«tolleranza zero» non solo per «bulli» o gli alunni indisciplinati, ma anche per insegnanti e personale non docente trasgressivo
Data: Mercoledì, 20 dicembre 2006 ore 20:29:14 CET
Argomento: Normativa Utile


da " La Sicilia"
«Questo documento - ha commentato il ministro Beppe Fioroni - esprime la volontà corale della stragrande maggioranza della Scuola italiana che vuole rispondere con serietà, autorevolezza e credibilità al numero infinitesimale di mele marce che rischiano di danneggiarne l'immagine».
Dieci i punti sintetizzati dal ministero nella circolare servono a «fissare gli indirizzi generali per una corretta e puntuale gestione dei procedimenti volti a sanzionare coloro che si assentano in modo sistematico ed ingiustificato dal posto di lavoro o compiono fatti gravi, anche di rilevanza penale, a danno della comunità scolastica».
Ecco il decalogo del ministero:
1. Richiamo per tutta l amministrazione ad essere rigorosi, tempestivi ed efficaci per dare la giusta rilevanza alla funzione disciplinare;
2. Adozione del provvedimento di destituzione/licenziamento: la competenza è attribuita non più al Ministro ma al direttore generale regionale. Semplificazione, decentramento, snellimento delle procedure.
3. Massima attenzione a rispettare i termini previsti dalla legge che vengono dettagliatamente riepilogati.
4. Si chiarisce che il ritardo nell'adozione dei provvedimenti disciplinari da parte del dirigente responsabile è un fatto che può condurre ad una valutazione negativa del dirigente stesso, con la conseguente esposizione al procedimento di responsabilità amministrativo-contabile.
5. Si richiama l'attenzione sugli strumenti cautelari di sospensione dal servizio, in particolare quella facoltativa, che non deve essere dimenticato ma prontamente utilizzato laddove si verifichino situazioni gravi.
6. Si precisa quali sono gli organi competenti ad adottare la sospensione cautelare.
7. Si chiarisce che nel caso in cui vengano commessi reati gravi, come i reati sessuali, per i quali il giudice commina la pena accessoria dell'interdizione perpetua dagli incarichi presso qualsiasi tipo di scuola, si verifica l'automatica cessazione dal servizio senza bisogno di ulteriori provvedimenti disciplinari dell'amministrazione scolastica.
8. Si invita alla massima cautela nell'adottare i provvedimenti di utilizzazione in compiti diversi dall'insegnamento quando i fatti addebitati giustificano rigore e necessità di comminare invece la sanzione espulsiva.
9. Si richiama l'attenzione sulla corretta applicazione degli istituti della recidiva e della riabilitazione.
10. Si chiariscono i rapporti tra procedimento disciplinare, trasferimento per incompatibilità ambientale e dispensa dal servizio per reiterato insufficiente rendimento.
«È vero - ha commentato il ministro - che quanto accade non riguarda la maggioranza della scuola. Ma è necessario allora alzare la soglia di vigilanza, senza girarsi dall'altra parte e fare quello che ci compete sino in fondo».
Il testo integrale della circolare


A) Premessa.


La scuola dell’autonomia, com’è noto, assume l’impegno e la responsabilità dell’apprendimento di ciascuno studente e informa il suo operato alle regole della trasparenza, della partecipazione e del rispetto dei singoli per sviluppare o rafforzare in ognuno dei suoi attori - dal dirigente scolastico al personale amministrativo, tecnico ed ausiliario, dai docenti agli alunni e alle loro famiglie – il senso dell’appartenenza ad una comunità.


In essa ognuno, con pari dignità e nella diversità dei ruoli, opera per garantire la formazione alla cittadinanza, la realizzazione del diritto allo studio, lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno e il recupero delle situazioni di svantaggio, in armonia con i principi sanciti dalla Costituzione e dalla Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia stipulata a New York il 20 novembre 1989 e con i principi generali dell'ordinamento italiano.


La comunità scolastica, interagendo con la più ampia comunità civile e sociale di cui è parte, fonda il suo progetto e la sua azione educativa sulla qualità delle relazioni insegnante-studente, contribuisce allo sviluppo della personalità dei giovani, anche attraverso l'educazione alla legalità intesa non solo come rispetto delle regole di convivenza democratica, ma anche dei doveri che ineriscono al ruolo e alla funzione che ciascun soggetto è chiamato a svolgere all’interno della comunità stessa.


A quest’ultimo riguardo, gli studenti sono tenuti ad osservare i doveri sanciti dallo Statuto degli studenti e delle studentesse, in particolare quelli contemplati negli articoli 3 e 4 del D.P.R. 24 giugno 1998, n. 249, il personale scolastico quelli attinenti alla deontologia professionale enucleati dalla legge e dai Contratti collettivi nazionali di lavoro.


La scuola, quale primaria e fondamentale istituzione pubblica, deve avere consapevolezza che i comportamenti contrari a tali doveri costituiscono un grave vulnus dei principi e dei valori sopra richiamati, poiché minano alla radice la possibilità di realizzare con successo le finalità educative e formative poste a fondamento della autonomia costituzionalmente garantita.


Ciò posto, occorre richiamare la particolare attenzione di tutta l’Amministrazione scolastica circa la necessità che gli strumenti di controllo, prevenzione e repressione dei comportamenti che hanno rilevanza disciplinare siano utilizzati, in applicazione della normativa vigente, con rigore, tempestività ed efficacia.


3


Con riferimento all’applicazione delle sanzioni disciplinari nei confronti del personale appartenente al comparto scuola, la Corte dei Conti, nell’ambito della relazione sulla gestione dei procedimenti disciplinari da parte delle Amministrazioni dello Stato, approvata con delibera n. 7 del 4 aprile 2006, ha evidenziato alcuni aspetti di criticità che meritano la massima attenzione.


I rilievi attengono alla necessità di assicurare il rispetto di termini, la continuità dell’azione disciplinare, la coerenza delle varie fasi del procedimento, il corretto bilanciamento dei contrapposti interessi connessi alle diverse situazioni giuridiche coinvolte: da un lato, l’interesse dell’incolpato ad un giudizio equo e ragionevole, dall’altro, l’interesse pubblico all’immagine e al buon andamento della pubblica amministrazione, profilo quest’ultimo da tenere in particolare e attenta considerazione quando oggetto di valutazione sono le condotte che arrecano pregiudizio al prestigio della scuola e ai valori fondamentali perseguiti dalla funzione educativa.


Su questi aspetti è opportuno richiamare la responsabilità di tutti ad assumere un ruolo attivo nella ricerca di misure organizzative e soluzioni gestionali idonee a consentire una migliore efficienza ed efficacia dei procedimenti disciplinari.


Alle volte, la scarsa attenzione riposta nell’osservanza dei requisiti formali che l’ordinamento pone a garanzia del corretto svolgimento delle procedure, vanifica l’iniziativa disciplinare anche in presenza di gravissime violazioni dei doveri inerenti alla funzione esercitata.


A tale proposito, preme nuovamente ricordare, in premessa, che la fissazione di un termine inferiore a quello previsto perentoriamente dalle norme vigenti per la presentazione, da parte dell’incolpato, delle tesi difensive rispetto alle infrazioni contestate determina l’invalidità, spesso insanabile, della sanzione successivamente adottata.


Del pari, il superamento dei termini prescritti per l’attivazione e la conclusione del procedimento disciplinare che consegue ad accertamento della responsabilità in sede penale, di cui si dirà con maggior dettaglio più avanti.


È causa, infine, di illegittimità l’esercizio dell’azione disciplinare da parte di un organo incompetente, che si verifica quando ad agire sia, ad esempio, il dirigente dell’Ufficio scolastico provinciale privo di specifica delega conferitagli dal direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale.


In questi, come anche in altri casi, in cui a rilevare è invece l’inerzia dell’organo procedente che o non riassume tempestivamente il procedimento a seguito di sentenza penale irrevocabile di condanna, oppure giunge ad irrogare la sanzione dopo un irragionevole lasso di tempo, ossia quando addirittura non è più percettibile lo stesso disvalore della condotta illecita perseguita, si determina, di fatto, la vanificazione dell’iniziativa disciplinare, con conseguenze assolutamente riprovevoli per la comunità scolastica, oltre che sul piano della tutela dell’immagine e del razionale utilizzo delle risorse impiegate nell’esercizio della funzione disciplinare.


In altre parole, la rapidità nell’adozione del provvedimento disciplinare, ferme restando le garanzie a difesa del lavoratore, consente al provvedimento stesso di esplicare pienamente la sua funzione sia sanzionatoria che riparatoria, funzione altrimenti compromessa da una eccessiva durata dei procedimenti in questione.


Nel ricercare la sanzione da infliggere, sarebbe opportuno, comunque, tenere in debita considerazione anche il grado di allarme sociale provocato dalla particolare gravità dei fatti per i quali si procede, sempre nel rispetto dei principi fondamentali della gradualità e proporzionalità.


In conclusione della premessa, giova inoltre richiamare la massima attenzione sulla rilevanza che la corretta gestione dei procedimenti disciplinari riveste non solo ai fini della valutazione della dirigenza ai sensi degli articoli 21 e 25 del D.Lgsl. 165/2001, ma anche sotto il profilo della responsabilità penale, civile ed amministrativa.


B) Il rispetto dei termini.


- Con riferimento ai termini per presentare le difese, si rammenta che per quanto riguarda la censura e l’avvertimento scritto, il termine deve essere non superiore a 10 giorni, ai sensi dell’articolo 101, comma 1, del D.P.R. n. 3/57, recante lo Statuto degli impiegati civili dello Stato, come richiamato dall’articolo 507 del D.Lgsl. 297/94. Tale termine può essere ridotto fino a due giorni per il personale docente a tempo determinato (cfr., articolo 538 del D.Lgsl. 297/94).


Per le altre sanzioni, il termine è di 20 giorni dalla notifica della contestazione, se trattasi di personale docente a tempo indeterminato; di 10 giorni, per quello a tempo determinato (cfr., rispettivamente, l’articolo 105 del D.P.R. 3/57, che è richiamato dall’articolo 507 del D.Lgsl. 297/94, e l’articolo 538 del D.Lgsl. 297/94).


- Per quanto riguarda i termini entro i quali va intrapresa e conclusa l’azione disciplinare, si ritiene di fornire le seguenti precisazioni riepilogative, suddivise a seconda delle diverse ipotesi:


1) Procedimenti disciplinari originati da giudizio penale.


- qualora sia intervenuta sentenza penale definitiva di condanna, i termini per iniziare ovvero riassumere l’azione disciplinare, e per portare a termine il procedimento, per tutte le categorie di personale, sono quelli dettati dall’art. 5, 4° comma della legge 27.3.01 n. 97, contenente le “Norme sul rapporto tra procedimento penale e disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche”: rispettivamente, novanta giorni dalla comunicazione della sentenza e i successivi centottanta giorni. Si rammenta che la Corte costituzionale, con sentenza 21-24 giugno 2004, n. 186 (Gazz. Uff. 30 giugno 2004, n. 25 – Prima serie speciale), ha dichiarato l’illegittimità del comma 3, dell’articolo 10 della legge 97/2001, nella parte in cui prevede, per i fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore della legge medesima, <>;


Ai fini di cui sopra, pertanto, è indispensabile che le SS.LL. seguano l’evolversi dei procedimenti penali, chiedendo periodicamente notizie all’Autorità Giudiziaria competente, ed acquisendo agli atti, con tempestività, le relative sentenze.


6


Si reputa necessario rammentare, in proposito, che i procedimenti penali pendenti nei confronti del personale sospeso cautelarmente dal servizio devono essere seguiti anche quando il personale stesso viene collocato a riposo (per dimissioni volontarie, per anzianità, ecc.) in quanto il Consiglio di Stato, con decisione n. 8 del 6.3.1997 ha stabilito che l’Amministrazione, al fine di regolare gli effetti economici della sospensione cautelare, deve instaurare il procedimento disciplinare “ancorché l’interessato sia cessato dal servizio anteriormente al giudicato penale”.


2) Procedimenti disciplinari non originati da procedimenti penali.


In questi casi, con riferimento particolare al personale docente, in mancanza di un termine espresso per l’esercizio dell’azione, la contestazione degli addebiti va effettuata “tempestivamente”, e comunque entro un termine congruo in relazione alle circostanze in cui l’Amministrazione è venuta a conoscenza dell’infrazione.


Quando, poi, viene disposta, per gravi motivi, la sospensione cautelare facoltativa, in applicazione del combinato disposto degli artt. 506, 507 del D.Lvo 16.4.1995, n. 297 e 92 del D.P.R. 10.1.1957, n. 3 il relativo procedimento disciplinare deve essere instaurato - perentoriamente - entro il termine di quaranta giorni dalla data in cui è stato comunicato il decreto di sospensione.


In materia disciplinare, peraltro, è da considerarsi tuttora vigente per il personale docente quanto previsto dall’art. 120 del D.P.R. 10.1.1957, n. 3. Tale norma prevede la “estinzione del procedimento” quando siano decorsi novanta giorni dall’ultimo atto “senza che nessun ulteriore atto sia stato compiuto”.


Sul punto è utile ricordare che, per giurisprudenza consolidata, il suddetto termine di perenzione, si interrompe ogniqualvolta, prima della sua scadenza, venga adottato un atto, anche interno, proprio del procedimento disciplinare (ad esempio, la richiesta di ulteriori atti ed informazioni all’Amministrazione da parte del Consiglio di disciplina).


Si raccomanda, pertanto, la scrupolosa osservanza dei termini previsti per la instaurazione, il proseguimento e la conclusione del procedimento disciplinare.


7


C) La sospensione cautelare


Si è detto in premessa che il rigore nell’attivazione degli strumenti disciplinari opera a salvaguardia dei valori fondamentali connessi alla funzione educativa.


Conseguentemente, l’esigenza di tutelare il rapporto fiduciario che si instaura tra l’utente (o, comunque, il destinatario dell’attività amministrativa) e le istituzioni pubbliche, assume, nei confronti della comunità scolastica, una rilevanza peculiare.


Tale legame, in presenza di comportamenti contrari ai doveri d’ufficio che assumono carattere di particolare gravità, rischia di essere incrinato laddove venisse confermata la permanenza in servizio e la possibilità di agire di colui che di tali addebiti è chiamato a rispondere.


In questi casi, al fine di tutelare il “buon andamento” del servizio di istruzione, ai sensi dell’art. 97 Cost., e dunque di assicurare massima protezione ai beniinteressi sottesi al regolare e corretto esercizio della funzione educativa, l’ordinamento ha riconosciuto in capo all’Amministrazione il potere di adottare, anche prima che sia esaurito o iniziato il procedimento disciplinare, specifici provvedimenti di sospensione cautelare dall’esercizio delle funzioni, nel rispetto delle garanzie che devono essere comunque assicurate all’incolpato.


Ne segue che il procedimento di sospensione cautelare viene in evidenza nelle ipotesi in cui, stanti la gravità dei fatti accaduti ed il conseguente turbamento della comunità scolastica, si configura la necessità e l’urgenza di adottare delle misure provvisorie in attesa di un puntuale accertamento dei fatti in sede di procedimento penale e/o disciplinare. Il carattere di misura precauzionale – interinale della sospensione cautelare, pertanto, porta ad escludere qualunque assimilazione della stessa ad un provvedimento sanzionatorio, posto che, in ogni caso, la situazione da essa incisa, per superiori motivi di interesse pubblico, è suscettibile di essere completamente reintegrata, in caso di esito favorevole del procedimento penale o disciplinare.


