, è che non si
arrivi al matrimonio omosessuale per altre vie. Nella sua trasferta spagnola
Pera, sempre più in sintonia con il presidente della Camera Casini sulla
questione dei valori, non esita a definirsi «cristiano», anche se non credente.
Un paradosso? Pera spiega che anche i laici sono parte della tradizione
cristiana «per i valori che professiamo e i principi in cui crediamo». Cercando
l'identità dell'Europa e dell'occidente «si finisce sempre lì, al Sinai e al
Golgota». E «chi nega questa realtà rischia la fine dell'apprendista stregone:
prima si indebolisce, poi diventa vittima». Pera ha un giudizio duro sull'Europa
che, sotto l'attacco dell'Islam radicale e terroristico, rinuncia a proclamare
la sua identità. È tempo di smetterla di comportarsi come «penitenti che si
battono il petto ogni volta che qualcuno gli sferra un colpo». Se l'Europa vuole
guardare al futuro, deve ripartire dall'affermazione dei propri valori «in
particolare dai valori cristiani». E, allo stesso tempo, smetterla di ascoltare
le sirene laiciste. La costituzione europea «è fallita». Ora «è inutile spargere
eurolacrime». Secondo Pera, «bisogna ripartire da capo». Con la riscoperta
dell'identità e dei valori, certo. Ma anche con le riforme economiche. Riforme
«senza le quali l'Europa è grossa ma non grande». Riforme improntate a un'idea
liberista dell'Europa: «Flessibilità, competitività, riduzione dello stato
sociale, liberalizzazioni, privatizzazioni, innovazione tecnologica, ricerca
scientifica», è il programma suggerito dal presidente del Senato.
Un contributo ad uno dei dibattiti piu' accesi del nostro tempo, quello sul
riconoscimento giuridico di nuove forme di vita familiare, e in particolare del
matrimonio tra omosessuali
Oriana Fallaci
Proporrei la camicia di forza
“L’Europa sarà tutta musulmana entro il 2100. Se non ti opponi alla nuova
follia, lo sarà al massimo entro il 2017. E mentre accade tutto questo arriva
“il señor Zapatero” a buttare alle ortiche “il concetto biologico di famiglia”,
autorizzando il matrimonio gay e, “quel che è peggio, mille volte peggio”,
l’adozione gay. “E questo senza che nessuno gli dicesse almeno cretino: il mondo
va a fuoco, l’Occidente fa acqua da tutte le parti, il terrorismo islamico non
fa che tagliarci la testa, e tu perdi tempo coi matrimoni-gay e le
adozioni-gay?”.
Il punto, spiega Fallaci, è che spesso l’omosessualità diventa ideologia, “come
se fosse uno stato di grazia anzi di superiorità” e “la normalità uno svantaggio
anzi uno stato di inferiorità”. La presunta superiorità, scrive Fallaci, ha un
punto debole: “Quello che, buttando alle ortiche il concetto biologico di
famiglia, il señor Zapatero finge di scordarsi. L’omosessualità non permette di
procreare. Se diventiamo tutti omosessuali, la specie finirebbe. Si
estinguerebbe come i dinosauri”. Fallaci spiega a lungo questo concetto, anche
attraverso il racconto di un pranzo romano con Pier Paolo Pasolini, due mesi
prima della sua morte: “Nell’immagine di due uomini o di due donne che col
neonato in mezzo recitano la commedia di Maria e Giuseppe vedo qualcosa di
mostruosamente sbagliato”.
Gran finale: “Non bisogna cedere. Bisogna resistere. Io non voglio cedere.
Voglio resistere. Perché voglio vedere la sconfitta del Mostro, voglio vedere la
vittoria dell’Angelo che lo imprigiona”.
(La portano via).
L’Apocalisse di Oriana - Il Foglio, 14 dicembre 2004
l’Apocalisse di Oriana Fallaci
Nuovo libro della Fallaci, un’invettiva contro il Mostro islamista e la Bestia
collaborazionista di un’Europa che preferisce distruggere il “concetto biologico
di famiglia” piuttosto che difendersi. Da leggere
Milano. Oriana Fallaci torna in libreria, oggi, con un cofanetto che raccoglie
la sua Trilogia post 11 settembre (“La Rabbia e l’Orgoglio”, “La Forza della
Ragione”, “Oriana Fallaci intervista sé stessa”) riveduta, corretta e ampliata.
All’intervista ha aggiunto un lungo Post Scriptum di 103 pagine, praticamente un
altro libro, sempre sotto forma di colloquio con se stessa, che ha intitolato
“L’Apocalisse”.
Il Foglio lo ha letto in anteprima e ve lo racconta. L’Apocalisse è la visione
mistica di Giovanni l’evangelista, il racconto di “un mostro che saliva dal
mare”, con sette teste e dieci corna, così forte e così potente che nessuno ebbe
il coraggio di contrastarlo e al quale fu consentito di “pronunciare frasi
arroganti, offendere Dio, maledire il suo nome”. Un mostro che ricevette il
potere su ogni uomo e su ogni cosa e al quale fu consentito “di far guerra a
coloro che appartengono al Signore”. Il Mostro, secondo Fallaci, è l’Islam, il
credo in nome del quale si uccidono centocinquanta bambini a Beslan e tutte le
altre orrende cose che sono accadute in questi anni. Nell’Apocalisse, ricorda
Fallaci, c’è anche un altro tipo di mostro: “Un mostro che saliva dalla terra”,
una “Bestia” che “prese a esercitare il potere per conto del Mostro”. Secondo la
scrittrice, la Bestia è il gruppo dei “collaborazionisti”, l’Europa che lei
chiama “Eurabia”, “l’Occidente che divorato dal cancro morale fa il gioco
dell’Islam. Rassegnato, soggiogato, pavido”. Sono la quinta colonna del Mostro,
sono i volenterosi carnefici della nostra civiltà, quelli che inconsapevolmente
lavorano ai fianchi la nostra tradizione, quelli che non hanno aperto gli occhi
né l’undici settembre né l’undici marzo, coloro che nonostante le decapitazioni
in Iraq e lo sgozzamento di Theo van Gogh ad Amsterdam fanno addirittura fatica
a definire “islamico” il terrorismo in nome di Allah.
Lo stile letterario di Fallaci è il consueto: ricco, potente, evocativo, vivo.
Per capire il suo modo di scrivere bisogna pensare a un neologismo americano: “It’s-all-about-me-journalism”.
Fallaci parla di se stessa, usa la sua biografia, talvolta il suo stesso corpo e
la sua malattia, per arrivare diritta al cervello e alle viscere di chi la
legge. E guai a dirle che “rifarsi all’Apocalisse” per spiegare il mondo, può
sembrare “un gioco intellettuale” o “un trucco letterario” o “una fantasia di
scrittori” o “una fiaba”. Secondo Fallaci, “invece è la tragica realtà in cui
viviamo duemila anni dopo Giovanni l’evangelista. Per capirlo basta dare
un’occhiata ai giornali e alla Tv, o ascoltare le insensatezze che dicono i
politicanti europei”.
Il mondo degli “sgomentevoli”
Fallaci ha ascoltato tutte queste insensatezze pronunciate da chi, in “La
Forza della Ragione”, definisce uomini “sgomentevoli”. Nel tritacarne fallaciano
finiscono Jacques Chirac, Laurent Fabius e, soprattutto, José Luìs Rodrìguez
Zapatero. E poi Romano Prodi, chiamato più volte “Mortadella”, criticato più per
come ha guidato l’Unione Europea che come leader dell’Ulivo. E poi, le due
Simone, che lei chiama “le due Simonette”, ingrate con chi le ha liberate e
invece grate, gratissime, con i carcerieri che in fondo le avevano trattate
bene. Anche il presidente Carlo Azeglio Ciampi viene investito dalla rabbia
orgogliosa di Fallaci, così come il Corriere della Sera (“ululando come un lupo
impazzito giurai che sul Corriere non avrei pubblicato più neanche il mio
necrologio”), e con il Corriere le prende anche Magdi Allam (mai citato per
nome), l’Islam moderato (“non esiste”), l’idea di far entrare la Turchia nella
Unione europea, la Costituzione europea privata delle sue radici
giudaico-cristiane, il matrimonio e l’adozione gay, Yasser Arafat, il nuovo
Premio Nobel per la Pace che accusa l’Occidente di aver diffuso l’Aids per
sterminare gli africani e, ovviamente, Osama bin Laden. Fallaci rivela di aver
incontrato lo sceicco in un albergo di Beirut: “Parlo del giovanotto che nel
luglio del 1982 vedemmo a Beirut. Quello incredibilmente alto e dignitoso che
vestito di un candido djellaba camminava per il salone del grande albergo dove
c’eravamo appena trasferite, che un paio di volte girò attorno alla nostra
poltrona lanciandoci un’intensa occhiata di antipatia. Anzi di ostilità”.