Si richiama, altresì, la particolare attenzione delle SS.LL. sulla necessità che l’adozione dei provvedimenti cautelari in questioni sia preceduta da una puntuale verifica


della sussistenza dei presupposti di legge, di seguito richiamati, che rendono opportuno l’esercizio del potere di sospensione.


Esclusi i dipendenti appartenenti ai ruoli del personale ATA, nei cui confronti valgono le disposizioni contenute negli articoli 89 e seguenti del CCNL, Comparto scuola, vigente, per il personale docente ed educativo la materia in questione è disciplinata dagli articoli 91-99 del Testo unico degli impiegati civili dello Stato, di cui al D.P.R. n. 3 del 1957, già citato, in virtù dell’esplicito rinvio operato dall’articolo 506 del D.Lgsl. 297/94, nonché dalla legislazione successiva applicabile a tutti i pubblici dipendenti.


Il legislatore individua due tipi di intervento cautelare: la sospensione obbligatoria e quella facoltativa.


La sospensione è obbligatoria quando:


- sia stata emessa dall’autorità giudiziaria procedente una misura cautelare restrittiva della libertà personale (art. 91, comma 1, seconda parte, D.P.R. n. 3/57, citato);


- il dipendente, ai sensi dell’articolo 4, comma 1, della legge 97/2001, già citata, sia stato condannato anche non definitivamente, e ancorché sia concessa la sospensione condizionale della pena, per alcuni reati tassativamente indicati: peculato, concussione, corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, corruzione in atti giudiziari e corruzione di persona incaricata di pubblico servizio.


In presenza di queste fattispecie l’adozione del provvedimento cautelare è del tutto svincolata da qualsiasi valutazione dell’Amministrazione che deve pertanto comminarla al ricorrere delle circostanze obbiettive poste dalla norma. La Corte costituzionale, con sentenza 22 aprile-3maggio 2002, n. 145 (Gazz. Uff. 8 maggio 2002, n. 18 – Prima serie speciale), ha dichiarato, tra l’altro, l’illegittimità del suddetto comma, nei sensi di cui in motivazione, nella parte in cui dispone che la sospensione perda efficacia decorso il periodo di tempo pari a quello della prescrizione del reato.


Con riferimento alle ipotesi di sospensione cautelare obbligatoria giova, altresì, segnalare che ai sensi del comma 5, dell’articolo 506, sopra richiamato, la sospensione cautelare doveva essere disposta d’ufficio quando ricorreva uno dei casi ostativi alla candidatura presso organi elettivi delle regioni e degli enti locali, tassativamente contemplati dall’articolo 1, comma 1, della legge 18 gennaio 1992, n. 16. A seguito dell’abrogazione di quest’ultima disposizione da parte dell’articolo 274 del D.Lgsl. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), in forza della norma finale dettata dal successivo articolo 275, il richiamo deve oggi intendersi riferito alle ipotesi individuate dall’articolo 15 del medesimo decreto legislativo.


La sospensione cautelare è invece facoltativa in due casi:


- quando il dipendente è sottoposto ad un procedimento penale per un reato particolarmente grave (art. 91, comma 1, prima parte, D.P.R. n. 3/57, citato);


- quando ricorrono gravi motivi, indipendentemente dalla loro rilevanza penale, “anche prima che sia esaurito o iniziato il procedimento disciplinare” (art. 92, comma 1,D.P.R. n. 3/57, cit.). La valutazione in ordine alla gravità dei motivi è rimessa al prudente apprezzamento dell’organo competente ad adottare il provvedimento.


In entrambe le suddette ipotesi di sospensione facoltativa, va compiuto un apprezzamento in merito all’interesse pubblico concretamente configurabile ed alla valutazione se esso sia tale da richiedere l’allontanamento provvisorio del dipendente dal servizio. È rilevante, in particolare, tenere conto sia della natura di particolare gravità del reato, sia dell’opportunità di adottare il relativo provvedimento con riguardo ai precedenti ed alla personalità del dipendente ed all’interesse dei fruitori del servizio scolastico e dell’Amministrazione stessa.


Deve comunque essere effettuata una tempestiva e rigorosa valutazione nei seguenti casi:


a) nei confronti di chi è imputato di reati (609 bis - violenza sessuale - e seguenti del codice penale) in danno di minori affidati;


b) quando la gravità dei reati contestati tende ad inficiare quel rapporto di fiducia intercorrente tra il dipendente e l’Amministrazione tanto da non consentire più la prosecuzione di un corretto rapporto di lavoro;


c) quando i fatti contestati appaiono in evidente, palese contrasto con la funzione (dirigenziale, docente o amministrativa) istituzionalmente espletata o come atti non conformi, in maniera grave, ai doveri specifici inerenti alla funzione stessa. L’interesse del dipendente rimesso in libertà ad essere reintegrato in servizio, pertanto, deve essere comparato con l’eventuale pregiudizio che la riammissione in servizio può arrecare alla regolarità del servizio ed al prestigio della scuola.


Da ultimo, alcuni chiarimenti in ordine all’individuazione degli organi competenti in materia di sospensione cautelare obbligatoria e facoltativa.


La competenza ad adottare i provvedimenti di sospensione cautelare obbligatoria è attribuita <>, e <> (articolo 506, comma 2, D.Lgsl. 297/94, citato). La norma, evidentemente, non tiene conto del nuovo assetto che il Ministero ha assunto per effetto delle riforme intervenute alla fine degli anni novanta. In base all’attuale organizzazione, pertanto, l’organo competente deve essere individuato, per entrambi i casi, nel direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale o nel dirigente munito di specifica delega.


Ai sensi dell’articolo 506, D.Lgsl. 297/94, citato, la sospensione cautelare facoltativa <<è disposta dal Ministero della pubblica istruzione>>. Anche per tale ipotesi la competenza è da ritenersi ormai attribuita al direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale o al dirigente munito di specifica delega.


Corre l’obbligo, infine, di rammentare che il comma 4 del più volte citato art. 506 prevede una “norma di chiusura” volta a regolamentare quelle ipotesi residuali in cui la necessità del provvedimento cautelare derivi da “ragioni di particolare urgenza”. In tali casi, in deroga alle regole predette che individuano l’organo competente nel dirigente dell’ufficio scolastico regionale (o di un dirigente da questi delegato), “la sospensione cautelare può essere disposta dal direttore didattico o dal preside” (leggasi dirigente scolastico) “sentito il collegio dei docenti per il personale docente, salvo convalida da parte dell’autorità competente cui il provvedimento dovrà essere immediatamente comunicato.


In mancanza di convalida entro il termine di dieci giorni dall’adozione, il provvedimento di sospensione si intende revocato di diritto”. Anche in questo caso, la verifica della ricorrenza delle “ragioni di particolare urgenza”, deve essere oggetto di prudente ed attento apprezzamento.


D) Competenze del Direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale.


Ferme restando le considerazioni appena svolte con riferimento all’adozione dei provvedimenti di sospensione cautelare, le competenze circa l’irrogazione delle sanzioni disciplinari sono regolate minutamente dal CCNL, Comparto scuola, vigente, per quanto riguarda il personale ATA, e dalle norme cui il medesimo contratto rimanda nel caso già accennato del personale docente, in cui si rinvia al decreto legislativo n. 297/94.



In particolare, per quanto riguarda le sanzioni previste dall’art. 492, lettere d) ed e), del citato decreto (sospensione per sei mesi con successiva utilizzazione in altri compiti diversi dall’insegnamento e destituzione), il successivo art. 503, comma 2 prevede la competenza del Ministro, acquisito il parere degli organi collegiali competenti.


Al riguardo, sentito anche l’ufficio legislativo di questo Ministero, si ritiene che la disposizione del citato art. 503, comma 2, sia da intendersi implicitamente superata per effetto dell’entrata in vigore dell’art. 4, commi 1 e 2 , del decreto legislativo n. 165/01, con il quale viene stabilito il principio che agli organi di governo di ciascuna amministrazione spettano funzioni di indirizzo politico-amministrativo, mentre è riservato ai dirigenti l’adozione di tutti gli atti e provvedimenti amministrativi, ivi compresi, quindi, quelli relativi alla gestione del rapporto di lavoro del personale di ciascuna amministrazione. Pertanto, ferma la specifica disciplina contrattuale in tema di sanzioni disciplinari per i dirigenti scolastici ed il personale ATA, la competenza ad irrogare le sanzioni disciplinari al personale docente è attualmente attribuita solo agli organi amministrativi, anche in relazione a quelle sanzioni disciplinari che la normativa precedente al decreto legislativo 165/2001 rimetteva alla competenza del Ministro.


Anche per le sanzioni, dunque, di cui alle lettere d) ed e), dell’art. 492, del decreto legislativo 297/1994, la competenza deve essere riconosciuta direttamente in capo al Direttore Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale che adotterà la sanzione, acquisito il parere dell’organo collegiale competente.


E) Procedimenti penali ed esercizio dell’azione disciplinare.


La Corte dei Conti ha rilevato che, in diverse occasioni, ai procedimenti disciplinari instaurati dall’Amministrazione sulla base di sentenze penali di condanna - anche per fatti gravissimi - non conseguono sanzioni appropriate. Una siffatta prassi causa, con ogni evidenza, turbative particolarmente gravi nel mondo della Scuola, per le caratteristiche del servizio scolastico, per la presenza in genere di minori, e per la indubbia valenza formativa anche della stessa condotta degli operatori del settore, da cui scaturisce l’esigenza di un’azione delle autorità scolastiche, ad ogni livello, coerente con i principi etici e sociali trasmessi.


I rilievi della predetta Magistratura sono corredati da una lunga disamina, per diverse aggregazioni, dei dati raccolti con il monitoraggio condotto annualmente, a partire dal 1995, dall’Ufficio di controllo - mediante schede e questionari inoltrati a tutti gli Uffici scolastici provinciali - e coordinato presso questo Ministero dal Servizio di Controllo Interno.


Le osservazioni prospettate rendono necessario richiamare l’attenzione sulla necessità, per l’avvenire, di valutare - pur nel rispetto del principio di “gradualità e proporzionalità della sanzione” - con maggiore tempestività, severità e rigore tutti quei procedimenti disciplinari che in particolare trovano fondamento in sentenze penali di condanna per reati di gravità tale da provocare nell’opinione pubblica particolare allarme sociale, a partire dal puntuale esercizio del potere di sospensione.


Con riferimento particolare ai reati a sfondo sessuale, causa di evidente e legittima preoccupazione sociale perché riferiti al mondo della scuola frequentato prevalentemente da alunni minori, occorre evitare con la massima efficacia il rischio che i primari interessi consistenti nella prevenzione, nel rigore verso i condannati, nella vigilanza, nella certezza dei rimedi, possano essere conculcati o sacrificati alla logica della tolleranza verso i dipendenti condannati.


Si sottolinea, in proposito, che con legge n. 38 del 6.2.2006 avente ad oggetto: “Disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo Internet”, è stato previsto, all’art. 5, l’emendamento dell’art. Il Ministro della Pubblica Istruzione 13 600 septies del codice penale con l’aggiunta, infine, del seguente comma: <>.


La valutazione operata dal legislatore appare perentoria ed indefettibile, sancendo l’assoluta incompatibilità della permanenza in servizio dei colpevoli dei reati collegati alla sfera sessuale.


Da ciò consegue, quale effetto ulteriore connesso all’applicazione della suddetta pena accessoria, il venir meno della necessità di attivare il procedimento disciplinare.


A tal proposito, è opportuno ricordare che il Consiglio di Stato, Sezione II, Commissione speciale per il pubblico impiego, con parere n. 285/91 (divulgato dal Gabinetto dell’On. Ministro a tutti gli Uffici periferici con nota n. 11506 del 15 febbraio 1993), ha stabilito, in via generale, che la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici <>.


Come previsto espressamente dal predetto articolo 5, tale normativa si applica anche nel caso di patteggiamento per reati commessi nei confronti di persona che non ha compiuto i diciotto anni.


Tanto premesso, appare utile riproporre il quadro normativo-contrattuale che regola la materia per il personale dirigente, docente ed educativo ed ATA.


Il capo IX del contratto collettivo nazionale del Comparto Scuola 2002-2005 riguarda le norme disciplinari del personale docente e del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario.


Per quanto riguarda il personale docente, l’art. 88 – sezione I – del citato contratto rimanda, come già detto, alle norme contenute nel Decreto Legislativo n. 297/94 e rinvia una nuova definizione delle norme disciplinari alla negoziazione che dovrà essere attivata nei 30 giorni successivi all’entrata in vigore della legge di riordino degli organi collegiali.


La sezione II del suddetto capo IX, agli articoli 89 e seguenti, regolamenta tutta la materia disciplinare del personale ATA, prevedendo varie sanzioni che variano dal rimprovero verbale al licenziamento senza preavviso. Le sanzioni sono inflitte dal dirigente scolastico e dal Direttore Generale dell’Ufficio scolastico regionale a seconda della gravità dell’azione commessa.


Per il personale dirigente scolastico dell’area V si applica il relativo contratto, il quale prevede che, qualora dal procedimento di valutazione del dirigente emergano responsabilità dirigenziali o comunque una valutazione non positiva, il dirigente può essere sottoposto ai seguenti provvedimenti: 1) mutamento d’incarico 2) recesso unilaterale dell’Amministrazione.


1) Rapporto tra procedimento penale e disciplinare (legge 27.3.2001 n. 97)


Si ritiene opportuno, inoltre, richiamare l’attenzione delle SS.LL. sulla necessità di osservare scrupolosamente quanto statuito dalla Legge 27.3.2001, n. 97, già citata.


Com’è noto, la suddetta Legge prescrive che il dipendente:


- se rinviato a giudizio per i reati di cui agli articoli 314, primo comma (Peculato), 317 (Concussione), 318 (Corruzione per un atto d’ufficio), 319 (Corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio), 319 ter, 320 (Corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio) del codice penale - venga trasferito in una sede diversa da quella in cui prestava servizio al momento del fatto (art. 3, 1° comma, L. 97/2001, cit.);


- se condannato in I° grado per gli stessi reati, anche con sentenza non passata in giudicato, debba essere sospeso cautelarmente dal servizio. La sospensione


deve essere revocata, viceversa, quando viene pronunciata sentenza di proscioglimento o di assoluzione, anche non definitiva.


Inoltre, in applicazione dell’art. 32-quinquies del codice penale, introdotto dall’art. 5, 2° comma della stessa Legge, la condanna definitiva alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni comporta l’estinzione del rapporto di impiego, per i suddetti delitti.


Da ultimo, si richiama l’attenzione sugli artt. 652 e 653 c.p.p., come modificati dalla legge n. 97/01, citata, per quanto riguarda l’efficacia di giudicato, nel procedimento disciplinare, rispettivamente della sentenza irrevocabile di assoluzione ovvero di condanna.