Figure, persone e storie apparentemente diverse e lontane, ma che Fallaci lega a
un unico filo: c’è una religione che predica l’odio e lo sterminio della
civiltà, e la civiltà è stanca e troppo politicamente corretta per accorgersene.
Ma l’occidente non solo non se ne accorge, fa molto di più e di peggio: si
adopera per accogliere l’invasione, per ridurre le difese, per sminuirsi e
favorire il piano di conquista: “Il professor Bernard Lewis è un ottimista a
profetizzare che l’Europa sarà tutta musulmana entro il 2100. Se non ti opponi
alla nuova follia, lo sarà al massimo entro il 2017”. E mentre accade tutto
questo arriva “il señor Zapatero” a buttare alle ortiche “il concetto biologico
di famiglia”, autorizzando il matrimonio gay e, “quel che è peggio, mille volte
peggio”, l’adozione gay. “E questo senza che nessuno gli dicesse almeno cretino:
il mondo va a fuoco, l’Occidente fa acqua da tutte le parti, il terrorismo
islamico non fa che tagliarci la testa, e tu perdi tempo coi matrimoni-gay e le
adozioni-gay?”. L’atea Fallaci ne ha anche per Karol Wojtyla: “Questo senza che
la Chiesa Cattolica si ribellasse, senza che il Papa (di nuovo) si difendesse.
Magari tirando in ballo la Madonna di Czestochowa a cui è tanto devoto e che
certo non avrebbe gradito l’iniziativa di Zapatero”. Il punto, spiega Fallaci, è
che spesso l’omosessualità diventa ideologia, “come se fosse uno stato di grazia
anzi di superiorità” e “la normalità uno svantaggio anzi uno stato di
inferiorità”. La presunta superiorità, scrive Fallaci, ha un punto debole:
“Quello che, buttando alle ortiche il concetto biologico di famiglia, il señor
Zapatero finge di scordarsi. L’omosessualità non permette di procreare. Se
diventiamo tutti omosessuali, la specie finirebbe. Si estinguerebbe come i
dinosauri”. Fallaci spiega a lungo questo concetto, anche attraverso il racconto
di un pranzo romano con Pier Paolo Pasolini, due mesi prima della sua morte:
“Per essere concepiti, ci vuole un ovulo e uno spermatozoo. Che ci piaccia o no,
su questo pianeta la vita funziona così” e “nell’immagine di due uomini o di due
donne che col neonato in mezzo recitano la commedia di Maria e Giuseppe vedo
qualcosa di mostruosamente sbagliato”.
Il ragionamento della scrittrice trova conferme nel caso di Rocco Buttiglione al
Parlamento europeo, colpevole di aver pronunciato la parola “peccato”: “Vi colsi
la prova definitiva del nostro cupio dissolvi, l’ansia di autodistruzione che
ormai divora l’Occidente attraverso il suo cancro intellettuale e morale”.
Fallaci non ama Buttiglione, “mi irrita la sua mellifluità alla Mortadella, la
sua educata spocchia alla D’Alema e la condiscendenza con cui invita a rileggere
De Captivitate Babylonica Ecclesiae o Regulae ad directionem Ingenii”, ma “se
non mi brucia sul rogo perché la penso in modo diverso da lui, ha il diritto
d’essere cattolico come io ho diritto d’essere atea”.
Il trasferimento a Tonga
Cinque cose avevano convinto Oriana Fallaci a lasciare l’Italia per trasferirsi
a Tonga (non a “Sant’Elena” perché “io per Napoleone ho sempre nutrito
malevolenza”), altre quattro l’hanno fatta restare. La prima è stata la reazione
di chi, di fronte a gente che ha ucciso 150 bambini in nome di Allah, ha dato la
colpa a Putin. Poi il suo Corriere della Sera che ha promosso un tragicomico
Manifesto sull’Islam “moderato” sponsorizzato dal ministro Beppe Pisanu e lodato
da Carlo Azeglio Ciampi. L’Islam moderato non esiste, scrive Fallaci: “Il Corano
è ciò che è. E i fondamentalisti, gli integralisti non sono il suo volto
degenere. Sono il suo vero volto, il suo volto fedele”. Esistono, però, i
musulmani moderati, “certo che esistono, ma sono una minoranza esigua”, come
Abdel Rahman al-Rashed che sul giornale Asharq al-Awsat ha scritto un articolo
che Fallaci riporta per intero e il cui succo è questo: “E’ un fatto che non
tutti i musulmani sono terroristi, ma è ugualmente un fatto che tutti i
terroristi sono musulmani”. Infine la pantomima delle “due Simonette”, Zapatero
e il caso Buttiglione. Ma sono state la firma a Roma di una Costituzione europea
“senz’anima”, il video di bin Laden (“in lui vidi qualcosa di apocalittico”),
l’assassinio di van Gogh e la reazione italiota alla morte del “padre del
terrorismo”, cioè di Arafat, a farla rimanere: “Non bisogna cedere. Bisogna
resistere. Io non voglio cedere. Voglio resistere. Perché voglio vedere la
sconfitta del Mostro, voglio vedere la vittoria dell’Angelo che lo imprigiona”.
(14/12/2004)
L'articolo
ANTEPRIMA. ESCE OGGI IN COFANETTO LA TRILOGIA DELLA GIORNALISTA E SCRITTRICE.
CON UN NUOVO DRAMMATICO TESTO
FALLACI Apocalisse Islam
di Pierluigi Battista
14 dicembre 2004
«Continui, continui...», implora l’intervistatrice Oriana Fallaci. E
l’intervistata, Oriana Fallaci, risponde rassegnata: «Oh, si potrebbe continuare
all’infinito». Ma non si può continuare all’infinito perchè incombe l’Armageddon,
lo scontro finale dell’Apocalisse giovannea: «Allora vidi un mostro che saliva
dal mare. Aveva sette teste e dieci corna, su ogni corno portava un diadema, e
su ogni testa un nome che era una bestemmia». E quando il Mostro portò il suo
attacco mortale «tutti si inginocchiarono ai suoi piedi» e «poi gli ubbidirono e
gli consentirono di pronunciare frasi arroganti, offendere Dio, maledire il suo
nome. Gli consentirono di profanare il tempio e insultare coloro che sono in
Cielo». «Pazienza se Giovanni trasporta la realtà terrena in un mondo celeste,
qui la esprime attraverso metafore e allegorie ed enigmi», scrive Oriana: «nella
mia piccola Apocalisse invece quella realtà io la tengo coi piedi ben piantati
in terra». «Al loro posto», al posto di quegli enigmi e di quelle allegorie,
«fatti molto precisi».
E il Fatto innominabile, quello che non si può pronunciare e che da tre anni
genera attorno al nome della Fallaci un’aura di intollerabile scandalo non è
nient’altro che questo: «il cosiddetto scontro-di-civiltà ossia lo scontro fra
l’Occidente e l’Islam non è che la lotta di cui parla l’evangelista Giovanni».
Ecco perché «si potrebbe continuare all’infinito».