Si rammenta, infine, che la previsione dell’art. 2 della più volte citata legge n. 97/2001, innovando la formulazione dell’art. 445, comma 1 secondo periodo, del c.p.p., in correlazione alla precedente modifica all’art. 653, porta a concludere per la equiparazione a condanna definitiva, ai fini dell’azione disciplinare, della sentenza che applica la pena su richiesta (c.d. patteggiamento). A tal proposito, occorre tenere presente che la Corte costituzionale, con sentenza 10-25 luglio 2002, n. 394 (Gazz. Uff. 31 luglio 2002, n. 30 – Prima serie speciale), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 1, dell’articolo 10 della legge 97/2001, nella parte in cui prevede che gli articoli 1 e 2 della medesima legge <>.


2) Utilizzazione in compiti diversi dall’insegnamento e sanzione espulsiva


La circostanza, per il personale docente, che la misura della utilizzazione in compiti diversi - in aggiunta alla sanzione della sospensione dall’insegnamento per sei mesi - sia prevista dall’art. 496 del T.U. n. 297/94 solo in conseguenza di processi penali conclusi con condanna irrevocabile o quanto meno confermata in grado di appello, non esclude che, in presenza dei medesimi presupposti con carattere di particolare gravità, il procedimento disciplinare possa concludersi con la sanzione della destituzione.


Tanto, fermo restando quanto sopra precisato circa la previsione dell’art. 5, 2°comma, della legge n. 97/01.


3) Recidiva e riabilitazione.


Si richiama, altresì, l’attenzione delle SS.LL. su quanto prescritto dall’art. 499 del citato D.Lvo 297/1994, norma di portata generale applicabile anche alle ipotesi di sanzione disciplinare non dipendente dalla commissione di reati, che prevede - in caso di recidiva - l’inflizione della sanzione prevista nella misura massima, ovvero l’aumento “sino ad un terzo” nel caso in cui tale misura sia stata già irrogata.


Per quanto riguarda la riabilitazione di cui al successivo art. 501, si ritiene che il relativo provvedimento, previa acquisizione dei prescritti pareri sulla condotta del dipendente, vada adottato dalle SS.LL..


In proposito, sarebbe opportuno escludere - ad avviso di questo Ministero - qualsiasi automatismo.


Infatti, nel momento di esprimere il necessario parere sulla istanza di riabilitazione di un dipendente in precedenza condannato, e successivamente sanzionato con la “sospensione per mesi sei”, con utilizzazione in compiti diversi, per fatti di notevole gravità, l’Amministrazione deve valutare con particolare attenzione tale richiesta procedendo ad una comparazione tra l’interesse del docente ad essere reintegrato e l’eventuale pregiudizio che la restituzione all’insegnamento può arrecare alla regolarità del servizio ed al prestigio dell’istituzione scolastica.


Detta valutazione dovrebbe consistere in un rapporto che: 1) dichiari espressamente il carattere temporaneo della incompatibilità del soggetto con i compiti propri del rapporto educativo, che a suo tempo aveva motivato la sanzione; 2) riferisca circa il ravvedimento del soggetto, che non può limitarsi alla prestazione di un quinquennio di servizio senza demerito, ma dovrebbe tradursi in atti e comportamenti concreti in relazione alla natura del reato per cui vi fu condanna, ovvero essere attestata in rapporti di organismi tecnicamente competenti (ad es. servizi sociali incaricati dal Giudice di sorveglianza).


In tale circostanza deve essere anche valutato, in maniera approfondita, l’indice di pericolosità del dipendente e, cioè, l’attitudine a reiterare comportamenti che possono mettere a repentaglio l’incolumità dei discenti.


Nulla esclude, infatti, che l’Amministrazione, in caso di valutazione negativa, possa rigettare la richiesta di riabilitazione.


4) Rapporti tra procedimento disciplinare, trasferimento per incompatibilità ambientale e dispensa dal servizio.


Da ultimo, appare necessario richiamare l’attenzione sulle ulteriori disfunzioni e inefficienze che può determinare, in taluni casi, l’uso improprio del procedimento disciplinare in luogo degli strumenti all’uopo predisposti dall’ordinamento.


Si tratta, in particolare, di quelle fattispecie in cui a rilevare sono condotte del personale scolastico che non integrano gli estremi dell’illecito disciplinare, bensì richiedono una valutazione sulla capacità o idoneità a svolgere proficuamente la funzione, oppure sull’opportunità di adottare d’ufficio un provvedimento di trasferimento in sede diversa da quella in cui si presta servizio.


Gli strumenti utilizzabili sono indicati dagli articoli 512, 468 e 469 del D.Lgsl. 297/94, più volte citato, che disciplinano modalità procedurali e organi deputati all’adozione dei provvedimenti, rispettivamente, di dispensa dal servizio per incapacità didattica, inidoneità fisica o per persistente insufficiente rendimento e di trasferimento per incompatibilità ambientale.


Sulla tematica in questione, e anche sugli altri aspetti di maggiore complessità trattati nella presente circolare, sono in atto specifici approfondimenti per fornire, con successive comunicazioni, alle SS.LL. utili e tempestivi elementi di supporto.

Firmato
IL MINISTRO
G. Fioroni 
 

CORTE DEI CONTI

RELAZIONE SULLA GESTIONE DEI PROCEDIMENTI DISCIPLINARI DA PARTE DELLE AMMINISTRAZIONI DELLO STATO APPROVATA CON DELIBERA N. 7/06/G


INDICE
1. Obiettivi della presente indagine e metodologie istruttorie impiegate pag. 3
2. Obiettivi contenuti nella vigente legislazione pag. 6
3. Organizzazione degli uffici disciplina nelle amministrazioni dello Stato pag. 12
4. Tempistica delle vicende penali e dei procedimenti disciplinari pag. 16
4.1 La influenza della durata dei processi penali pag. 17
4.2 Le gravi carenze informative nei rapporti tra cancellerie
penali e uffici disciplinari pag. 18
4.3 Tempi di svolgimento dei procedimenti disciplinari pag. 20
5. Esercizio della funzione cautelare pag. 23
6. Gli esiti in sede disciplinare delle sentenze penali irrevocabili pag. 28
6.1 Gli esiti dei reati disciplinati dalla legge 97/01 pag. 28
6.2 Gli esiti dei reati disciplinati dall’art. 32 quater codice penale pag. 36
6.3 Gli esiti dei reati di violenza sessuale negli istituti scolastici pag. 40
6.4 Modifiche normative introdotte dal Parlamento sui profili
critici segnalati da questa Corte pag. 50
6.5 In particolare, delle pene accessorie pag. 52
7. Difficoltà emergenti anche in altri settori dell’Amministrazione pubblica pag. 54
8. Impatto della attività di controllo sulla gestione della funzione
disciplinare pag. 55
9. Esigenza di vigilanza sistematica sui fenomeni di natura penale
e disciplinare nelle amministrazioni pubbliche pag. 59
10. Evidenziazione contabile dei costi della funzione disciplinare e
dei crediti per risarcimenti dovuti dai dipendenti pag. 61
11. Il punto di vista delle Amministrazioni e le controdeduzioni della
Corte dei conti pag. 65
12. Sintesi delle osservazioni sulla gestione disciplinare pag. 71
13. Osservazioni in ordine alla coerenza interna della vigente
legislazione in materia pag. 73
14. Esiti del controllo rilevanti ai fini dell’ art. 2, comma 3bis, l. 468/78 pag. 75
INDICE DEGLI ALLEGATI

Allegato A: Quadro delle Amministrazioni controllate con riferimento all’organizzazione degli Uffici di disciplina
Allegato B: Tempi giurisdizionali ed amministrativi medi nelle Amministrazioni dello Stato con riferimento alla data dell’illecito (periodo 2001-2005)
Allegato C: Tempi amministrativi medi conseguenti a vicende penali inerenti sia al complesso delle Amministrazioni dello Stato (periodo 2001-2005) che alle Istituzioni scolastiche comparati con le risultanze di precedenti indagini
Allegato D1: Esiti disciplinari a seguito di condanne definitive per reati di cui alla legge n. 97/01, art. 3, comma 1, dal 2001 alla data del deferimento
Allegato D2: Esiti disciplinari a seguito condanne definitive per reati di cui all’art. 32 quater del c.p. (incapacita' di contrattare con la pubblica amministrazione) dal 2001 alla data del deferimento – detratte le fattispecie di cui all’art. 32 quinquies
Allegato D3: Esiti disciplinari a seguito di condanne definitive sulla violenza sessuale, sfruttamento della prostituzione e pornografia nell'ambito delle Istituzioni scolastiche dal 2001 alla data di deferimento – esercizio 2005
Allegato E: Tempistica storico comparativa delle sospensioni cautelari
Allegato F: Quadro dei capp. di entrata (per rimborsi) e di spesa (per assegni alimentari o arretrati al personale sospeso) relativi ai rapporti con personale condannato con sentenza passata in giudicato



1. Obiettivi della presente indagine e metodologie istruttorie impiegate
La presente è stata concepita come conclusione di un ciclo di indagini iniziate nel 1995 e proseguite negli esercizi successivi, attraverso la redazione di cinque specifici referti . Il primo di essi riguardava tutte le Amministrazioni dello Stato mentre i successivi si sono focalizzati sulle gestioni di singole amministrazioni.
Nell’arco decennale di riferimento molte cose sono mutate nell’amministrazione statale. I cambiamenti possono essere così sintetizzati:
• grandi riorganizzazioni sono avvenute in attuazione delle molteplici norme di riforma della amministrazione pubblica, adottate dai Parlamenti e dai Governi che si sono succeduti;
• sono diminuiti i dipendenti della amministrazione statale, sia a seguito della privatizzazione di vastissimi settori che del processo di decentramento e federalista;
• la attività dei Ministeri si è concentrata sulle funzioni di programmazione, coordinamento e regolazione, abbandonando progressivamente ampi settori di gestione concreta degli affari, nei quali più frequenti sono le occasioni per procurare danno all’amministrazione o abusare della qualifica di funzionario pubblico;
• la commissione dei reati connessi alla attività amministrativa si è concentrata verso gli enti di base come gli enti locali, quelli economici e verso le società pubbliche. Appare emblematico che il legislatore della legge n. 97/01, nel dettare norme di riforma in tema di rapporti tra procedimento penale e disciplinare, abbia inserito norme riguardanti gli “enti pubblici ovvero gli enti a prevalente partecipazione pubblica”;
• la normazione disciplinare si è gradualmente differenziata attraverso l’affiancamento di contratti collettivi alla legislazione statale e l’introduzione di norme di carattere speciale, come quelle contenute nella legge n. 97/01.
In questo contesto, la delinquenza nell’ambito delle amministrazioni statali è diventata quantitativamente e qualitativamente recessiva rispetto a quella degli enti di base, di guisa che – nell’impossibilità (per ragioni di competenza della Sezione Centrale di controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato, unica ad occuparsi del problema, non avendo le altre sezioni di controllo della Corte inserito nei propri programmi indagini di eguale natura) di estendere l’oggetto del controllo ai settori più bersagliati dal fenomeno del malaffare amministrativo - si è ritenuto che l’ultima indagine dovesse in qualche modo allargare le valutazioni alla funzione disciplinare intrinsecamente intesa e ai settori critici, ove il suo carente esercizio costituisce rilevante vulnus al sistema amministrativo. Ciò al fine di consentire al Parlamento e alle amministrazioni pubbliche interessate riflessioni di ordine generale, in grado di superare il mero ambito statale.
Questo obiettivo ha indotto a selezionare il campo delle attività controllate, concentrandolo sulle fattispecie esitate in condanne irrevocabili, sui profili organizzativi e gestionali, sui settori dell’amministrazione statale più a rischio, quali la scuola, la gestione delle pratiche fiscali, dei contratti e degli appalti, sui nessi eziologici tra questi e le gravi patologie accertate nel corso della istruttoria.
La concentrazione degli obiettivi ha fornito materiale ampio ed esauriente per elaborare e supportare le valutazioni contenute nella presente relazione, in modo da sviluppare in modo ottimale il rapporto tra risorse impiegate e risultati raggiunti.
Rispetto alle passate indagini sono stati esclusi i seguenti argomenti:
• attività disciplinare pura, in ragione della sostanziale irrilevanza dei suoi esiti sullo stato giuridico ed economico dei dipendenti coinvolti e del tenore delle controversie, caratterizzatesi, secondo quanto accertato nelle precedenti indagini, per una prevalenza di questioni di scarso spessore;
• gestione amministrativa delle vicende penali pendenti, delle sentenze di condanna soggette a gravame, degli effetti delle sentenze di assoluzione (anche se sarebbe interessante verificare l’impatto della recente legge 11 maggio 2004, n. 126 ), costi della giustizia arbitrale e della attività di conciliazione (le amministrazioni non raccolgono dati disaggregati, suscettibili di una elaborazione comparativa).
La particolare conformazione degli obiettivi e l’aggiornamento del quadro normativo hanno inevitabilmente influenzato i tempi di svolgimento della indagine e la metodologia istruttoria.
I tempi hanno scontato la esigenza di verificare gli effetti concreti delle modifiche legislative intervenute, di cui la più rilevante è la legge n. 97/01, avente ad oggetto i rapporti tra giudizio penale e procedimento disciplinare.
Peraltro, per quanto riguarda la legge n. 97/01, la lentezza dei tempi giudiziari allontana nel tempo la definizione di uno scenario applicativo idoneo a sussumere valutazioni di ordine generale sugli effetti delle novelle, essendosi intercettate, nel corso della presente indagine, fattispecie sorte e regolate, in grandissima prevalenza, dall’ordinamento preesistente alle novelle stesse .
Sui tempi ha inciso anche la necessità di verificare gli effetti della riforma della Scuola e della istituzione delle Agenzie fiscali, generate dal Ministero delle finanze. Questi due settori, infatti, nel corso delle precedenti indagini erano stati interessati da rilevanti problematiche e, nell’iter applicativo delle riforme, presentavano forti criticità, che si è ritenuto di monitorare prima di redigere il presente rapporto.
Alla luce delle esposte considerazioni, gli obiettivi possono essere così catalogati:
a) riferire sul complesso delle gestioni disciplinari delle Amministrazioni, meglio specificate nell’allegato A;
b) individuare le disfunzioni più rilevanti, con particolare attenzione all’eventuale reiterarsi di fattispecie patologiche accertate nelle precedenti indagini;
c) analisi dei meccanismi giuridici e gestionali che hanno causato dette disfunzioni;
d) analisi dei reati più gravi, con riguardo ai diversi contesti amministrativi in cui sono sorti;
e) analisi dei costi gravanti sulle amministrazioni, conseguenti a vicende penali di rilevanza disciplinare.
Quanto alle metodologie utilizzate, esse sono consistite essenzialmente:
• nell’invio di questionari e schede standard, contenenti in modo sintetico tutti i dati necessari per inquadrare l’iter esterno ed interno delle vicende disciplinari;
• nelle verifiche incrociate dei dati suddetti con quelli del monitoraggio esercitato sulla base delle deliberazioni della Sezione di controllo nn. 1/03 ed 1/04;
• nelle verifiche di coerenza interna dei dati così assemblati;
• negli accertamenti compiuti nei confronti delle amministrazioni, che non avevano risposto o risposto parzialmente o in modo improprio alle istruttorie;
• in verifiche dirette, a campione, sulla veridicità dei fatti inseriti dalle amministrazioni nei questionari e nelle schede, che hanno comportato acquisizione ed analisi di circa 1000, tra sentenze, decisioni disciplinari, pronunce arbitrali ed atti di conciliazione, o in ulteriori istruttorie per le fattispecie definite con le esposte modalità, che hanno comportato analisi ed acquisizioni di ulteriori atti giudiziari ed amministrativi.
Le note istruttorie complessivamente emesse ammontano a n. 350.
I fatti gestori di cui si riferisce abbracciano il periodo temporale intercorrente tra il 1.1.2001 e la data del deferimento alla Sezione della presente relazione.