Doveva essere un «post-scriptum» a Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci è
invece ne è scaturito un altro libro di oltre cento pagine: L’Apocalisse,
appunto. Insieme al precedente, uscito quest’estate, e accanto a La rabbia e
l’orgoglio e a La forza della ragione, questo nuovo parto (è lei che lo chiama
così e i suoi libri li definisce «i miei figli») della Fallaci esce stamattina
nelle librerie sotto forma di trilogia, in cofanetto, edito dalla Rizzoli
International. Ma sono troppe le manifestazioni del Mostro, del Diavolo, della
Bestia per essere soffocate in un angusto «post-scriptum».
Dai primi di agosto il Mostro si è materializzato nei «centocinquanta bambini e
centonovantanove adulti (per lo più maestri e maestre e genitori) che tra la
mattina dell’1 settembre e l’alba del 3 settembre i “guerriglieri” ceceni
guidati da Abdullah Shamil Abu Idris già Shamil Basayev sterminarono con l’aiuto
di tre arabi e due donne nella scuola di Beslan»: «le ragazzine, invece, le
avevano uccise in un cesso dopo averle violentate una ad una. Questi animali i
cui imam cianciano con tanto fervore di etica e pudore e virtù». Si è mostrato,
il Diavolo, con i rapiti, i decapitati, gli sgozzati, i freddati «soltanto col
colpo alla nuca» nell’«infernale mattanza» irakena. Si è incarnato in Muhammad
Bouyeri, un «marocchino naturalizzato olandese» che fino a tre anni fa studiava,
lavorava, si integrava nella civile e tollerante Olanda, beveva birra,
frequentava i night-club di Amsterdam, vestiva all’occidentale e che dopo l’11
settembre «s’è fatto crescere la barba» e «ha preso a frequentare la moschea di
El Tahweed» e lo scorso 2 novembre, con indosso un djellaba marrone e un
mantello nero, ha raggiunto il regista Theo van Gogh, gli ha scaricato addosso
nove colpi di pistola, lo ha sgozzato con una spada e lo ha trafitto infilando
«nel ventre di Theo» una lettera-proclama: «con calma», «con scrupolo». E mentre
il Mostro dell’Apocalisse colpisce e devasta, secondo la Fallaci, si addensa la
folla variopinta dei «collaborazionisti», «coloro che invece d’opporsi al Mostro
lo aiutano.
Che invece di ribellarsi accettano il marchio sulla fronte e sulla mano destra»,
così come il Mostro giovanneo «costringeva gli abitanti della terra ad adorarlo
come si adora un dio, ordinava di erigergli statue».
Oriana Fallaci sa benissimo che questa inclusione nella infamante categoria dei
«collaborazionisti» alimenterà l’ostilità e persino il disprezzo e forse anche
l’odio di chi considera ogni sua riga una manifestazione di fanatismo,
l’espressione di una bizzarra ma pericolosa fomentatrice della guerra di
religione, del fondamentalismo occidentalista, dell’irresponsabile «scontro-di-civiltà».
Ma la Fallaci, che è in guerra quotidiana con l’«Alieno» che la vuole divorare,
che pesa meno di quaranta chili e che implora il destino di farla vivere fino a
che il Mostro non venga battuto, non sa sottrarsi alla tentazione del colpo
inferto alle maschere buffe e tragiche del Politically Correct che a suo parere
ci stanno consegnando in toto nelle fauci di chi vuole distruggere il Grande
Satana dell’Occidente giudaico-cristiano. Usa parole irridenti. Le «due
Simonette pacifiste arcobaleniste», «presuntuose, villane». «Il bruttissimo
Michael Moore». Chirac, «quello che dice le-radici-dell’Europa-sono-tanto-cristiane-quanto-mussulmane».
Attacca chi dice «terrorismo» e «non dice mai “terrorismo islamico”» e non vuole
dar retta per pavidità al saudita Abdel Rahman al-Rashed quando scrive: «è un
fatto che non tutti i mussulmani sono terroristi, ma è ugualmente un fatto che
tutti i terroristi sono mussulmani».
Deplora chi, finanziato dal Monte dei Paschi di Siena, vuole «profanare il
paesaggio di Simone Martini e Duccio Boninsegna e Ambrogio Lorenzetti con una
moschea e un minareto alto ventiquattro metri».
Chi va ai funerali di Arafat, un uomo che «il suo popolo lo aveva sempre tenuto
nella povertà, nell’ignoranza, nella corruzione, nella merda». Chi vuole in
Europa la Turchia «riconsegnatasi al verbo del Profeta». Chi, come «gli
inquisitori» che hanno bocciato nel Parlamento europeo Rocco Buttiglione (al
quale però, scrive la Fallaci, «non darei la graziosa casetta per gli ospiti
attigua alla mia»), dimostra che ormai l’Europa è diventata «Eurabia». Del
resto, la Fallaci disintegra la nozione stessa di «Islam moderato» perché
«l’Islam moderato non esiste» e perché «il Corano è ciò che è. E i
fondamentalisti, gli integralisti, non sono il suo volto degenere». Superfluo
sottolinare che anche il Capo dello Stato viene messo sotto accusa perché crede
all’esistenza dell’Islam moderato. La Fallaci non è costitutivamente capace di
understatement, figurarsi se si lascia sopraffare da preoccupazioni
istituzionali mentre è in atto la guerra finale con il Mostro dell’Apocalisse.
Certamente non superfluo è sottolineare l’ostilità della Fallaci per la «bravata
del señor Zapatero» che butta «alle ortiche il concetto biologico di famiglia» e
autorizza il matrimonio-gay o («quel che è peggio») l’adozione-gay: «senza che
nessuno gli dicesse almeno cretino: il mondo va a fuoco, l’Occidente fa acqua da
tutte le parti e tu perdi tempo coi matrimoni-gay e le adozioni-gay?». Spiega la
Fallaci «se dici la tua sui matrimoni-gay e l’adozione-gay, finisci al rogo come
quando dici la tua sull’Islam. Ti danno di razzista, di fascista, di bigotto, di
incivile, di reazionario». Vero. Ma come fa la Fallaci a rintuzzare l’accusa di
essere bigotta, incivile, reazionaria, eccetera eccetera?
Affermando che «sull’accettazione dell’omosessualità il señor Zapatero non ha da
insegnarmi nulla» e gli omosessuali «guai a chi me li tocca». Ma soprattutto
argomentando che «un essere umano nasce da due individui di sesso diverso. Un
pesce, un uccello, un elefante, un insetto, lo stesso. Per essere concepiti, ci
vuole un ovulo e uno spermatozoo» mentre «un omosessuale maschio l’ovulo non ce
l’ha. Il ventre di donna, l’utero per trapiantarcelo, nemmeno. E non c’è
biogenetica al mondo che può risolvergli tale problema».
È convincente un tale modo di argomentare? Può non essere convincente, ma non è
nemmeno fascista, reazionario, bigotto e incivile pensarlo. Quando «parlano di
adozione-gay mi sento derubata del mio ventre di donna», sostiene la Fallaci.
Può essere una tesi contestabile, frutto della mistica di una Natura immobile e
inalterabile, chissà. Ma in quanto tale non rivela alcun pregiudizio
anti-omosessuale. Racconta Oriana Fallaci che nel 1975 incontrò il suo amico
Pier Paolo Pasolini, giusto due mesi prima dell’assassinio dello scrittore sulla
spiaggia di Ostia, e Pasolini le fece una scenata: «devo spiegarti perché odio,
perché detesto, perché aborro il tuo libro Lettera a un bambino mai nato. E
perché mi nausea ascoltare ciò che stai sostenendo. Io non voglio sapere che
cosa c’è dentro un ventre di donna. Una volta anche mia madre tentò di spiegarmi
che cosa cìè dentro un ventre di donna. E ci litigai. Io che amo tanto mia
madre».