2. Obiettivi contenuti nella vigente legislazione
Per ciò che concerne gli obiettivi ed i principi contenuti nella legislazione mette conto rinviare a quanto già illustrato nelle precedenti deliberazioni di questa Corte, che si sono occupate dell’esercizio della funzione disciplinare da parte delle Amministrazioni dello Stato
Il complesso teleologico del quadro normativo vigente deve però essere riletto alla luce delle più recenti norme e della giurisprudenza costituzionale nel frattempo intervenuta, soprattutto con riguardo alla legge n. 97/01 , avente quale oggetto “norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche”.
Proprio la legge n. 97/01 ha costituito la novità più rilevante in materia nell’ultimo quinquennio; peraltro, anche il d.l. n. 66/04, convertito dalla legge n. 126/04, ha affrontato – sia pure con carattere eccezionale e temporaneo - un argomento problematico, inerente ai pubblici dipendenti sospesi o dimessisi dall’impiego, a causa di un procedimento penale successivamente conclusosi con proscioglimento.
Entrambe le disposizioni intervengono a disciplinare in modo più puntuale una materia controversa, quale quella dei rapporti tra processo penale e procedimento disciplinare.
Come già specificato nelle precedenti relazioni, il legislatore persegue la tutela, bilanciando talvolta contrapposti interessi delle diverse situazioni giuridiche coinvolte: da un lato, le garanzie dell’incolpato ad un giudizio ragionevole, dall’altro, l’interesse pubblico all’immagine e al buon andamento della pubblica amministrazione. Nella tutela di questi beni della collettività rientra anche l’esigenza di garantire in modo trasparente l’esercizio della funzione disciplinare: in modo rigoroso, quando gli accertamenti abbiano provato la colpevolezza del dipendente, e, viceversa, in modo garantistico, quando l’accertamento (ipotesi disciplinata dalla legge n. 126/04) si sia concluso in senso negativo.
La funzione disciplinare inerisce ad un rapporto profondamente modificato, agli inizi degli anni ’90 (d.l.vo n. 29/93), con la cosiddetta privatizzazione del pubblico impiego.
Questa ha caratterizzato la materia disciplinare attraverso l’art. 59 del decreto legislativo n. 29/93 (ora art. 55 del testo unico approvato con decreto legislativo n. 165/01). Rimangono tuttavia situazioni differenziate; facendo una ricognizione generale, si possono distinguere tipologie diverse di regolamentazione della funzione disciplinare:
a) per il pubblico impiego privatizzato la tipologia delle infrazioni disciplinari e delle sanzioni edittali è definita dai contratti collettivi di lavoro. Peraltro, al personale docente delle scuole di ogni ordine e grado si continuano ad applicare le norme di cui al Titolo I, Capo IV, parte III del decreto legislativo n. 297 del 1994 ;
b) al pubblico impiego non privatizzato si applicano gli artt. da 78 a 123 del Testo unico n. 3/57, relativo agli impiegati civili dello Stato;
c) restano escluse dalla privatizzazione e conservano la tradizionale disciplina pubblicistica alcune importanti categorie di dipendenti delle pubbliche amministrazioni (magistrati, avvocati dello Stato, militari, personale delle forze di polizia, della carriera diplomatica e di quella prefettizia, dipendenti della Banca d’Italia, della Consob e dell’autorità garante della concorrenza e del mercato e, almeno transitoriamente, docenti e ricercatori universitari)
Oggetto della presente indagine sono situazioni del tipo sub a) e sub b).
Il decreto legge n.66/04 interviene ad integrare la disciplina del ripristino e del prolungamento del rapporto d’impiego del dipendente pubblico sospeso o collocato anticipatamente in quiescenza a seguito di un procedimento penale, conclusosi con sentenza di proscioglimento . Per questo motivo la sua applicazione non ha formato oggetto della presente indagine, che si è concentrata sul trattamento disciplinare delle condanne passate in giudicato per i reati più gravi e quelli commessi nell’esercizio delle proprie funzioni.
Con la legge n. 97/01, riguardante una serie di reati particolarmente gravi nei confronti della pubblica amministrazione ed emanata anche sulla scorta delle risultanze di scarsa funzionalità del sistema, emergenti dalle relazioni di controllo da questa Corte trasmesse al Parlamento , si è verificata una inversione di tendenza rispetto alla deregulation della materia avvenuta attraverso i contratti collettivi: all’art. 8 della legge n. 97/01, anche sulla base di alcuni suggerimenti contenuti nei referti di questa Corte, si è prescritto che le disposizioni contenute nella legge prevalgano sulle disposizioni sancite nei contratti di lavoro e, nel comma 2, che nessun contratto collettivo nazionale di lavoro può derogare alle disposizioni contenute nella legge. In questo settore non è possibile, per i nuovi contratti collettivi, inserirsi con il meccanismo dello “ius superveniens”.
Nella buona sostanza, la legge n. 97/01 mira a riequilibrare la disciplina della funzione disciplinare in un senso più obiettivo di tutela dell’interesse pubblico, a garanzia del buon andamento e del prestigio della pubblica amministrazione.
Per questo motivo prescrive che nei confronti dei dipendenti condannati con sentenza passata in giudicato non sia possibile una difforme valutazione dei fatti in sede disciplinare. In tal modo, secondo l’articolo 1 di detta legge, al giudicato sono stati restituiti gli effetti preclusivi nei riguardi dell’esercizio della funzione disciplinare e ciò anche con riguardo ad ipotesi di epilogo processuale in cui non si sia verificato il dibattimento (cfr.la nuova disciplina del patteggiamento). In sostanza, la legge n. 97/01 ha modificato il codice di procedura penale, disciplinando anche gli effetti della sentenza di condanna oltre che quella di assoluzione, che esisteva già precedentemente. Il nuovo articolo 653 del codice di procedura penale, infatti, prevede che la sentenza penale irrevocabile di condanna abbia efficacia di giudicato nel giudizio di responsabilità disciplinare davanti alla pubblica autorità sotto il profilo dell’accertamento del fatto e della sua commissione da parte dell’imputato, nonché della sua illiceità penale; ciò con riguardo sia alla sentenza di condanna vera e propria che al patteggiamento ex art. 444 c.p.p.
Allo stato attuale la sentenza patteggiata ha efficacia di giudicato nel procedimento disciplinare davanti alle amministrazioni pubbliche quanto all’accertamento del fatto, alla sua illiceità e alla imputabilità nei confronti di colui che ha chiesto l’evocato beneficio.
E’ stato evidentemente ristretto il margine di discrezionalità riservato alle amministrazioni pubbliche. Quest’ultima, come messo più volte in luce da questa Corte, sconfinava talvolta in una sorta di rivalutazione complessiva del fatto, in senso assolutorio per l’incolpato.
Quindi la legge n. 97/01 inibisce all’amministrazione sia l’accertamento che la valutazione autonoma del fatto materiale e della responsabilità del dipendente.
E’ chiaro che, sulla scia di quanto previsto dal codice penale per i soggetti contraenti con la pubblica amministrazione che incorrano in particolari fattispecie penali, l’ordinamento cerca di assicurare la certezza di sanzione ad alcuni delitti contro la pubblica amministrazione.
Ciò, non solo dal punto di vista penale, ma anche da quello disciplinare.
In particolare, la Corte aveva messo in evidenza, con i referti al Parlamento precedentemente citati, che con il ricorso al patteggiamento il dipendente si assicurava, oltre ai benefici della legge penale, una probabile impunità disciplinare, proprio per i diversi effetti che una pronuncia di tal genere aveva rispetto ad una sentenza di condanna.
A differenza di ciò che avviene per il rapporto di lavoro privato puro, disciplinato dall’articolo 654 del c.p.p., la modifica dell’articolo 653 fa sì che la sentenza di condanna abbia efficacia di giudicato nel procedimento disciplinare, indipendentemente dalla partecipazione dell’amministrazione al processo penale.
Peraltro, la legge n. 97/01 detta anche una disciplina particolare in tema di effetti del procedimento penale sul rapporto di impiego. L’art. 3, infatti, prevede che il dipendente rinviato a giudizio per concussione e corruzione sia trasferito ad altro ufficio. La stessa pubblica amministrazione può predisporre, per motivi di opportunità, l’attribuzione ad un diverso incarico. Anche questa norma prende lo spunto da alcuni accertamenti effettuati dalla Corte dei conti nel corso di precedenti indagini, da cui era emerso che molte unità di personale, anche di rango elevato, rimanevano impunemente nei posti ricoperti prima della vicenda penale conclusasi con la condanna .
Nel caso in cui non sia possibile, per motivi organizzativi, disporre il trasferimento, è anche possibile collocare il dipendente in aspettativa o imporne la messa a disposizione, con diritto allo stipendio ma non agli emolumenti connessi alle presenze in servizio.
Quando per gli stessi reati di concussione e corruzione sia, invece, intervenuta una condanna, anche non definitiva e ancorché sia concessa la sospensione condizionale, la legge prevede, all’art 4, la sospensione dal servizio. Quest’ultima perde efficacia se successivamente viene pronunciata una sentenza di proscioglimento o di assoluzione non definitiva, in base al principio del favor rei, tipico del diritto penale.
Pertanto, si può concludere che la legge n. 97/01 collega l’adozione di diversi provvedimenti disciplinari o paradisciplinari con quelli giudiziari emessi dal giudice penale.
Per altri tipi di reati, che, pur non ricompresi nella previsione edittale della legge n. 97/01, presentano assoluti tratti di incompatibilità con l’esercizio di funzioni e servizi pubblici (si pensi alla violenza nelle scuole), pur prevedendo i contratti collettivi la sanzione del licenziamento con o senza preavviso, si verificano, attraverso alcuni concomitanti fenomeni degenerativi, in seguito analizzati, esiti assai favorevoli al condannato.

3. Organizzazione degli uffici disciplina nelle Amministrazioni dello Stato
Nell’allegato A viene rappresentata in modo sinottico – comparativo la organizzazione degli uffici di disciplina delle amministrazioni sottoposte a controllo nel corso della presente indagine.
Il prospetto evidenzia inequivocabilmente la estrema eterogeneità dei criteri autorganizzativi adottati nei diversi contesti.
Anche le variegate denominazioni e le tipologie di incardinamento degli uffici pongono in luce indirizzi alquanto diversi.
Alla mutevolezza lessicale corrisponde anche una atomizzazione delle linee guida e degli indirizzi delle gestioni disciplinari, che non favorisce la formazione di professionalità omogenee nel complesso della Amministrazione statale.
Anzi, la consistenza e la frequenza delle riorganizzazioni amministrative di cui si riferisce successivamente, tendono a disperdere professionalità specifiche, maturate in lunghi periodi di trattazione della materia. Non sempre, infatti, alla successione di uffici nell’ esercizio della funzione disciplinare consegue un parallelo trasferimento dei dipendenti specializzati. La stessa accentuata mobilità dei dirigenti non favorisce efficacia e coerenza di comportamenti in un settore che abbisogna di consolidate conoscenze normative, storiche e giurisprudenziali.
Le Agenzie generate dal Ministero dell’economia e finanze utilizzano il criterio del decentramento degli uffici disciplina mentre gli altri ministeri optano per la centralizzazione delle strutture a ciò deputate.
Nel Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca non si può parlare tanto di decentramento quanto di “entificazione” delle istituzioni scolastiche, anche se la nuova organizzazione, basata su criteri autonomistici, convive con l’arcaica e disefficiente struttura consultiva “piramidale”, già al centro di precedenti rilievi di questa Corte e di cui si riferisce più analiticamente nel prosieguo della relazione.
Salvo che per il caso dell’organizzazione scolastica, la cui scarsa razionalità si riverbera visibilmente in un peggioramento della tempistica e della uniformità di giudizio, nelle altre amministrazioni la scelta del modulo centralistico e di quello decentrato non evidenziano significative differenze di impatto.
E’ da presumersi che sugli effetti di queste alternative organizzazioni si bilancino sostanzialmente pregi e difetti ad esse intrinseci:
• la lontananza dai luoghi di commissione degli illeciti ma la possibilità di concentrare procedimenti e indirizzi generali nella soluzione centralistica;
• la vicinanza e la possibilità di un più documentato apprezzamento dei fatti ma una maggiore soggezione ai meccanismi autoreferenziali dell’amministrazione nella soluzione decentrata.
Già nelle precedenti relazioni la Corte aveva messo in evidenza come i profili organizzativi incidano sulla efficacia e correttezza delle gestioni disciplinari. In particolare, era stato messo in luce come scadenze dei termini e illogicità delle decisioni disciplinari fossero alla base degli insuccessi nelle vertenze giudiziarie e giurisdizionali, che vedono soccombenti le amministrazioni e liberati da qualsiasi onere i condannati.
Rispetto dei termini, continuità dell’azione disciplinare, coerenza delle varie fasi del procedimento possono essere assicurate soltanto da funzionari dedicati e specializzati nella materia, dovendosi evitare estemporanei passaggi di consegna delle diverse pratiche, talvolta dedotti in modo implicito ed indiretto nel magmatico universo dei fascicoli migranti da un ufficio all’altro, nell’ambito delle ristrutturazioni organizzative.
Purtroppo, i vasti processi di riorganizzazione, che hanno recentemente interessato le amministrazioni dello Stato, hanno confermato i timori e i rischi paventati da questa Corte. L’assenza di specifiche previsioni normative ed amministrative ha caratterizzato, salvo rare eccezioni, questi trasferimenti, inducendo fenomeni di discontinuità dei procedimenti. E’ bene precisare, infatti, che interruzioni e tempi di riorganizzazione sono giustificazioni irrilevanti dello sforamento dei termini e del mancato rispetto delle modalità preordinate all’esercizio della funzione disciplinare. Così, ogni ritardo burocratico e ogni incertezza nell’attribuzione delle competenze, sia pure oggettivamente giustificati dalle condizioni in cui sono costretti ad operare i funzionari pubblici, si riverberano automaticamente a danno delle ragioni dell’amministrazione, favorendo indirettamente fenomeni di impunità, generati da vizi formali collegati a tali situazioni.
Disfunzioni di questo tenore si sono verificate nella Direzione Generale del personale civile del Ministero della difesa .
Analogamente, si sono accertati problemi di indirizzo e continuità nel passaggio di personale dal Ministero dell’economia e delle finanze alle Agenzie. Nel regime transitorio, i diversi Uffici di disciplina, precedentemente coordinati a livello centrale, hanno seguito prassi e attribuzioni di competenze eterogenee, tali da ingenerare perplessità sulla coerenza della gestione disciplinare nel suo complesso . Peraltro i suddetti problemi, anche alla luce delle memorie presentate dalle Agenzie e delle deduzioni svolte in corso di adunanza, risultano sostanzialmente superati dalle amministrazioni interessate.
Anche nelle istituzioni scolastiche, disciplinate dalla Riforma della scuola intervenuta nel 2001, si sono verificate situazioni di sperequazione ed incertezza nella attribuzione delle competenze e nella riprogettazione dei procedimenti disciplinari. Gravi incertezze permangono, mancando a dette istituzioni un supporto tecnico e di coordinamento, che i loro piccoli apparati amministrativi non possono assicurare. Si riportano in nota alcuni stralci di relazioni di Uffici scolastici regionali e di CSA, sintomatici dei problemi organizzativi tuttora pendenti .
Nell’ambito della scuola, peraltro, ai problemi derivanti dalla riorganizzazione delle strutture, fanno da pendant le irrisolte disfunzioni generate dall’anomalo perdurare di una eccessiva frammentazione delle competenze decisionali in materia, le quali compromettono – talora anche gravemente – il fisiologico svolgimento dei procedimenti, pregiudicando il rispetto dei canoni di trasparenza, imparzialità ed efficacia dell’agire amministrativo, nonché del principio di responsabilità individuale in ordine alle decisioni assunte.
Il ricorso ad organi consultivi, in particolare, appare produttivo di effetti distorsivi rilevanti, nella misura in cui le valutazioni da questi espresse risultano spesso connotate da logiche non strettamente giuridiche e, al contempo, vincolanti per gli Uffici di disciplina nel porre limiti alla misura della sanzione .
Ulteriore fattore di criticità è indotto dal frequente superamento dei termini per l’esercizio stesso della funzione disciplinare a causa della farraginosità di un iter procedimentale affollato dai diversi soggetti chiamati ad intervenirvi.
Dal momento che le più recenti tendenze legislative sono nel senso di richiamare e valorizzare la funzione disciplinare, quale elemento deterrente per il rispetto di adempimenti ritenuti primari , appare improcrastinabile l’adozione di una maggiore cura nel disciplinare gli elementi “minimi”, che un assetto organizzativo disciplinare deve possedere.
La definizione di questi elementi può consentire, da un lato, una più efficace gestione dei procedimenti e, dall’altro, liberare quest’ultima dai difetti, che in alcuni casi, oggi e in passato, penalizzano la certezza delle competenze e moduli operativi. Nella materia sanzionatoria, infatti, la definizione e il rispetto della forma del procedimento hanno valore pregiudiziale ai fini dei giudizi di legittimità, cui il procedimento stesso è sovente sottoposto, a seguito dei ricorsi degli interessati.