Il ricordo di quel Pasolini è l’unica concessione alla tenerezza di una Fallaci
che non mancherà di alimentare il solito profluvio di aggettivi convenzionali,
indomita, testarda, coraggiosa, temeraria, ma anche eccessiva, smodata,
intemperante, fanatica. Lei, «sebbene stanca, insopportabilmente stanca», dice
che non vuole «alzare bandiera bianca, scappare». Non vuole morire. Vuole
resistere con le forze che le restano «perché voglio vedere la sconfitta del
Mostro, voglio vedere la vittoria dell’Angelo che lo imprigiona» e che, nel
racconto apocalittico dell’evangelista Giovanni, regalò alle «anime di coloro
che ai piedi del Mostro non si erano mai inginocchiati» il privilegio di una
vita di «mille anni». Unica luce di ottimismo nel racconto di una guerra forse
miserabilmente perduta.
Citazioni
"Quando parlano di adozione-gay mi sento derubata del mio ventre di donna".
Oriana Fallaci, 2006
"Non sono d'accordo con la legge spagnola che consente ad una coppia omosessuale
di adottare un bambino, perché fa vivere un incubo al bambino stesso" (...)
"Sono visioni che distorcono in maniera brutale i diritti dei bambini". Carlo
Giovanardi, Ministro per i Rapporti con il Parlamento (UdC), Agenzia Agi, 27
marzo 2006 [8].
"Quando vedo ai telegiornali i due uomini o le due donne che si baciano,
francamente mi fa un po' schifo, però non voglio passar per bacchettone... Però,
che dopo si arrivi anche all'adozione di bambini da parte di coppie del genere
senza sapere chi è il papà e chi è la mamma... francamente mi lascia
sconcertato." Roberto Calderoli (Lega Nord), ministro per le riforme, 15
febbraio 2006, intervista televisiva del TG1 con Clemente Mimun.
"L'interesse superiore del bambino" deve "essere presente per la sua adozione",
dunque, dovrebbe essere bandita alle "unioni di fatto di uno stesso sesso perché
non proteggerebbe l'educazione" del piccolo, in questo caso esposto ad un "falso
modello che è solo una caricatura della famiglia". Cardinale Alfonso Lopez
Truillo, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia. Ansa, 28 aprile
2006.
Matrimonio tra omosessuali?
FRANCESCO D’AGOSTINO
Ordinario di Filosofia del Diritto
Università degli Studi di Roma Tor Vergata
1. Per quanto teoricamente e storicamente insostenibile (e efficacemente
confutata da molti e molti anni), l’immagine del giurista come quella di un
tecnico al servizio dell’operato del legislatore, come quella di colui che
comincia ad agire solo dopo che tutti i giochi sono stati giocati, quando cioè
la volontà normativa di chi detiene il potere legislativo si è definitivamente
cristallizzata in un testo di carattere assolutamente formale, è ben dura a
morire. Non è facile individuarne la ragione, tanto è riduttiva e obiettivamente
poco esaltante questa immagine: a meno che non si voglia pensare che, in
un’epoca di crisi come la nostra, il giurista "medio" proprio a questo in realtà
aneli con tutto il suo essere, cioè a lavorare all’ombra del potere e ad
elaborare di conseguenza un’immagine rassicurante di se stesso, come di colui
che, in quanto del potere è servitore, viene in contraccambio efficacemente
protetto dal potere stesso (traendone così indubbi, anche se ben poco nobili
vantaggi).
2. Questa premessa è indispensabile per capire perché in uno dei dibattiti più
accesi del nostro tempo, quello sul riconoscimento giuridico di nuove forme di
vita familiare, e in particolare del matrimonio tra omosessuali, i giuristi di
oggi sembra che entrino malvolentieri, o che addirittura non vogliano entrare
affatto, quasi che stessero rispettosamente aspettando il maturare di una
decisione che non a loro competerebbe, ma esclusivamente ai "politici" e che una
volta maturata essi sarebbero prontissimi a recepire rispettosamente. Di
conseguenza, non c’è da meravigliarsi se a loro volta i politici, deprivati
dell’indispensabile sussidio dei giuristi, si muovono male, prestando
frettolosissime attenzioni a qualunque istanza ideologica, anche alla più
incredibile, che venga elaborata in seno alla società civile, lanciando proposte
che il più delle volte durano l'espace d’un matin, e che servono solo a rivelare
quanto sia in genere profonda (e colpevole) la loro ignoranza dei vincoli
strutturali che tengono insieme il sistema giuridico (con i suoi sottosistemi,
primo tra tutti quello dei rapporti familiari); vincoli che, una volta alterati,
producono inevitabilmente perturbazioni a catena, dolorosamente laceranti e ben
difficilmente sanabili. La situazione è davvero sconfortante.
È necessario che in un dibattito estremamente complesso come quello sul
matrimonio e sulla famiglia, un dibattito nel quale necessariamente si
intrecciano istanze non solo etiche, ma proprie di pressoché tutte le scienze
umane, i giuristi tornino a far ascoltare la loro voce. Ne va non solo del
matrimonio e più in generale del diritto; ne va, né più né meno che dell’uomo.
3. Che cosa propriamente chiedono coloro che auspicano una riforma così radicale
del diritto di famiglia, come quella che dovrebbe aprirlo al riconoscimento
formale delle coppie omosessuali? Essi chiedono che l’ordinamento giuridico
prenda sul serio il fatto che l’omosessualità non può più essere intesa come una
malattia; di conseguenza, che non è possibile continuare a gestire la questione
omosessuale come si è fatto fin’ora, cioè attraverso un’attenta miscela di
tolleranza privata e disapprovazione pubblica.
Proprio in quanto non sono soggetti malati, gli omosessuali — ma su questo, si
noti bene, non c’è chi non sia d’accordo — hanno il diritto a non subire alcuna
discriminazione a causa della loro identità. Potrà e dovrà continuare ad essere
combattuta l’omosessualità che si manifesterà in forma violenta, ma non
diversamente peraltro da come può e deve essere repressa ogni pratica sessuale
violenta posta in essere da eterosessuali.
Ma una pratica omosessuale liberamente e consapevolmente accettata deve ormai —
così si sostiene — avere lo stesso riconoscimento di una pratica eterosessuale.
Poiché dunque esistono serie e rispettabili convivenze omosessuali, che
presuppongono nei conviventi profondi impegni reciproci di affettività e
solidarietà, bisogna procedere nei loro confronti ad una vera e propria forma di
riconoscimento legale, secondo modalità normative sostanzialmente analoghe a
quelle che governano le coppie coniugate.
In una prima generica approssimazione, sembra che tutto quindi si condensi in
una richiesta che pare avere dalla sua una certa ragionevolezza: la
ragionevolezza di chi insiste che bisogna prendere atto di un dato che ormai
appartiene alla realtà del nostro tempo. Se però cerchiamo di andare al di là di
questa prima approssimazione e vogliamo mettere a fuoco l’essenziale del
dibattito in materia quale si è svolto in questi ultimi anni, ci accorgiamo che
le cose non possono essere ridotte in termini così semplici.
Infatti, la linea dei "riformisti" (per riunire sotto quest’unica categoria
tutti coloro che ritengono giunto il momento di riformare radicalmente il
diritto di famiglia) non è univoca: nel loro fronte convivono almeno due diverse
linee di tendenza, irriducibili di principio tra loro, che solo occasionalmente
si trovano, nel nome della rivendicazione di un modello "pluralistico" di
famiglia, ad essere alleate contro la prospettiva giuridica "tradizionale",
quella che parla di famiglia "al singolare", come fondata su un concetto univoco
di matrimonio, inteso come l’unione stabile di due individui di sesso diverso.
3.1 Da una parte c’è la linea di tendenza che potremmo denominare liberazionista
(seguendo l’indicazione di Andrew Sullivan in quello studio a suo modo esemplare
che è Virtually normal). Secondo questa linea, la lotta per il riconoscimento
delle convivenze omosessuali si inquadrerebbe in una prospettiva
politicoprogettuale assolutamente più ampia. È evidente che il riconoscimento di
un matrimonio tra omosessuali comporterebbe, nell’immediato, un effetto sociale
inevitabile e cioè il depotenziamento della famiglia in generale e in
particolare di un istituto giuridico, come quello del matrimonio legale,
ritenuto dai "liberazionisti" obsoleto e repressivo (e già questo basterebbe per
i suoi fautori a rendere tale riconoscimento auspicabile). Infatti, per
ricomprendere in se stesso l’unione tra omosessuali, il matrimonio legale
dovrebbe essere "depubblicizzato", reso cioè sempre più simile a un mero con
tratto di diritto privato, che per definizione va affidato nei suoi contenuti
concreti alla più piena disponibilità dei contraenti. Riconoscendo le convivenze
omosessuali, il sistema giuridico si troverebbe quindi obiettivamente costretto
a fare un primo, ma deciso passo indietro; il primo di molti, ulteriori passi
indietro che dovrebbero condurre se non all’estinzione del diritto di famiglia,
almeno alla sua riduzione ai minimi termini. E qui comincia a delinearsi
l’ulteriore effetto, destinato a manifestarsi in tempi medio lunghi,
dell’auspicato riconoscimento giuridico delle convivenze omosessuali: un effetto
dotato di una valenza ancor più significativa di quella appena accennata, perché
non si limiterebbe ad alterare radicalmente un capitolo del diritto privato come
quello del diritto familiare, ma coinciderebbe sostanzialmente con una lotta
politico-sociale di carattere libertario e antigiurista. Il riconoscimento del
matrimonio tra omosessuali sarebbe quindi il primo passo di un processo — i cui
tempi ovviamente, per chi se ne fa fautore, non sono oggi puntualmente
prevedibili — che dovrebbe comunque condurre ad instaurare un modello di
convivenza sociale assolutamente nuovo, radicalmente individualistico, liberato
insomma dal peso di quel vincolo estrinseco e soffocante che è il diritto.
3.2 Occasionalmente alleato al movimento liberazionista, ma profondamente
diverso nei suoi presupposti ideologici e nella sua dimensione progettuale, è il
movimento che (sempre seguendo Sullivan) possiamo denominare liberale e che
considera il riconoscimento giuridico delle convivenze omosessuali un autentico
e specifico obiettivo, privo di qualsiasi carattere strumentale rispetto a
finalità ulteriori.
Si tratta evidentemente di un liberalismo secundum quid, perché sposta la sua
attenzione dal piano della teoria e della prassi delle forme di governo (quello
proprio del liberalismo classico) al piano del vissuto individuale dei
cittadini, per come questo vissuto è destinato ad acquistare rilievo
giuridico-istituzionale. Effettivamente questo movimento non può che essere
definito liberale, perché prende veramente sul serio l’ispirazione più profonda
del liberalismo (che è nello stesso tempo quella più problematica): quella
ispirazione pluralistica, costitutivamente intinta però di un irriducibile
individualismo e relativismo etico, che portò nel secolo scorso i liberali (o
almeno i più conseguenti tra essi) a un durissimo scontro con la Chiesa (scontro
composto solo nei limiti in cui il riferimento di alcuni liberali a un
articolato sistema di positivizzazione dei diritti umani, come diritti invi
olabili, ha consentito alla fine, e fortunatamente, di individuare fruttuosi
piani di intesa e collaborazione tra cattolici e laici). Diversamente dal
modello precedente, quello liberale non si prefigura nessuna palingenesi
sociale, né meno che mai si lascia suggestionare da utopie antigiuridiste.
Per i liberali, è semplicemente giunto il momento di riconoscere che è
definitivamente tramontato l’ideale (o l’illusione) di un’etica (e in
particolare di un’etica sessuale) universalmente condivisa e meritevole quindi
di essere tutelata istituzionalmente.
Ciò comporta che andrebbe ritenuta parimenti tramontata l’idea (che per i
liberali più propriamente va ritenuta un’illusione) che le forme private di vita
— ivi comprese quelle sessuali — siano tutte da ricondurre a modelli univoci,
univocamente determinabili sul piano del diritto (come è appunto il caso del
matrimonio che esige che i contraenti appartengano a sessi diversi). Esistono —
sostengono i liberali — svariate modalità di vivere la sessualità, così come
esistono diverse modalità di vivere la fede religiosa o di praticare un impegno
politico o di ricercare la propria felicità.
Ciò che spetta al diritto — sempre nell’opinione dei liberali — non è di
privilegiarne alcune, ma di riconoscerle tutte, senza operare indebite
discriminazioni di alcuna sorta. Regolamentare giuridicamente le convivenze
omosessuali non implicherebbe pertanto un dire di no al diritto, ma solo il
chiedere al diritto lo sforzo di porsi al servizio del nuovo politeismo etico
che si è imposto nel nostro tempo. Per farlo, il diritto deve saper rinnovare se
stesso e le sue forme tradizionali, deve inventare nuove risposte alle nuove e
profonde esigenze che emergono nella società civile. Nel breve periodo, ciò può
di fatto comportare l’adozione di strategie normative non molto diverse da
quelle richieste dai liberazionisti; ma nel lungo periodo, il progetto liberale
manifesta una sua spiccata identità: esso vede il diritto non come una realtà
repressiva, ma come un sistema di difesa dell’unico diritto umano che per i
liberali è davvero fondamentale, quello di ciascun individuo di veder
riconosciute, protette e potenziate istituzionalmente le proprie insindacabili
scelte personali di vita.
4. Credo che il dibattito sul riconoscimento giuridico della convivenza degli
omosessuali sia divenuto oggi così complicato proprio a causa dell’intreccio di
queste due prospettive fondamentali (che a loro volta si articolano in diverse e
complesse sottoprospettive, anche conflittuali tra loro).
La loro occasionale convergenza nella critica al modello tradizionale di
famiglia ha generato e genera intricatissime dinamiche dialettiche e
ideologiche, oltre tutto potenziate a dismisura (e in genere in modo
banalizzante) dai moderni mezzi di comunicazione di massa. Il che, rendendo le
diverse tesi di fondo difficilmente percepibili, ne rende ancor più complicata
una valutazione lucida e rigorosa.
Peraltro, l’intreccio di queste due prospettive non è privo di una sua ragione,
sulla quale è utile riflettere, se non altro perché può aiutarci a giungere più
rapidamente a percepire quale esattamente sia la questione essenziale da
fronteggiare. Le due diverse prospettive non si intrecciano — lo abbiamo già
detto — per la loro specifica portata propositiva: è vero che i sostenitori
delle due posizioni si battono perché gli omosessuali possano sposarsi
legalmente, ma lo fanno in base a progetti politico-sociali significativamente
diversi. Si intrecciano piuttosto perché muovono da un implicito, comune (e
tragico) presupposto, nel quale si riassume uno dei tratti tipici della
modernità e che ha un carattere fondamentalmente antropologico. Sia i
liberazionisti che i liberali non hanno alcuna fiducia nella possibilità di
elaborare un discorso obiettivo sulla persona umana, sulle sue spettanze, sulle
sue esigenze autentiche e profonde, sui suoi doveri; la stessa categoria
dell’identità personale è ritenuta da essi non tematizzabile; la persona è vista
sia dagli uni che dagli altri come fondamentalmente inafferrabile, indicibile,
evanescente, quindi come fondamentalmente irrelata, avulsa da ogni logica di
comunicazione e riconducibile unicamente alla dinamica costitutivamente
instabile dei desideri individuali e soggettivi.
Ne segue che del diritto non è più percepita (e quindi gli viene sottratta) la
funzione tipicamente propria, quella appunto di essere uno strumento al servizio
della comunicazione interpersonale (e rivolto alla difesa della parte che, nella
dinamica comunicativa, si rivela come la più debole). Il diritto mantiene una
sua (residua) legittimità (e questo peraltro solo per i liberali) unicamente nei
limiti in cui lo si riconosca al servizio esclusivo dell’individuo e gli si
imponga di omaggiare e di potenziare i suoi (privati e insindacabili) desideri.
La battaglia che liberazionisti e liberali combattono contro il modello
"tradizionale" (cioè monistico ed eterosessuale) del matrimonio, equivale quindi
ad una battaglia contro l’idea che esistano modalità obiettive, o — se così si
preferisce dire — naturali di comunicazione interpersonale, modalità che il
diritto sia chiamato a formalizzare, a regolamentar e, a garantire.