4. Tempistica delle vicende penali e dei procedimenti disciplinari
Le fattispecie utilizzate ai fini delle valutazioni espresse sui tempi di definizione delle vicende penali in sede disciplinare ammontano complessivamente a 541. Il periodo di riferimento va dal gennaio 2001 al febbraio 2006.
Ai fini dei singoli segmenti temporali riassunti negli allegati sub B e C non è stato comunque possibile utilizzare tutte le fattispecie, perché alcune presentano incompletezza di dati temporali, relativi ora all’una ora all’altra fase attinente ai suddetti segmenti.
Sotto il profilo statistico, tuttavia, detta asimmetria non incide in modo sostanziale, dal momento che le parziali carenze di dati si compensano nell’arco dei diversi segmenti temporali, in modo da consentire un universo di riferimento delle singole elaborazioni sufficientemente uniforme.
E’ invece da sottolineare come i casi limite, che influenzano negativamente medie e statistiche siano emersi, in prevalenza, a seguito di complesse istruttorie. Ciò sia perché le amministrazioni interessate hanno difficoltà a sintetizzarli nei modelli statistici, che prendono a riferimento situazioni fisiologicamente contemplate dal legislatore, sia per la naturale ritrosia a rappresentare adeguatamente fattispecie gestite non correttamente o aventi esito anomalo. Ne deriva che il completamento delle istruttorie ancora aperte, mirate ai casi incompleti ed incongruenti, esclusi dalle statistiche per loro intrinseche caratteristiche, renderebbe peggiori le risultanze dei calcoli percentuali contenuti negli allegati alla presente relazione. Peraltro, è da ritenere che le istruttorie fin qui svolte siano sufficienti a rappresentare le risultanze delle gestioni, conformemente agli obiettivi della presente indagine. D’altronde, la mutevolezza e la complessità dello scenario non consentono di “bloccare” in modo temporalmente assoluto le informazioni inerenti all’esercizio della funzione disciplinare nelle diverse amministrazioni dello Stato.

4.1 La influenza della durata dei processi penali
L’allegato B illustra in modo sintetico la influenza della durata dei procedimenti penali sull’esercizio della funzione disciplinare.
A parte quanto si dirà nell’apposito paragrafo relativo alla gestione della funzione cautelare, l’oggettiva configurazione dei tempi dimostra come il rapporto di pregiudizialità tra giudizio penale e procedimento disciplinare si risolva in un sostanziale svuotamento della ragione di quest’ultimo, che dovrebbe essere finalizzato alla tempestiva tutela del buon andamento e del prestigio della amministrazione. E’ di tutta evidenza che un così ampio dilatarsi dei tempi stemperi equità, significato ed imparzialità delle sanzioni, trasformando spesso il procedimento disciplinare in una attività esercitata per mero adempimento formale.
Da un campione di 319 fattispecie, relativo alle amministrazioni di cui all’allegato A, di cui 137 relative ad applicazione della pena su richiesta e 182 a sentenze irrevocabili di condanna emergono queste risultanze:
• nelle vicende caratterizzate da applicazione di pena su richiesta, il tempo medio intercorrente tra la commissione dell’illecito e la condanna ammonta a 1135 giorni;
• per le sentenze irrevocabili di condanna, il tempo medio sale a 2064 giorni;
• il tempo medio tra la data di compimento dell’illecito e l’apertura dei procedimenti disciplinari, risulta di 1201 giorni, per l’applicazione di pena su richiesta e di 2121, per le sentenze irrevocabili di condanna;
• il tempo medio tra la data di commissione dell’illecito e la definizione del procedimento disciplinare è di 1348 giorni per l’applicazione di pena su richiesta e di 2331 per le sentenze irrevocabili di condanna.
La durata dei procedimenti penali relativi al personale delle Istituzioni scolastiche risulta mediamente inferiore di circa sei mesi per i procedimenti che esitano in sentenze e di quasi un anno per quelli che si concludono con applicazione della pena su richiesta delle parti. Ciò dipende probabilmente dalla tipologia di reati commessi nella Scuola, che, di regola, richiedono adempimenti penali istruttori meno complessi di altri reati commessi nella pubblica amministrazione.

4.2 Le gravi carenze informative nei rapporti tra cancellerie penali e uffici disciplinari
Permangono, ed in alcuni casi sembrano accentuarsi, le difficoltà di dialogo con le cancellerie penali e gli uffici giudiziari, inerenti alle informazioni sul personale detenuto, rinviato a giudizio o condannato. Non di rado, nel silenzio delle competenti cancellerie e delle procure, si viene a conoscenza di vicende penali relative al proprio personale attraverso i mass media .
Il Ministero degli Affari esteri precisa quanto segue: "… le informazioni qui trasmesse non costituiscono un riscontro puntuale delle posizioni attuali dei dipendenti indicati nei confronti della Magistratura, rappresentando solo una raccolta di dati pervenuti in tempi diversi da comunicazioni e fonti svariate. Ciò è dovuto anche al fatto che la Magistratura omette spesso di informare questa Amministrazione circa l'avvio, lo stato processuale o la conclusione dell'azione penale nei confronti dei singoli dipendenti".
Il CSA di Messina , segnala: “…la difficoltà incontrata dall’ufficio per dare un contributo significativo all’indagine dell’organo di controllo, anche a causa del protrarsi dei processi penali e della abituale resistenza e disattenzione degli uffici giudiziari riguardo alla informativa sulla “notitia criminis” o sull’evolversi dei procedimenti instaurati a carico dei dipendenti pubblici (rinvii a giudizio, patteggiamenti, ecc.)”.
Significativa, al riguardo, la vicenda di un collaboratore scolastico dell’Ufficio Regionale della Sicilia, SSCF, immesso in ruolo in data 1/09/2001 e condannato, in data 19/6/2001 (con sentenza della Corte di Appello di Messina, irrevocabile il 28/02/2003 a seguito di sentenza di rigetto della Cassazione), ad anni 4 e mesi 6 di reclusione per il reato di “violenza carnale in danno di malata di mente”. In data 27/02/2003 il suddetto inoltrava, al dirigente scolastico della scuola materna ed elementare in cui svolgeva servizio, richiesta di fruizione di gg. 6 di riposo compensativo e, a seguire, di gg. 60 di aspettativa per motivi di famiglia. Il dirigente scolastico competente, contestualmente all’esame della pratica, apprendeva casualmente dalla stampa, in data 17 marzo 2003, la notizia della condanna inflitta al dipendente, acquisendo, per le vie brevi, dalla famiglia dello interessato, copia della sentenza definitiva. Solo dopo 21 mesi dalla formale richiesta, in data 16 dicembre 2004, la cancelleria competente inviava ufficialmente la sentenza .
Ancor più grave il caso del Prof. SCAF, docente di arte, il quale, benchè riconosciuto colpevole, per due distinte fattispecie (sentenze di condanna del 18/11/2003 e del 7/04/2004), di atti di libidine o sessuali nei confronti di alcune sue alunne, ha visto concludere la propria vicenda disciplinare con la proposta di archiviazione espressa dal Consiglio di disciplina per il personale docente nell’Adunanza del 21 luglio 2005. Tra le giustificazioni addotte per la singolare vicenda si adduce la mancata formalizzazione di contestazione degli addebiti, imputata dalla pretesa impossibilità per l’Amministrazione di trarle coerentemente da un contesto “…di fatti dichiarati, ma non circostanziati, in quanto non provati…” nonchè da una carenza di elementi conoscitivi in quanto “…il provveditore non disponeva di copia del rinvio a giudizio per poter formalizzare un atto di contestazione … successivamente la Procura della Repubblica non ha notiziato gli uffici del Provveditorato in merito agli sviluppi del procedimento penale … (una delle ultime richieste rimasta inevasa è la nota fax del Provveditorato alla Procura del 18.02.2000)”.
Emblematica anche la fattispecie di un dipendente dell’Agenzia del territorio, AGTF, funzionario della Sezione Catasto terreni presso l’Ufficio provinciale del territorio di Parma condannato, per i reati di peculato, corruzione, concussione, truffa ed abuso d’ufficio, con sentenza patteggiata del Tribunale di Parma n.92/01 del 9 aprile 2001, alla pena di anni 1 e mesi 8 di reclusione, pena sospesa.
Tale sentenza veniva acquisita dall’Amministrazione in data 12.05.03, a seguito di nota della Procura della Repubblica presso detto Tribunale del 29.04.03.
Con la contestazione degli addebiti del 26.05.03 prendeva avvio il procedimento disciplinare che terminava con la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso, comminata dal direttore regionale per l’Emilia Romagna in data 22.09.03.
Sollecitato da ricorso ex art. 700 c.p.c., il Giudice del lavoro di Bologna, in data 5.12.03, ravvisava la illegittimità del licenziamento impugnato dal dipendente e ne disponeva la reintegrazione in servizio, sul presupposto dell’omesso avvio del procedimento disciplinare entro il termine di 120 giorni dalla conclusione del procedimento penale con sentenza irrevocabile, come richiesto dall’art.10, comma 3, della legge n.97/01.
Il 4.2.04 tale decisione veniva annullata per vizio di incompetenza territoriale, dal Tribunale di Bologna per essere confermata, nella sostanza, dal Giudice del Lavoro di Parma il successivo 8.04.04.
In definitiva, l’unica sanzione effettivamente comminata al pluricondannato è quella del giudice contabile: la Sezione Giurisdizionale della Corte dei conti per l’Emilia Romagna lo ha condannato (cfr. sentenza n.2254/04/R del 24.11.04) a risarcire all’erario dello Stato la somma di € 55.912,22 .
In attesa del giudizio di appello proposto dall’Amministrazione, il dipendente continua a rivestire analoghe mansioni a quelle per cui ebbe a delinquere.

4.3. Tempi di svolgimento dei procedimenti disciplinari
I tempi amministrativi conseguenti a vicende penali continuano ad essere molto elevati, come si evince dallo allegato C, che li confronta con quelli accertati nel corso delle precedenti indagini.
Soprattutto la durata media dei procedimenti disciplinari, pari a 123 giorni, appare sintomatica dei rischi in tema di illegittimità formale che quasi tutte le fattispecie sopportano.
Indipendentemente dalle considerazioni formulate in altre parti della presente relazione, in ordine alla irrazionalità del sistema normativo-giurisprudenziale nel suo complesso e del rapporto di stretta causalità che lo lega ai pessimi risultati delle gestioni disciplinari, non v’è dubbio che, allo stato delle cose, molti procedimenti disciplinari rischiano impugnazioni sotto il profilo della tardività. E’ noto come la giurisprudenza si sia attestata sulla perentorietà dei termini, anche se di recente sono emersi ripensamenti nell’orientamento del giudice ordinario .
Non di rado è questa pragmatica considerazione che spinge le amministrazioni a derubricare le pene edittali, conseguenti a gravi illeciti, per sanare, attraverso l’interessata acquiescenza del condannato, il vizio in questione.
I tempi medi, prelevati sui procedimenti disciplinari esercitati da tutte le Amministrazioni, elencate nell’allegato A, sono stati confrontati con quelli specifici dei Ministeri delle finanze e dei trasporti, accertati rispettivamente con delibere della Sezione centrale n. 60/99 e 23/98. Dalla tabella in allegato C appaiono peggioramenti della tempistica relativi ad alcune delle fasi, in cui è segmentato il percorso amministrativo, intercorrente tra il deposito della sentenza irrevocabile e la conclusione del procedimento disciplinare.
Il dato va tuttavia interpretato perché sul peggioramento pesa in modo rilevante e decisivo la tempistica della Scuola, che con la sua anomala ipertrofia, di cui si riferisce più avanti, peggiora la media complessiva.
Le altre amministrazioni, infatti, si attestano su valori medi inferiori e sostanzialmente uniformi.
E’ da sottolineare come, relativamente al tempo medio intercorso tra la data di emanazione della sentenza e quella di conoscenza della medesima da parte della amministrazione, su un campione di 422 fattispecie, dal quale sono state tratte le medie rappresentate nel richiamato prospetto, il 12% delle stesse risulta superiore alla media stessa: è evidente l’anomalia di tale proporzione che dovrebbe fisiologicamente tendere al 50%. Questa configurazione rivela come i ritardi si polarizzano in modo geometrico su valori assai distanti dalla media. Ed infatti le fattispecie superiori al valore medio generale presentano un valore medio “interno” di 772 giorni, veramente abnorme se si pensa che alcune punte massime superano addirittura i 2000 giorni.
Ferme restando le osservazioni negative sulla tempistica dei procedimenti disciplinari intesa in senso assoluto, cioè rapportata ai termini legislativamente contemplati, occorre sottolineare come, malgrado l’influenza delle Istituzioni scolastiche, la durata media dei procedimenti disciplinari risulti inferiore del 5% rispetto a quella accertata nei riguardi del Ministero delle finanze con la delibera n. 60/99 così come quella inerente al periodo intercorrente tra la notizia e l’apertura del procedimento disciplinare si riduca del 41% rispetto a quella accertata con delibera n. 23/98, nei riguardi del vecchio Ministero dei trasporti.
Per quel che riguarda specifiche anomalie gestionali, va precisato che nel 6% delle fattispecie sottoposte ad analisi è stato superato il limite di 180 giorni per l’apertura del procedimento disciplinare, previsto dal vigente contratto collettivo.
Per quel che concerne in particolare i reati, che sono sottoposti al diverso termine di 90 giorni, sancito nella legge n. 97/01, il limite viene superato nel 9% dei casi.
Per quel che concerne il Ministero della istruzione e le istituzioni scolastiche, la tempistica appare notevolmente superiore alle altre amministrazioni, anche se migliore di quella accertata nel corso della indagine confluita nella deliberazione di questa Sezione n. 25/01. E’ da precisare – tuttavia – che dall’universo, da cui è stata elaborata la statistica, mancano alcune fattispecie patologiche, per le quali, al momento della elaborazione stessa, pende istruttoria per l’accertamento delle date pertinenti alla vicenda penale e disciplinare. Essendo proprio queste le tipologie, suscettibili di innalzare la media, per le intrinseche anomalie, che si riverberano sui tempi, anche i miglioramenti riscontrati devono essere sussunti con un margine di correzione stimabile nella percentuale del 5% (le fattispecie problematiche pesano in modo rilevante, situandosi, di regola, molto al di fuori dei tempi fisiologici).
Con la esposta premessa, dall’allegato C si evince che il tempo medio tra il deposito della sentenza definitiva di condanna e l’acquisizione della relativa notizia da parte della amministrazione scolastica è passato dai 228 giorni del rapporto 2001 ai 202 attuali, con una diminuzione del 11%. Per ciò che concerne il segmento temporale intercorrente tra l’acquisizione della notizia e l’apertura del procedimento disciplinare si passa da 56 a 47 giorni con un miglioramento pari al 16%.
Infine, per ciò che riguarda la durata media del procedimento disciplinare il valore medio precedente di 176 giorni si riduce a 148, con una discesa pari al 16%. Peraltro anche questo valore risulta assolutamente negativo se rapportato ai termini previsti dai contratti collettivi, dalla legge n. 19/90 e dalla legge n. 97/01, rispettivamente pari a 120 giorni, 90 giorni, 180 giorni (solo per i reati previsti dall’art. 32 quinquies del codice penale).

5. Esercizio della funzione cautelare
Sull’esercizio della funzione cautelare pesa in modo molto dissuasivo per l’Amministrazione l’orientamento del Consiglio di Stato, peraltro contrastante con quello della Corte , secondo cui, nei casi di conclusione del procedimento disciplinare senza irrogazione della sanzione massima del licenziamento, spetta al dipendente la retribuzione inerente al maggior periodo di sospensione patita rispetto al tempo della sanzione comminata, ancorché in sede penale sia stata accertata la sua colpevolezza.
Emblematica è la nota n. 74130/02 del Ministero per i beni e le attività culturali, ove l’Amministrazione prende atto realisticamente della prevalenza della ragione economica su quella cautelare: “… Al di là di ogni determinazione ufficiale l'esercizio del potere disciplinare cautelare viene limitato al massimo, fatta salva ovviamente l'applicazione delle leggi 475/1999 e 97/01. La limitazione è dovuta alla necessità di risparmiare danni all'Erario, laddove, nei casi di conclusione del procedimento disciplinare senza irrogazione della sanzione massima del licenziamento, l'Amministrazione, in adesione alla ormai consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato, sia costretta a restituire somme aumentate di interessi legali e rivalutazione monetaria a dipendenti che non hanno prestato attività lavorativa. Casi di resistenza a questo indirizzo da parte di questa Amministrazione, che si atteneva all'orientamento giurisprudenziale della Corte dei Conti in materia, hanno fatto riscontrare vittoria nei relativi procedimenti contenziosi da parte di dipendenti, con condanna alla restituzione delle somme con l'aggravio degli interessi legali e delle spese di giudizio”.
E’ da sottolineare il corto circuito della funzione cautelare evidenziato da questa nota:
- da un lato essa dovrebbe servire a proteggere interessi superiori dell’Amministrazione, impregiudicato ogni giudizio in sede penale e disciplinare;
- dall’altro viene conculcata nella consapevolezza che, ancorché conclusosi con condanna il giudizio penale, al dipendente sarebbero dovuti anche emolumenti per prestazioni non rese (sono stati addirittura soggetti a retribuzione periodi trascorsi in detenzione) e potenzialmente cumulati con redditi da questo maturati autonomamente nel periodo di inattività, qualora il giudizio disciplinare non si concluda con l’espulsione. Mette conto ricordare che non esiste una sanzione intermedia tra l’espulsione e la sospensione per mesi 6, per cui ogni giudizio clemente nei confronti del condannato comporta una sostanziale liberalità economica nei suoi confronti, durando mediamente le sospensioni molto più di sei mesi;
- in tal modo la cautela della Amministrazione si esercita nei confronti di un potenziale esito di clemenza del procedimento disciplinare piuttosto che in relazione all’immagine pubblica della stessa e al buon andamento dell’azione amministrativa.
Occorre comunque menzionare un nuovo orientamento del giudice ordinario, subentrato a quello amministrativo nella definizione delle controversie in materia di impiego pubblico, secondo cui non può essere riconosciuto il diritto al risarcimento della perdita della retribuzione originata da misura cautelare adottata in pendenza di un giudizio penale conclusosi con la condanna. In proposito la sentenza n. 57/05 del Tribunale di Salerno – Sezione lavoro afferma: “ …Non può, pertanto, essere riconosciuto il diritto al risarcimento per la perdita parziale della retribuzione che accompagnava tale misura di cautela … dalla nullità della sanzione non discende in modo automatico anche la nullità della misura preventiva. Ché, a ben vedere, la declaratoria di nullità del licenziamento disciplinare è discesa da mera decadenza dei termini di legge, apparendo invece incensurabile nel merito la decisione adottata dall’Amministrazione che, in presenza di illeciti penali così gravi e rilevanti sotto il profilo professionale, ha giustamente ritenuto sussistere una causa che non potesse consentire la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto di lavoro. La sospensione dal lavoro appare perciò legittima ed adottata secondo le modalità legali e contrattuali” .
Di conforme tendenza, dà notizia l’Agenzia delle entrate la quale precisa di essersi sempre attenuta all’orientamento della Corte dei conti e non a quello del Consiglio di Stato.
Tuttavia la situazione di incertezza dovuta al notevole frazionamento delle controversie tra i giudici di merito, l’assenza di un osservatorio che possa dar contezza del complesso degli orientamenti di questi ultimi, dispersi negli archivi delle Cancellerie e degli uffici disciplinari, nonché, almeno fino ad oggi, di una pronunzia nomofilattica della Cassazione , inducono a ritenere non procrastinabile un intervento espresso del legislatore sulla non retribuibilità di tali periodi, che oggi si evince a contrario dai contratti collettivi che prevedono l’indennizzo retributivo solo per le sospensioni, seguite da assoluzione.
Ma l’istituto della sospensione cautelare appare ormai minato, nella sua intrinseca ragione di garanzia per l’Amministrazione, dagli effetti della evoluzione giurisprudenziale della Corte di Cassazione la quale, sulla base delle nuove prescrizioni dei contratti collettivi e della giurisprudenza costituzionale intervenuta sull’art. 4, comma 2, legge n. 97/01 (dichiarato incostituzionale nella parte in cui dispone che la sospensione perde efficacia, decorso un periodo di tempo pari alla prescrizione del reato) ha ritenuto che il termine massimo della sospensione cautelare dal servizio, fissato dai contratti collettivi di lavoro nella misura di cinque anni, è comprensivo sia della c.d. sospensione obbligatoria conseguente a misure restrittive della libertà personale, sia della sospensione facoltativa posta a prevenzione delle esigenze cautelari dell’Amministrazione.
Con la conseguenza che, una volta scaduto tale termine, l’amministrazione deve comunque riassumere il dipendente fino al momento della definizione del giudizio penale e del conseguente procedimento disciplinare.
Ciò, anche nei casi in cui l’Amministrazione avrebbe elementi probatori diretti per procedere al giudizio disciplinare.
Questa ipotesi di automatica ed eterodiretta discontinuità cautelare induce l’esigenza di ulteriori riflessioni sulla c.d. pregiudiziale penale, in ordine alla quale si rinvia ad altro paragrafo.
D’altronde, su un campione di n. 127 sospensioni adottate dalle Amministrazioni, risulta che tra la data di compimento dell’illecito e quella di applicazione della sospensione stessa decorrono, in media, ben 749 giorni.
Il vigente sistema cautelare appare, quindi, gravemente pregiudicato sia nella sua tempestività che nella sua effettività, casualmente scandito dal procedimento penale che, non di rado, ne ignora esistenza e interrelazione.
Una vicenda emblematica di collasso del sistema cautelare – disciplinare, in cui si incrociano eventi anomali, prodotti dai diversi protagonisti della funzione penale e disciplinare, è quella del prof. SPMA, la cui sospensione si è protratta per circa dieci anni:
• con ordinanza G.I.P. n. 1050 del 31.8.95 presso il Tribunale di Rimini si disponeva nei confronti del docente la misura cautelare della custodia in carcere, in quanto presunto responsabile dei reati di violenza carnale (art. 519 c.p.) e di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione (artt. 3 e 4 della legge n. 75/58);
• sospeso obbligatoriamente dal servizio, il docente in data 18.10.95 chiedeva di esservi riammesso in quanto autorizzato dal medesimo G.I.P. “… ad allontanarsi senza scorta dal luogo dell’arresto domiciliare nelle ore diurne per il tempo strettamente necessario per esercitare l’attività di insegnante”;
• l’amministrazione rigettava detta richiesta, confermando la sospensione già disposta sino alla conclusione del procedimento penale nonché dell’eventuale procedimento disciplinare ;
• il procedimento penale si concludeva con la sentenza n. 750/04 della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione con la quale veniva confermata la condanna ad anni otto e mesi sei oltre all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, già inflitta dalla Corte d’Appello di Bologna ;
• il Consiglio di disciplina per il personale docente Scuola media di I grado, nella seduta del 26.04.05, proponeva di infliggere la sanzione disciplinare della destituzione dall’insegnamento ritenendo che “…i fatti contestati al docente, consistenti nei reati di violenza carnale, atti di libidine violenti, induzione alla prostituzione maschile, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, di cui alla sentenza della III Sezione Penale della Corte Suprema di Cassazione, si configurino in atti in grave contrasto con i doveri inerenti alla funzione docente”;
• il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, con nota del 31.05.05 restituiva gli atti all’Ufficio Scolastico Regionale rappresentando “… che – in base agli atti allegati nella stessa nota – il provvedimento richiesto non può essere adottato in quanto … la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici rende privo di effetti e quindi inutile il procedimento disciplinare…” e segnalando al contempo la necessità di adottare - da parte del medesimo Ufficio Scolastico - un provvedimento di risoluzione del rapporto di lavoro, in luogo del provvedimento di destituzione .
Mette conto osservare come, alla luce del nuovo orientamento della Cassazione , che ha determinato in cinque anni il limite massimo globale della sospensione, il professore in questione avrebbe insegnato per cinque anni prima di essere interdetto per un fatto accaduto anteriormente.

6. Gli esiti in sede disciplinare delle sentenze penali irrevocabili
Conformemente agli obiettivi pertinenti alla presente indagine, vengono analizzate nei tre successivi paragrafi le gestioni disciplinari delle condanne per i reati più gravi commessi dai funzionari pubblici.
In particolare si è ritenuto di suddividere tale analisi in tre blocchi:
• il primo concerne i reati per i quali la legge n. 97/01 introduce rispettivamente la pena accessoria o la sanzione disciplinare della estinzione del rapporto di lavoro (nuova formulazione dell’art. 32 quinquies del codice penale);
• il secondo afferisce ai reati per i quali l’art. 32 quater del codice penale prevede il divieto di stipulare contratti con la Pubblica Amministrazione;
• il terzo riguarda i reati di natura sessuale commessi nell’ambito della scuola, per i quali già le precedenti indagini avevano messo in risalto la frequente impunità disciplinare, accompagnata dalla permanenza dei condannati nell’Amministrazione.