5. Siamo così giunti al punto essenziale della questione, che, per i giuristi,
può essere formulata in termini molto semplici: quella tra omosessuali non può
avere riconoscimento giuridico perché non è una comunicazione; o meglio, e più
propriamente, non è una comunicazione nel senso, nell’unico senso, che può avere
rilievo per il diritto. È evidentemente fuori discussione, infatti, che esistono
mille modi per gli uomini di comunicare tra loro, modi che possono anche
possedere un immenso rilievo esistenziale, ma che non possiedono, né in linea di
principio possono possedere alcun rilievo giuridico: l’amicizia è l’esempio più
emblematico che si possa fare al riguardo. L’amicizia non è giuridicizzabile non
perché il rapporto che unisce affettivamente due persone amiche non risponda ad
una logica comunicativa, ma perché si tratta di una logica comunicativa
strettamente privata e di conseguenza insindacabile e non istituzionalizzabile
(l’amicizia, in altre parole, non muta natura, se resta nascosta agli occhi di
terze persone).
Il matrimonio non istituzionalizza una comunicazione affettiva (che non può che
essere privata), ma una scelta, anzi uno stato di vita, che non può non avere
rilievo pubblico (e che solo per questo può essere sindacabile da parte di un
giudice). Gli status che il matrimonio istituisce, quello del marito e quello
della moglie, possono essere attribuiti solo a partire dalla manifestazione di
una formale e pubblica volontà in tal senso degli sposi; ma non è propriamente
la loro volontà a istituire questi status, bensì il riconoscimento pubblico che
questa unione ha un significato umano e sociale che trascende la soggettività
stessa degli sposi. L’intuizione secondo la quale il matrimonio sta a fondamento
della famiglia, cioè della cellula fondamentale della società — secondo un modo
di dire che per alcuni potrebbe suonare antiquato, ma che in realtà è
assolutamente insuperato — si basa sulla percezione (se si vuole implicita) che
il matrimonio possiede una propria finalità strutturale, cioè la
regolamentazione dell’esercizio della sessualità al fine di garantire l’ordine
delle generazioni, e che questa finalità non è un dato condizionato
culturalmente, o che sia emerso nel corso della storia solo in una determinata
fase dello sviluppo economico dell’umanità, ma è un principio che caratterizza
costitutivamente l’essere dell’uomo. In quanto esseri sessuati, gli uomini, non
diversamente dagli animali, procreano; ma in quanto propriamente esseri umani
divengono mariti e mogli, padri e madri, figli e figlie: acquistano cioè la
propria identità, grazie all’assunzione di ruoli familiari, resa possibile da
quella straordinaria struttura antropologica che è il matrimonio.
Ecco perché, dunque, ogni analogia tra matrimonio e convivenza omosessuale è
fallace. In quanto costitutivamente (e non accidentalmente) sterile, il rapporto
omosessuale non può rivendicare una autentica pretesa mimetica nei confronti di
quello eterosessuale (che può essere sterile di fatto, per volontà delle parti,
a causa della loro età o per fattori patologici, ma non è mai sterile nel suo
principio).
Questa pretesa è quindi con ogni evidenza oggettivamente infondata, quali che
possano essere le ragioni soggettive (che possono anche essere degne di profondo
rispetto) che inducono a farla insorgere; ciò è quanto basta al giurista per
fargli qualificare la comunicatività di un rapporto omosessuale giuridicamente
irrilevante e quindi non formalizzabile.
6. Il giurista che si attesti sulle posizioni descritte verrà certamente a
trovarsi in una situazione particolarmente scomoda. In una società, come quella
contemporanea, che si è liberata dai pesanti (e nella maggior parte dei casi
infondati) pregiudizi secolari contro l’omosessualità, fino al punto
paradossalmente di banalizzarla; in una società che ha marginalizzato l’etica,
che ha rimosso l’idea che esistano peccati "contro natura" e che cerca di
elaborare un’interpretazione della sessualità come di una innocente istintualità
polimorfica, che si pone quindi prima e oltre ogni distinzione sessuale; in una
società che è divenuta ipersensibile e reattiva nei confronti di ogni, sia pur
lieve, forma di criminalizzazione sociale, che non abbia una giustificazione
esplicitamente economica, sembra che l’unico no nei confronti dell’omosessualità
debba essere il giurista a dirlo. Non c’è quindi da meravigliarsi troppo, se
molti giuristi rifiutano di accollarsi questo onere, di cui proprio non riescono
a rendersi ragione, per assumere l’atteggiamento prudente e attendista di cui
parlavamo all’inizio di queste considerazioni.
Eppure, il compito del giurista oggi è questo. Non perché spetti a lui valutare
eticamente, psicologicamente, sociologicamente l’omosessualità, né, meno che
mai, perché spetti a lui riflettere su quale possa essere la politica sociale
ottimale da adottare nei confronti degli omosessuali (o addirittura se debba
esserci una specifica politica sociale al riguardo). Ciò che spetta al giurista
è mostrare che il problema dell’omosessualità non è un problema di diritto, ma
di fatto; che esso cioè appartiene ad una di quelle dimensioni di mera
fattualità che caratterizzano l’esistenza umana, che il diritto è impotente a
gestire regolarmente, perché hanno un carattere ed una valenza pregiuridica. Il
tentativo di far entrare a forza il diritto anche entro questi ambiti
corrisponde all’illusione che una più pervasiva giuridificazione dell’esistenza
possa donare agli omosessuali quell’equilibrio interiore della cui mancanza, con
ogni evidenza, essi soffrono, e duramente.
Un diritto che sappia reagire contro queste illusioni non è un diritto
insensibile o crudele; è semplicemente un diritto che sa restare fedele alla
verità delle cose, anche e soprattutto quando il solo riconoscerla implica uno
sforzo etico e psicologico non indifferente.
© L'Osservatore Romano
La morte della moralità
Benjamin D. Wiker
Articolo pubblicato su Crisis (Luglio/Agosto 2004) con il titolo The Death of
Morality
E' difficile ottenere attenzione in un era che usa superlativi per descrivere i
detersivi e la maionese. Forse parlare in modo semplice e diretto potrebbe
rivelarsi una tale stranezza che le parole potrebbero recuperare il potere che
appartiene loro. Eccovi serviti: incombe ora su di noi la più grande crisi
morale che ci sia mai stata.
Non mi riferisco alla strage quotidiana di migliaia di bambini o
all'interminabile parata di novità carnali che sulle piazze urlano per un
riconoscimento; e neanche alla ridefinizione del matrimonio per includere
l'indefinita unione di qualsiasi cosa. Queste sono conseguenze, in diversa
misura, della crisi morale che attraversiamo.
La reale crisi morale è questa: che noi, fra tutti gli esseri umani che abbiano
mai vissuto, siamo di fronte alla fine della moralità come tale. L'aborto e
l'infanticidio esistevano anche prima, come l'omosessualità e la pedofilia. La
monogamia eterosessuale vita natural durante era soprattutto un mandato
cristiano e quindi non è difficile trovare nella storia variazioni sulla
definizione di matrimonio. Se questi mali fossero tutto ciò che ci affligge, noi
ci troveremmo di fronte solo ad una brutta ricaduta nelle tenebre del
paganesimo. Ma al di sotto di questi mali giacciono delle tenebre in confronto
alle quali persino le tenebre del paganesimo sono luce: il rifiuto della natura
umana stessa e quindi il rifiuto di tutta la moralità.
Le vere tenebre
E' difficile mettere a fuoco il cuore di queste tenebre quando i nostri occhi
devono continuamente abituarsi a nuove ondate di tenebra morale. Ci sono ancora
alcune forme ed elementi visibili nell' attuale panorama morale, e i nostri
occhi possono distinguere le cose grazie a quel poco di luce che rimane. Ad
esempio, noi giudichiamo il matrimonio omosessuale una distorsione del
matrimonio eterosessuale. Tuttavia, se vogliamo avere qualche speranza di una
nuova alba, dobbiamo riconoscere quella tenebra "senza forma e senza sostanza"
nella quale, come in un vorace buco nero, la luce è così rapidamente fagocitata.