6.1. Gli esiti dei reati disciplinati dalla legge 97/01
Nel piano di controllo redatto in esecuzione del programma annuale di riferimento della indagine, il presente paragrafo avrebbe dovuto riguardare l’impatto della novella del 2001 sugli esiti del procedimento disciplinare, per verificare se la istituzione di un regime parzialmente automatico di misure espulsive per i reati più odiosi commessi nella veste di funzionario pubblico avesse effettivamente posto rimedio all’esasperata tolleranza nei confronti di questa tipologia di crimini, accertata nel corso delle precedenti indagini.
In effetti la legge n. 97/01 , da un lato, reintroduce la automaticità della espulsione sotto forma di pena accessoria di estinzione del rapporto di impiego per i reati di cui agli artt. 314, 1 comma, 317, 318, 319 ter e 320, comportanti condanna alla reclusione per un periodo di tempo non inferiore a tre anni, dall’altro, la sanzione disciplinare di analogo esito, di pertinenza dell’amministrazione, nei casi di condanna inferiore per gli stessi reati, ancorché in situazione di sospensione della pena.
La stessa legge, infine, prevede la prevalenza di dette clausole normative sui contratti collettivi, di guisa che gli stessi non possono più disciplinarne gli spazi legislativamente occupati.
La verifica non si è potuta effettuare per carenza di fattispecie definite secondo la nuova normativa, anche per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 186 del 24 luglio 2004, con la quale è stato dichiarato incostituzionale l’art. 10, comma 3, nella parte in cui attribuiva la nuova disciplina alle fattispecie nate anteriormente alla emanazione della legge stessa.
Considerata la lentezza della giustizia penale, analizzata nel paragrafo inerente alla tempistica ed essendo per questo motivo quasi tutte le fattispecie criminose, nate dopo tale data, non ancora definite, la presente indagine non ha potuto verificare l’effetto della più rigorosa normativa sui già denunciati (nelle precedenti relazioni) fenomeni di esagerata clemenza della macchina disciplinare pubblica, nei confronti dei reati commessi dai propri dipendenti.
E’ vero, infatti, che i contratti collettivi prevedono per tale tipologia di reati la pena del licenziamento senza preavviso, ma è noto come attraverso meccanismi parasindacali e conciliativi l’esito edittale fisiologico sia spesso aggirato o vanificato.
Non di meno è da segnalare come l’art. 32 quinquies del codice penale, inserito dalla stessa legge n. 97/01, nell’usare la locuzione “l’estinzione … può essere pronunciata (nei confronti dei dipendenti)” lascia margini di discrezionalità alla amministrazione, forse superiori allo stesso regime fondato sulla contrattazione collettiva.
L’allegato D1, il quale sintetizza gli elementi fondamentali delle gestioni disciplinari relative alle condanne per i reati di cui alla legge n. 97/01, comprende quindi fattispecie criminose quasi interamente ascrivibili al regime transitorio, pertinente ai fatti intervenuti prima della entrata in vigore della novella del 2001.
Nel richiamato prospetto si possono verificare, in modo comparativo, i provvedimenti disciplinari adottati dalle amministrazioni pubbliche, sottoposte alla presente indagine.
Esso è frutto di una serrata istruttoria tesa a verificare – tra l’altro – lo stato di servizio attuale dei condannati. E’ fenomeno non infrequente, in alcune amministrazioni, la parziale compilazione delle schede inviate da questa Corte, tralasciando di segnalare la permanenza in servizio dei condannati. Ciò per una evidente forma di pudore istituzionale nei confronti di un fenomeno lesivo della immagine della amministrazione, se non per coprire, in qualche modo, patologie insorte nella gestione del procedimento disciplinare.
Il prospetto mette in luce – altresì – le modalità di comportamento concreto della amministrazioni di fronte a fattispecie sostanzialmente analoghe.
Così la Agenzia del territorio, a fronte di un comportamento sostanzialmente uniforme nella applicazione della sanzione del licenziamento senza preavviso ai corrotti (peraltro in alcuni casi non andata a buon fine), nel caso della dipendente AGTA, colpevole dello stesso reato, si limita alla adozione di una sospensione dal lavoro per 10 giorni.
Per le stesse tipologie di reato, poco rigoroso appare il comportamento del Ministero dell’economia e delle finanze, il quale adotta in prevalenza sospensioni dal lavoro oscillanti tra i 9 e i 10 giorni, salvo una sospensione per 5 mesi e 20 giorni e qualche sporadico licenziamento senza preavviso. Rilevante è il contrasto tra il comportamento concreto della amministrazione rispetto ai canoni prescritti dalle direttive emanate in tempi recenti, nelle quali si invitano gli uffici disciplina ad adottare misure rigorose e disincentivanti il fenomeno del malaffare nella pubblica amministrazione. Nel corso dell’adunanza l’Amministrazione ha giustificato questo comportamento con la particolare personalità del dipendente e la minore gravità della fattispecie criminosa. In mancanza di una appropriata gradualità sanzionatoria nelle pene edittali del contratto collettivo, quella percorsa sarebbe l’unica via per evitare la sanzione espulsiva. Le giustificazioni appaiono parzialmente pertinenti, in considerazione del fatto che sanzioni così ridotte risultano oggettivamente premianti nei riguardi di simili condotte.
In effetti è ricorrente il fenomeno secondo cui, nella gestione della funzione disciplinare, con atti ufficiali e generali si predica fermezza e incisivo contrasto verso il malaffare amministrativo ma, nel concreto operare, disfunzioni e meccanismi autoreferenziali vanificano talvolta i buoni propositi.
Anche il Ministero della giustizia presenta fattispecie di notevole clemenza nei confronti dei condannati e disparità di trattamento per le fattispecie di peculato.
Il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti gradua le sanzioni tra sospensioni dal lavoro per sei mesi e licenziamento.
Un altro dei fenomeni di aggiramento della sanzione disciplinare è il passaggio da un’amministrazione all’altra, ipotesi patologica già segnalata al Parlamento da questa Corte con delibera Sezione centrale controllo n.4/96 . Nella buona sostanza il dipendente transita da un’amministrazione all’altra, la quale tende ad archiviare il procedimento disciplinare. Sarebbe opportuno che, per alcuni casi di reati particolarmente gravi come quelli dell’art. 32 quinquies del c.p., fosse sancito espressamente il principio di continuità dell’azione disciplinare. In ogni caso è da precisare che, anche nel vigente quadro normativo, è illegittimo il comportamento delle amministrazioni subentranti nel rapporto di lavoro pubblico, che archiviano azioni disciplinari pendenti.
E’ quanto accaduto, ad esempio, per due dipendenti del Ministero per i beni e le attività culturali, condannati per truffa. I rispettivi procedimenti disciplinari sono stati archiviati a seguito di passaggio dei dipendenti nei ruoli di altra amministrazione. In un caso (BBACD), a fronte di una scadenza dei termini del procedimento fissata nell’11 luglio 2002, l’amministrazione di destinazione (Comune di Alcamo) richiedeva - in data 28 gennaio 2003 - copia del fascicolo personale, il quale, ad oggi, risulta ancora non completo della sezione disciplinare e penale che “trovasi in busta riservata … nell’archivio del personale cessato” del Ministero per i beni e le attività culturali.
Nell’altro (BBACF), a fronte di una contestazione di addebiti formulata dal Ministero per i beni e le attività culturali, Segretariato generale – Ufficio III, in data 27/03/02, all’interessato, per il tramite dell’archivio di Stato di Palermo, quest’ultimo replicava che “… a far data dal 2/11/2000 il dipendente è transitato in altra amministrazione e precisamente alle dipendenze del Ministero delle Politiche Agricole, presso l’Ispettorato centrale repressioni e frodi”. Anche in questo caso, il dipendente ha beneficiato della mancata piena conoscenza dei fatti, in quanto l’invio della sentenza del 6/6/2000, da parte del Tribunale di Palermo, è avvenuto in data 28 febbraio 2002 al Ministero per i beni e le attività culturali.
La propensione a commettere reati incompatibili con la veste di funzionario pubblico non sembra interessare gli organi disciplinari della amministrazione ove transita il condannato .
Dall’allegato D1 si evince la frequenza delle permanenze in servizio anche dopo l’adozione della sanzione espulsiva.
Ciò avviene, sia attraverso la poco meditata accettazione, da parte delle amministrazioni interessate, delle procedure di arbitrato e conciliazione, inesorabili nel convertire la sanzione espulsiva nelle flebili sanzioni inferiori, sia attraverso il sindacato giurisdizionale, attualmente affidato al giudice del lavoro.
Quest’ultimo in realtà esercita un sindacato molto simile, malgrado la privatizzazione del rapporto, a quello del giudice amministrativo. E non potrebbe essere altrimenti poiché, anche nel diritto privato, la funzione disciplinare è un potere attribuito al datore nell’interesse dell’azienda, di fronte al quale l’interessato può solo far valere l’interesse al corretto esercizio del potere. Nella materia sanzionatoria – peraltro – il rispetto dei termini e della forma diventa indefettibile requisito di legittimità del provvedimento disciplinare.
Proprio la farraginosità ed i ritardi del procedimento disciplinare sono la causa degli annullamenti delle sanzioni da parte dei giudici, che non arrivano quasi mai al merito della vicenda, se non per corroborare, nella quasi totalità dei casi, la giustezza del provvedimento sanzionatorio.
Emblematica, in tal senso, è la vicenda del dipendente AGTI, in servizio presso l’Agenzia del territorio, nella quale si intrecciano complesse questioni disciplinari, penali ed amministrative, che finiscono per inficiare formalmente ma non sostanzialmente l’operato dell’amministrazione:
a) il dipendente in parola, in servizio presso la Conservatoria dei registri immobiliari di Salerno, veniva sospeso dal servizio a far data dal 13/2/2000 per la pendenza di un giudizio instaurato per i reati, di cui agli artt. 416 (associazione a delinquere), 314 (peculato), 640 (truffa), 319 (corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio), 326 (rivelazione e utilizzazione di segreti di ufficio) del codice penale, per fatti commessi tra il 1996 e il 2000 ;
b) veniva riammesso in servizio, presumibilmente per cessazione del periodo di detenzione, a far data dal 3/7/2001;
c) intervenuta condanna attraverso l’istituto della applicazione della pena su richiesta (sentenza del Tribunale di Salerno n. 117/02 del 31/01/2002, passata in giudicato a seguito della sentenza della Corte di Cassazione n. 32392/03 del 1/07/2003, con la quale veniva rigettato il ricorso proposto dall’imputato) ad anni due di reclusione con sospensione condizionale della pena, il AGTI veniva nuovamente sospeso, ai sensi dell’art. 4 della legge n. 97/01, a far data dal 21/6/2002;
d) il procedimento disciplinare veniva instaurato sette mesi dopo il passaggio in giudicato della sentenza in data 3/02/2004 e concluso in data 29/04/2004 con l’irrogazione della sanzione del licenziamento senza preavviso a far data dal 1/07/2002;
e) il licenziamento è stato dichiarato nullo dal Tribunale di Salerno – Sezione lavoro – con sentenza del 28/06/2005, per “… mera decadenza dei termini di legge…” in quanto l’instaurazione del procedimento era avvenuto oltre il termine previsto dalla legge 27/03/2001 n. 97, che, nel caso in questione, trattandosi di fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge stessa (6/04/2001), è quello previsto dall’art. 10, comma 3 (centoventi giorni dalla conclusione del procedimento penale con sentenza irrevocabile) ;
f) nell’annullare la sanzione il giudice ha ribadito l’assoluta proporzione nel merito della sanzione , viziata solo sotto il profilo del mancato rispetto dei termini.
Dunque la lunghezza e la complessità della vicenda penale e disciplinare hanno giocato tutte a favore del reo, diventando causa dei vizi formali, che hanno vanificato qualsiasi effetto sanzionatorio a suo carico.
E’ quindi il sistema che induce, su un apparato elefantiaco, e talvolta poco coerente nei procedimenti decisionali, come quello dell’amministrazione, risultati perversi: sforamento sistematico dei termini e mantenimento in servizio dei dipendenti riconosciuti, dallo stesso giudice che li riammette in servizio, meritevoli della sanzione più elevata.
Tutto ciò, tra l’altro, coinvolge direttamente il funzionario pubblico, nei cui riguardi può configurarsi come elemento di colpa grave il superamento dei termini e il conseguente danno erariale derivante dalle retribuzioni dovute al dipendente riammesso. Retribuzioni che, come nel caso di specie, vengono fatte decorrere dal momento del licenziamento annullato.
Ed in effetti la Corte dei conti in sede giurisdizionale ha già avuto modo di affermare il principio della colpa grave, inerente a tale comportamento, con sentenza della Sezione Giurisdizionale della Regione Calabria n. 557 del 2003 .
Singolare la vicenda di INTB : condannato per il reato continuato di cui all’art. 314 (peculato) dal Tribunale di Catanzaro, con sentenza del 3.06.04, resa ai sensi dell’art. 444 c.p.p., alla pena di anni due di reclusione per gravi irregolarità contabili. Il dipendente è stato assoggettato alla clemente sanzione della sospensione di tre mesi sulla base del fatto che in ordine allo illecito perpetrato (in nota meglio evidenziato), “non risulta essere stata esercitata azione di responsabilità” (motivazione invero tautologica, in assenza di espressa denunzia ex art. 1 legge 20/94).
Ben più grave la vicenda relativa a INTH, collaboratore amministrativo contabile con funzione di cassiere presso la Questura di Rieti alla quale, a seguito indagini espletate a seguito di tre solleciti di pagamento, con nota addebiti 24 aprile 2001 venivano contestate - ai fini della applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso - gravi inadempienze ed omissioni di rilevanza penale poste in essere nell’espletamento del proprio ufficio (quali la mancanza di alcuni fascicoli, di talune ricevute di pagamento ed di altro materiale cartaceo relativo ad ulteriori pagamenti non effettuati).
Il procedimento disciplinare veniva sospeso in attesa della definizione della vicenda in sede penale, intervenuta con la sentenza n. 405/03 del 28 ottobre 2003, resa dal Tribunale di Rieti ai sensi dell’art. 444 c.p.p..
In tale sede il collaboratore veniva condannato per i predetti fatti, nonché per altri ed ulteriori, alla pena di un anno e dieci mesi, per i reati di peculato (314), falsità materiale del p.u. in atti pubblici (476), falsità materiale commessa dal privato (482), truffa (640), errore determinato dall’altrui inganno (48), falsità ideologica commessa da p.u. in atti di ufficio (479) .
Divenuti definitivi gli esiti del giudizio penale, l’amministrazione provvedeva con nota del 13 settembre 2004 a riassumere il procedimento disciplinare già sospeso, sulla base delle contestazioni originarie, effettuate al momento della denunzia del fatto e di quelle successive, emesse a seguito dell’accertamento della sussistenza di ulteriori reati, susseguenti alla acquisita conoscenza della condanna.
Per i suddetti motivi i procedimenti disciplinari, originati dallo stesso fatto ma da contestazioni diverse per gli obiettivi riferimenti temporali sovra evidenziati, venivano per tuziorismo riuniti dalla Amministrazione, esitando nella sanzione del licenziamento.
Benché per entrambi i fatti oggetto delle contestazioni i contratti collettivi succedutisi nel tempo prevedessero la sanzione espulsiva quale pena edittale, il collegio arbitrale, con singolare decisione, provvedeva all’annullamento della sanzione, sulla base del preteso vizio formale della seconda contestazione, che non avrebbe tenuto conto del codice disciplinare vigente al momento della commissione del fatto.
Con nota dell’11 luglio 2005, il Ministero ha formalizzato all’Avvocatura Generale dello Stato, la propria volontà di impugnare la suddetta decisione. Non è noto, allo stato attuale, l’esito della vicenda.