Per quanto difficile, quindi, dobbiamo capire cosa significhi rigettare la
natura umana, cioè, trattare gli esseri umani come se, in definitiva, fossero
una cosa "senza forma e senza sostanza".
Come fare? Come mettere a fuoco ciò che equivale a una negazione? Forse per
mezzo di un'illustrazione. Recentemente, alcuni scienziati guidati da Tomohiro
Kono, un biologo dell'Università dell'Agricoltura di Tokyo, hanno creato
cuccioli di topo senza l'introduzione di sperma. Hanno fatto questo usando due
ovuli femminili e "truccando" geneticamente uno di essi affinché funzionasse
come se i suoi geni venissero da uno spermatozoo. Ci sono voluti 457 ovuli
"ricostruiti", 371 dei quali sono sopravissuti per essere impiantati nelle
femmine, 10 dei quali hanno dato luogo a una gravidanza. Solo uno, una femmina
chiamata Kayuga, è diventato adulto - e, piuttosto stranamente, dopo essersi
accoppiata con successo con un maschio, ha avuto una cucciolata alla vecchia
maniera. Il titolo più frequente per la storia di Kayuga? "La fine dei maschi".
Pensate che sia lunga la strada dai topi all'uomo? Allora non conoscete la vera
storia delle tecniche di fertilizzazione in vitro iniziate con i topi ed ora
normalmente usate sull'uomo. La fertilizzazione in vitro fornisce, invece,
un'altra storia carina sullo stesso punto. Quando ero un adolescente, non molto
tempo fa, c'era una battuta basata sulla tendenza dei sociologi ad annunciare
l'ovvio come se fosse una rivelazione statistica. "Il 50% delle persone sposate
sono donne" proclamavamo con scientifica magnificenza. Questo succedeva prima
che gli uomini volessero sposare altri uomini o, ancora più importante, prima
che due donne potessero evitare il matrimonio con un maschio grazie alla
fertilizzazione in vitro.
La negazione della mascolinità significa la fine di tutte le distinzioni morali
basate sulla sessualità. Lungo tutta la storia dell'umanità, la distinzione fra
maschio e femmina è stata la distinzione principale nonché la più naturale, ed è
quella sulla quale si fonda ogni distinzione morale riguardo la sessualità e il
matrimonio (per quanto maldestramente siano state tracciate e difese queste
distinzioni). Se la distinzione maschio / femmina non è più né necessaria né
naturale, allora tutte le distinzioni morali che provengono da essa devono nello
stesso modo essere distrutte. Un divieto del matrimonio gay non sarà necessario,
il matrimonio stesso sparirà presto alla stregua della carta pergamena, delle
carrozze e dei fonografi.
Quello che abbiamo di fronte, quindi, è la sostituzione più veloce che ci sia
mai stata delle questioni morali con delle questioni tecniche, cosicchè la
domanda morale "Dovremmo fare questo?" lascia il posto alla domanda puramente
tecnica "Possiamo fare questo?". Siccome il "possiamo" diventa sempre più
efficace tecnicamente, il "dobbiamo" esalerà il suo canto del cigno, appassirà e
poi sparirà.
Genesi incompiuta
Dobbiamo considerare da un punto di vista teologico questo fenomeno senza
precedenti per poterne vedere tutta la sua portata. Ciò per cui stiamo lottando,
con capacità tecniche sempre più grandi, è il completo smantellamento di ciò che
Dio ha così stabilmente ordinato nella creazione. E' come se ora vedessimo la
storia della creazione al contrario, ciò che ha forma torna informe, la luce
torna tenebra.... Per tornare al nostro esempio, tutte le distinzioni morali
riguardo la sessualità ( la capacità naturale di procreare, di "diventare una
sola carne" (Gen 2,24) nell'unione di un uomo ed una donna) vengono dalla
sessualità stessa. Da questa distinzione fondamentale deriva non solo la vera
definizione di matrimonio e la sua perfezione, ma anche la proibizione
dell'adulterio, del sesso prima del matrimonio, dell'omosessualità, della
contraccezione, dell'incesto, della masturbazione, della bestialità e della
pornografia. Ciò che viene proibito è, in un modo o nell'altro, una perversione
della fondamentale distinzione sessuale naturale.
Senza questa distinzione non può emergere nessuna distinzione morale. Gli
angeli, come puri spiriti, non sono divisi in maschio e femmina. Non è loro
proibito l'adulterio perché non possono commetterlo. Non sono tormentati dalle
controversie sull'omosessualità perché non hanno sesso.
Diamo in mano all'uomo il mezzo tecnico per manipolare la sessualità umana come
argilla (formare uomini dalle donne e donne dagli uomini con la chirurgia
transgender, o fare "ossa delle mie ossa, carne della mia carne" attraverso la
clonazione, o "essere fecondi e moltiplicarsi" attraverso la modificazione
genetica degli ovuli ) e la naturale divisione fra maschio e femmina è pressoché
cancellata. Il risultato ultimo non è la creazione di puri spiriti, ma la
creazione di demoni sessuati senza genere, come il cantante rock Marilyn Manson
che mescola l'appetito indiscriminato per il piacere sessuale con la brama del
disordine stesso quale negazione dell'ordine creato. E' stato con grande acume
teologico che Mel Gibson ha fatto apparire satana come androgino nel suo film
"La passione di Cristo". L'androginia è la negazione del genere, la negazione
della distinzione fra maschio e femmina voluta da Dio.
Nel cercare di rimuovere la naturale distinzione fra maschio e femmina voluta da
Dio, ci siamo trasferiti dalla perversione alla ribellione cosmologica. La
perversione distorce ciò che è naturale, pur presupponendolo. Gli attivisti
omosessuali che ora cercano di servirsi del nome e dei vantaggi del matrimonio
monogamo presuppongono che il matrimonio è un'unione permanente ed esclusiva fra
due esseri umani, ma questa stessa nozione emerge dalla verità che l'unione
sessuale di un uomo e di una donna produce un' unione vivente indissolubile e
permanente, un figlio. Aggiriamo la necessità sessuale per un uomo e una donna
di fare un figlio, copriamo la distinzione maschio / femmina con così tanta
vernice, e il matrimonio come istituzione morale semplicemente cadrà in disuso.
Ed eccoci arrivati alla fine del matrimonio - anche nella forma pervertita del
matrimonio omosessuale.
Possiamo definire tutto questo come ribellione cosmologica e non come semplice
perversione per due motivi. Primo perché non costituisce una semplice
distorsione di ciò che è naturale. L'antica omosessualità, così come la troviamo
fra i greci, elevava il piacere sessuale fra uomini al di sopra del piacere
sessuale fra uomo e donna, ma faceva ancora affidamento sul rapporto
eterosessuale per la procreazione secondo i dettati della natura. Maschio e
femmina erano distorti, ma non distrutti. Noi, d'altra parte, nella nostra
ribellione contro la natura, stiamo cercando di distruggere il maschio e la
femmina come tali.
Secondo perché in tutto questo si coglie più di una semplice vampata di zolfo.
Come puntualizzava C. S. Lewis nel suo Screwtape Letters (Lettere a Berlicche),
satana non può creare, e poiché ogni tentativo di produrre ordine sarebbe una
mera imitazione della sapienza e potenza divine, allora il maligno distrugge per
ribellione. Sembra che stiamo inesorabilmente andando verso l'abisso dell'androginia
sessuale e della procreazione asessuata. Marilyn Manson non è un caso isolato di
perversione. Egli/ella è una delle facce della fine della moralità, delle
tenebre verso le quali stiamo precipitando, al di là di ogni distinzione morale,
al di là del bene e del male.
Ma se questa è la fine della moralità, quando ha avuto inizio il progetto di
disfare tutte le distinzioni morali?
L'inizio della fine
Sarebbe facile incolpare il famoso filosofo Friedrich Nietzsche per aver dato
inizio alla distruzione della moralità. Fu lui, dopotutto, che notoriamente
dichiarò che tutte le distinzioni morali sono arbitrarie in quanto derivanti
dalla volontà di potenza di una particolare persona o nazione e non dalla
natura. Da qui la sua famosa opera Al di là del bene e del male (1886)
Nonostante la sua efficace prosa filosofica e gli effetti prodotti sui suoi
connazionali e sugli intellettuali liberali, la colpa non è da attribuire a
Nietzsche. Nietzsche non fu un profeta filosofico, ma un astuto lettore dei
tempi che raccolse e idolatrò una tendenza prometeica già esistente in
occidente.
Faremmo meglio a spostarci in Inghilterra, e non in Germania, ed esaminare gli
argomenti di Francis Bacon (1561-1626) e poi di Charles Darwin (1809-1882).
Bacon è giustamente considerato uno dei più importanti fondatori della scienza
moderna. Sarebbe più giusto, poiché lui stesso non ebbe un laboratorio e non
fece scoperte, definirlo il fondatore dell'aspetto prometeico del moderno
spirito scientifico.
Bacon asseriva che sia la scienza che la filosofia si erano finora dimostrate
completamente inefficaci e sterili poiché gli esseri umani avevano stupidamente
ritenuto che la natura, così come si presenta, fosse il criterio sia del pensare
che dell'agire. Contro questo, Bacon asseriva che "deve essere aperta una nuova
via per la comprensione umana interamente differente da quella finora
conosciuta". Il nuovo approccio alla natura? Sostituire l'accettazione passiva
dell'ordine naturale con sperimentazioni e manipolazioni della natura in cui
"attraverso l'arte e le mani dell'uomo ella (la natura personificata) è spinta
fuori dal suo stato naturale e modellata." La verità quindi, non deriva
dall'accettazione e dalla contemplazione della natura; piuttosto, la verità è
ciò che noi facciamo. La natura diventa l'argilla; lo scienziato, alla stregua
di una divinità, diventa il vasaio che rimodella la natura secondo la sua
volontà.
Passando sopra a tutte le precedenti controversie filosofiche e teologiche,
Bacon assicurava i suoi discepoli, "Sto lavorando per porre il fondamento, non
di qualche dottrina o setta, ma del potere e dell'utilità dell' uomo." Il potere
e l'utilità, come Nietzsche riconobbe qualche secolo dopo, non si domandano
"Cosa è bene e cosa è male?", ma piuttosto "Cosa voglio?". L'importanza
attribuita alla volontà va al di là del bene e del male e crea, grazie al potere
tecnologico, il più grande dominio sulla natura di tutti i tempi. La domanda non
è più cosa si dovrebbe fare ma cosa si può fare. Se anche Bacon non applicò i
suoi argomenti direttamente sulla manipolazione della natura umana - se si
esclude qualche vaga promessa sulla possibilità che la medicina avrebbe potuto
garantire l'immortalità in questo mondo - non ci vuole molto per fare il passo
successivo. Se la natura è come l'argilla, allora lo è anche la natura umana?
Darwin è quasi pari a un santo per il secolarismo moderno e la venerazione
culturale tributatagli ha scoraggiato i cristiani, specialmente i cattolici, dal
criticarlo. Avrebbe potuto essere diverso se avessimo capito la vera importanza
della sua teoria. Se Bacon evocò lo spirito di una illimitata manipolazione
tecnologica della natura , fu Darwin che si concentrò particolarmente sulla
fondamentale malleabilità della natura umana. Egli fornì l'argomento che
soggiace alla apparente stabilità della natura umana, noi in definitiva siamo
argilla informe plasmata e riplasmata migliaia di volte dai capricci della
selezione naturale.
Darwin stesso si rese conto della natura allarmante della sua teoria e
saggiamente evitò ogni menzione della natura umana nella sua opera principale L'
origine della specie attraverso la selezione naturale (1859). Il suo silenzio
terminò con il suo L' origine dell'uomo e la selezione sessuale pubblicato 12
anni dopo la prima edizione de L' origine della specie. Ne L' origine dell'uomo
chiarì che tutto quello che noi consideriamo specificamente umano può essere
spiegato come il risultato della selezione naturale: la ragione, la moralità, la
coscienza, la religione, la musica, l'arte e persino la distinzione fra maschio
e femmina è derivata dallo stesso processo casuale che ha modellato la varietà
di becchi dei fringillidi delle Galapagos.
Ma quello che la natura plasma per caso, l'uomo può plasmarlo per perseguire i
suoi fini. Dopotutto, Darwin ricordava al lettore, tale manipolazione della
natura avviene già fra gli allevatori di animali attraverso la selezione
artificiale. Se ci prendiamo una tale "cura scrupolosa" dei nostri "cavalli,
cani e gatti," non dovremmo applicare la scienza della selezione artificiale
anche sugli esseri umani? Per il bene della razza, sosteneva Darwin, dobbiamo
prendere in mano la nostra evoluzione. In tal modo Darwin difese piuttosto
chiaramente l'eugenetica, sebbene fu suo cugino Francis Galton, affascinato da
L' origine della specie , che coniò il termine.
Se uniamo Bacon a Darwin, abbiamo l'essenza del tentativo contemporaneo di
ricreare la natura umana secondo un'immagine sinora annunciata. Se il dimorfismo
sessuale - maschio e femmina - è semplicemente il risultato delle mutazioni
casuali su una catena del Dna fra i nostri antenati biologici, allora non c'è
motivo di opporsi alla pressione tecnologica per ridefinire i legami sessuali o
semplicemente per cancellarli del tutto.
Così nella nostra società assistiamo a una grande divisione fra coloro che
rifuggono con orrore di fronte all'ultima macabra manipolazione della natura
umana considerandola innaturale e coloro che gioiscono di fronte alle stesse
manipolazioni considerandole indici di liberazione dell'umanità dalla natura;
fra coloro che si sottomettono felici al destino della biologia e coloro che
credono che il nostro destino sia avere un completo dominio sulla biologia.
Questa non è una battaglia da poco; veramente è difficile vedere quale potrebbe
essere battaglia più grande.
La fine della morale cattolica
Se i cattolici ancora faticassero a vedere questo, forse potrebbe essere di
aiuto esporre la situazione in modo più diretto. La morale cattolica si basa
sulla legge naturale. La legge naturale, come ha chiarito S. Tommaso, è
semplicemente la legge del nostro essere, cioé, la serie di "doveri" morali che
scaturisce dall' "essere" della nostra natura particolare. Il progetto di Bacon
e Darwin di trattare la natura umana come argilla plasmata da qualsiasi cosa,
dalla chirurgia plastica alla manipolazione genetica, è un attacco diretto alla
legge naturale perché è un attacco diretto alla nostra natura. Se dovesse avere
successo, la morale cattolica verrebbe mostrata come priva di ogni fondamento,
buona solo per la pattumiera della storia accanto al geocentrismo tolemaico,
come una teoria ben congegnata che l'analisi scientifica ha dimostrato basarsi
su un fondamentale errore circa la natura.
"I cattolici pensavano," dirà qualche professore di storia con un sorrisetto
compiaciuto in un futuro non troppo lontano, "che la stessa natura umana fosse
qualcosa tipo un dato eterno, che stabiliva una sorta di limite invalicabile, e
che dai "dati eterni" (risatina!) della natura umana derivasse qualcosa definita
"morale" (e qui il professore avrà bisogno di sillabare questa strana parola).
Questo è un errore in qualche modo comprensibile. Così come è evidente che il
sole sorge, allo stesso modo essi ritenevano che gli esseri umani potessero
essere creati solo nella stessa maniera che è comune fra gli altri animali.
Questa mancanza di immaginazione era dovuta a una mancanza di tecnologia.
Notiamo questo modello in molte aree. I telescopi hanno permesso agli uomini di
vedere la vastità del cosmo e quanto essi sono un puntino insignificante, di
conseguenza hanno abbandonato la convinzione che la terra fosse al centro
dell'universo. Allo stesso modo le nuove tecnologie genetiche hanno reso chiaro
il concetto: "Il nostro unico limite è la nostra immaginazione".
Poi il professore si appoggerà sul podio, pausa ad effetto, e indosserà un
'espressione a