6.2. Gli esiti dei reati disciplinati dall’art. 32 quater codice penale
Il presente paragrafo riguarda la gestione dei procedimenti disciplinari inerenti ai reati contemplati nell’articolo 32 quater del codice penale.
Si tratta delle fattispecie criminose che comportano la impossibilità di stipulare contratti con la pubblica amministrazione.
La loro natura, infatti, indipendentemente dalla commissione dell’illecito nell’esercizio delle funzioni o all’esterno dell’amministrazione, risulta – per insindacabile valutazione del legislatore – incompatibile con quei valori di correttezza, buona fede, idoneità morale, che devono caratterizzare i soggetti contraenti con la parte pubblica.
Alcuni di questi reati coincidono con quelli disciplinati dalla legge n. 97/01 e per essi si rinvia a quanto osservato nel paragrafo precedente e ai dati contenuti nello allegato D1.
Per gli altri, invece, si fa riferimento all’allegato D2, dal quale si trae spunto per le valutazioni contenute nel presente paragrafo.
I reati dell' allegato D2, pur non essendo regolati dalle nuove disposizioni della legge n. 97/01, sono comunque assoggettati alla pena edittale, prevista nei vigenti contratti collettivi, della sanzione del licenziamento senza preavviso.
Per i più gravi, inoltre, può scattare la pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Come si evince dalla ultima colonna dell’allegato, alcuni condannati sono regolarmente in servizio, sia pure attraverso percorsi amministrativi diversi.
Pur riguardando l’art. 32 quater la interdizione a contrattare con la Pubblica Amministrazione dei soggetti esterni, balza evidente il contrasto degli esiti disciplinari con la ratio di una norma tesa a salvaguardare il prestigio della amministrazione e a prevenire danni potenziali da contraenti (anche il rapporto di lavoro trae fonte da un contratto, di durata e di effetti ben più estesi di una somministrazione o di un appalto) colpevoli di crimini irriducibili al buon andamento.
Irriducibilità colta dagli stessi firmatari dei contratti collettivi, i quali vi hanno correlato la pena del licenziamento senza preavviso.
Si può rilevare come il reato più frequentemente accertato di questa categoria è la truffa commessa ai danni dello Stato o di un altro ente pubblico.
Si tratta – a ben vedere – di un reato professionale, quasi sempre collegato alla qualità di funzionario pubblico che, per sua natura, andrebbe combattuto con fermezza e coerenza, al fine di disincentivare condotte criminose, endemiche nell’apparato amministrativo. E’ intuibile come una breve sospensione dal lavoro o una piccola multa non siano rischi disciplinari appropriati per chi entra nella determinazione di abusare delle proprie prerogative di funzionario pubblico.
Analizzando i dati contenuti nell’allegato d2, si nota la pervasività del fenomeno di applicazione disomogenea delle sanzioni: per lo stesso reato le amministrazioni tendono ad oscillare dalla pena più grave a quelle, solo formali, di un giorno di sospensione o della multa di 4 ore di retribuzione.
Il Ministero della difesa, in particolare, dimostra una notevole clemenza verso reati gravi come l’associazione per delinquere o professionali come la truffa finalizzata all’esonero dal servizio militare.
Sospensioni da 1 ad 11 giorni non sembrano appropriate per estirpare un fenomeno odioso che – al di là dell’abrogazione della leva obbligatoria – potrebbe essere oggetto di traslazione verso fattispecie gestorie del nuovo sistema di arruolamento.
Ritardi nello svolgimento del procedimento disciplinare giustificano il rientro di alcuni dipendenti licenziati senza preavviso e riammessi dal giudice del lavoro per mero vizio formale, pur nel riconoscimento della gravità della condanna.
Strumento elusivo del procedimento disciplinare può essere anche il passaggio ad altra amministrazione, attraverso il quale – generalmente – il dipendente si affranca dallo stesso, attraverso la archiviazione da parte dell’ente di provenienza e la mancata riattivazione da parte del successivo. Per la verità questa Corte ha già avuto modo di affermare un principio di continuità del procedimento disciplinare, inerente alla successione nel rapporto di impiego, che caratterizza anche il processo di mobilità. Le amministrazioni tuttavia tendono ad eludere tale principio ed in tal modo la situazione disciplinare del condannato si “ripulisce” completamente.
Talvolta questa leggerezza nell’azione disciplinare viene pagata duramente dalla amministrazione, quando il criminale commette gravi delitti nella nuova amministrazione. E’ il caso della vicenda di pedofilia, ampiamente pubblicizzata dai mass media, legata al comportamento del dipendente del Ministero dell’istruzione, università e ricerca SLZB.
Il soggetto in questione, prima del passaggio nei ruoli della Pubblica istruzione, era dipendente del Ministero dell’interno. Nel corso di tale rapporto egli era incorso in ben nove sanzioni disciplinari, nel periodo 1980 – 1996, con una media di oltre una sanzione ogni due anni.
Inopinatamente, senza alcuna valutazione del suo fascicolo disciplinare e della sua situazione professionale, con decreto del 1° luglio 1996 del Ministero della Pubblica Istruzione, di concerto con il Capo della Polizia – Direttore della Pubblica Sicurezza, veniva fatto transitare, in sopranumero, nella nuova amministrazione sul mero presupposto della non idoneità al servizio di Polizia di Stato .
In sostanza si è applicata una sorta di presunzione assoluta di idoneità al nuovo lavoro, poi tragicamente smentita dai fatti criminosi, per i quali è stato condannato. Nella nuova veste di dipendente del Provveditorato agli Studi di Roma , veniva tratto in stato di detenzione il 22.09.2000 e successivamente condannato per gravi delitti di violenza sessuale in danno di soggetti minorenni alla pena di anni nove e mesi tre di reclusione ed euro 30.000 di multa, nonché interdetto in perpetuo dai pubblici uffici, in quanto riconosciuto colpevole dei reati di violenza sessuale (609 bis), atti sessuali con minorenni (609 quater) , pornografia minorile (600 ter), produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti e psicotrope (dpr n.309/90), ricettazione (648), sequestro di persona (605) e, infine, accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico (615 ter) ,attraverso il quale aveva potuto organizzare i suddetti eventi criminali.
E’ evidente, nel caso di specie, l’intrinseca contraddizione del sistema di mobilità e reclutamento, così come interpretato ed attuato dalle amministrazioni interessate:
• un soggetto palesemente inidoneo alle funzioni pubbliche e ai connessi profili di integrità morale, viene allontanato dall’amministrazione di appartenenza per motivi formalmente diversi ma probabilmente non estranei ai comportamenti seriali di valenza disciplinare;
• attraverso la mobilità ed una sostanziale presunzione catartica di tale istituto, il soggetto viene acriticamente cooptato in mansioni delicate (accesso ai sistemi informatici) in una amministrazione che non ha ritenuto di approfondire, nei suoi confronti, alcuna attitudine, ne’ precedenti disciplinari;
• in tal modo il problema non viene rimosso ma si sposta con esiti peggiori, come nel caso di specie.
Altre volte è la inappropriata logica transattiva dei collegi arbitrali a tramutare - come già rilevato in altro passo della relazione - licenziamenti senza preavviso in sospensioni dal lavoro per 10 giorni. Questo fenomeno appare radicato soprattutto nel Ministero delle finanze, già censurato da questa Corte con precedente delibera n. 60/99 per la tendenza vanificatoria delle sanzioni più rigorose.
Il Ministero della giustizia e il Ministero delle infrastrutture e trasporti adottano sanzioni oscillanti tra il massimo e il minimo della pena edittale per gli stessi reati.
In un caso il Ministero delle infrastrutture e trasporti procede all’archiviazione riammettendo direttamente il dipendente condannato per truffa . Il caso di specie è emblematico di come il sistema, nel suo complesso, consenta molteplici combinazioni per evitare la pena disciplinare: a) licenziato senza preavviso per comportamenti di gravissima rilevanza ha potuto beneficiare di una singolare decisione del collegio arbitrale (“…dalla certificazione medica prodotta,/in pendenza di scrutinio penale poi conclusosi con esito di accertamento di falsità / sia in data anteriore che posteriore, risulta che il dipendente era affetto da rilevanti disturbi psichici, che indubbiamente impedivano la prestazione del servizio”); b) condannato a seguito di sentenza ex art.444 c.p.p. del 25.01.03 per truffa (c.p. 640) e falsità in scrittura privata (c.p.485) successivamente ha potuto evitare la sanzione attraverso una archiviazione della pratica, probabilmente basata sul divieto di ne bis in idem, ritenuta “assorbita dal precedente procedimento disciplinare concluso con la sanzione del licenziamento senza preavviso, annullata dal Collegio arbitrale di disciplina”.
Risultano poi casi di archiviazione di dipendenti condannati per truffa da parte del Ministero per i beni e per le attività culturali, per i quali si è resa necessaria una serrata istruttoria a seguito dei ritardi e della incompletezza dei dati forniti dall’Amministrazione, dei quali si è riferito in precedente paragrafo.

6.3. Gli esiti dei reati di violenza sessuale negli istituti scolastici
Con precedente delibera di questa Sezione n.25/01 era stata messa in evidenza la mancata o scarsa considerazione, da parte del sistema disciplinare delle istituzioni scolastiche nel suo complesso, verso gli interessi degli utenti (genitori-alunni) del servizio scuola. In particolare per i reati a sfondo sessuale si era potuto accertare che i primari interessi consistenti nella prevenzione, nel rigore verso i condannati, nella vigilanza, nella certezza dei rimedi, venivano spesso conculcati e sacrificati alla logica della tolleranza verso dipendenti condannati per reati di pedofilia e di violenza nei confronti di minori.
In particolare la precedente indagine aveva messo in luce come le decisioni disciplinari non avessero responsabili ben precisi, in quanto originate da un complesso articolato di competenze, la cui unica sinergia consiste nel ridurre progressivamente le pene edittali previste per i condannati. In questo ruolo si distinguevano e continuano a distinguersi gli organismi collegiali a prevalente composizione sindacale, i quali - unico caso nel pubblico impiego dopo la riforma - sono intestatari di un potere di codecisione. Invero, detto potere è sostanzialmente unilaterale, dal momento che i pareri emessi sono vincolanti nel precludere le sanzioni espulsive: nella buona sostanza, se gli organi consultivi (consigli scolastici provinciali e Consiglio nazionale della pubblica istruzione) propongono per il peggiore dei delitti una sanzione blanda, l'Amministrazione non può aggravarla ma solo ridurla. Recita, infatti, l’art.503, n.5, del d. lgs n.297/94: “L'organo competente provvede con decreto motivato a dichiarare il proscioglimento da ogni addebito o ad infliggere la sanzione in conformità del parere del consiglio di disciplina del consiglio scolastico provinciale o del consiglio di disciplina del Consiglio nazionale della pubblica istruzione, a seconda che trattasi di personale docente della scuola materna, elementare e media, ovvero, di personale docente degli istituti e scuole di istruzione secondaria superiore e di personale appartenente a ruoli nazionali, salvo che non ritenga di disporre in modo più favorevole al dipendente”.
Il ruolo vanificatore degli organismi consultivi risultava rafforzato dai gravi ritardi ingenerati dalla loro lentezza nell’esercitare la funzione: il superamento dei termini di legge per l’adozione delle sanzioni finiva per consentire ricorsi fondati solo sulla forma ma efficaci nel provocare l’annullamento in sede giurisdizionale della sanzione e la permanenza in servizio dei condannati.
In aggiunta all’abnorme ruolo attribuito agli organismi consultivi, la riforma della Scuola, accentuando il caleidoscopico coacervo di competenze decisionali e amministrative, aveva reso ancora più incerto e lento l’esercizio della funzione disciplinare, pregiudicando ulteriormente i principi di responsabilità, di trasparenza, di imparzialità e di efficacia.
La gravità dei fatti accertati aveva indotto la Sezione di controllo a dare "formale avviso" al Ministro secondo la procedura prevista dall'art. 15 del t.u. 1214/34. Questa procedura, già prevista dalla legge istitutiva della Corte (art. 17 legge 14 agosto 1862, n. 800), è riservata alle situazioni di gravi irregolarità e devianza dai principi di sana amministrazione delle gestioni svolte dai Ministeri.
In particolare , l’avviso riguardava l’anomalo protrarsi della speciale disciplina inerente agli organi consultivi, anche alla luce della intervenuta “entificazione” delle istituzioni scolastiche.
L’allegato D3, per quel che riguarda le sanzioni, e l’allegato B, per ciò che riguarda la tempistica, dimostrano che la situazione attuale non è migliorata rispetto a quella gravemente censurata con la precedente delibera n. 25/2001.
Su un campione di 47 condanne passate in giudicato per reati di questa natura la certezza della espulsione dalla amministrazione, se non addirittura dal solo insegnamento, si ha solo nel 50% dei casi (la percentuale sarebbe peggiore se non vi fossero casi di dimissioni volontarie dal servizio).
Sugli effetti combinati dei tempi della giustizia penale e dei ritardi disciplinari può essere paradigmatica la vicenda del dipendente SCAB, docente di educazione fisica, il quale, per fatti risalenti al lontano 1992, ha subito una sanzione di sospensione di mesi sei al termine del secondo semestre del 2004 (dal 25/5/2004 al 24/11/2004). La sanzione, pur benevola in relazione al reato commesso, è stata impugnata - sulla base soprattutto della sua tardività - davanti al Tribunale di Torre Annunziata – Sezione Lavoro in data 26/06/2004 . Il dipendente è stato condannato per il reato continuato di cui all’art. 521 comma 1 (atti di libidine violenti), in relazione all’art. 519, commi 1 e 2, numero 3, del c.p . Esaurite tutte le fasi di gravame da parte del ricorrente, la sentenza di condanna è divenuta definitiva in data 21/12/2002.
Nel frattempo, per oltre un decennio, il dipendente in questione ha continuato a svolgere, nella stessa scuola dove è stato commesso il reato, le funzioni di docente di educazione fisica. Il procedimento disciplinare, iniziato tempestivamente dalla Direzione Scolastica Regionale per la Campania, è stato poi inviato, secondo l’ordinamento più volte criticato da questa Corte, al CNPI; quest’ultimo ha lasciato trascorrere circa un anno, (andando così ampiamente oltre i termini consentiti) per esprimere il parere di irrogazione della sospensione di mesi sei.
Singolare il motivo del ritardo del CNPI, che sarebbe imputabile ad una richiesta consultiva in ordine alla applicabilità della legge 97/01 al caso di specie.
E’ singolare, altresì, il fatto che il parere sia stato richiesto (da un organo a sua volta consultivo) ad oltre due anni dall’uscita della legge in questione su una fattispecie, quella in esame, non rientrante nell’ambito di applicazione della legge 97/01 (non essendovi compreso il reato di cui all’art. 519, commi 1 e 2 numero 3, del c.p. – violenza carnale su minori).
Il modo lento, macchinoso e talvolta contraddittorio con il quale vengono gestite queste vicende non può che assicurare effetti paradossali: applicazione della sanzione a lunghissima distanza dalla commissione del fatto, quando la stessa personalità dell’incolpato può essere profondamente mutata; incongruenza della sanzione; incongruenza della permanenza in servizio per un lunghissimo periodo. In questi casi la sanzione assume un profilo meramente formale. Essa, infatti, se non soddisfa certamente l’interesse pubblico di allontanare tempestivamente dal servizio una persona oggettivamente pericolosa, non accontenta, in fondo, neppure l’incolpato, il quale, dopo circa dodici anni di totale impunità disciplinare, si vede applicata una sanzione per fatti quasi dimenticati.
La discrezionalità disciplinare, sconfinante sovente nell’arbitrio, almeno nel settore scolastico, si evidenzia anche con meccanismi diversi da quelli facenti capo al CNPI.
Nel caso del dipendente SSCG, appartenente ai ruoli ATA, l’effetto vanificatore di qualsiasi esercizio disciplinare si concreta attraverso il comportamento del dirigente del CSA di Trapani. Il dipendente in questione, infatti, è stato condannato alla pena di anni uno e mesi tre di reclusione e all’interdizione dai pubblici uffici per la durata della pena inflitta (cfr. sentenza del Tribunale di Marsala dell’8/10/2001, confermata dalla Corte di Appello di Palermo in data 23/01/2003 e dalla Corte Suprema di Cassazione in data 18/12/2003) perchè riconosciuto colpevole dei reati di violenza sessuale su minorenne, aggravata dalle ragioni di vigilanza e custodia e continuata, e di violenza privata .
Per un fatto criminoso di assoluta gravità il Dirigente del Centro Servizi Amministrativi di Trapani ha applicato la risibile sanzione della sospensione dal servizio per 10 giorni, a fronte di una pena edittale del contratto collettivo consistente nel licenziamento .
In alcuni casi l’incompletezza dei dati forniti e il perdurante silenzio dei CSA interessati induce a ritenere che alla condanna non abbiano fatto seguito sanzioni.
E’ il caso, ad esempio del condannato SPUC, in ordine al quale la reticenza telefonica dell’Ufficio Scolastico Regionale per la Puglia e la mancata risposta alla nota istruttoria n. 293 del 10/02/2006 di questa Corte, lasciava intendere che la permanenza in servizio dello stesso presentasse caratteri di anomalia. In effetti, una volta acquisita la risposta, completata con nota n. 1922 del 7 marzo 2006, è emerso che il dipendente in questione, condannato per violenza sessuale su tre minori di anni 14 nell’ambito della Scuola (a seguito di sentenza di patteggiamento del 5/06/2002), risulta effettivamente in servizio, dopo un periodo di sospensione obbligatoria e il successivo trasferimento ad un non meglio specificato “istituto di istruzione superiore”. In particolare, malgrado i reiterati solleciti, l’Amministrazione non aveva fornito notizie in merito all’eventuale apertura e conclusione del procedimento disciplinare . Solo a seguito del contraddittorio finale, culminato nel deferimento della presente relazione alla Sezione del controllo, l’Amministrazione è entrata nella determinazione di produrre i documenti sulla base dei quali è scaturita l’anomala situazione. Nella buona sostanza il CSA di Foggia ha ritenuto di applicare al caso di specie la risibile sanzione del rimprovero scritto. Assolutamente singolare per la sua intrinseca contraddittorietà e non corrispondenza a legge è la motivazione di tale provvedimento di cui si riporta significativo stralcio : “Accertato, per quanto riguarda il procedimento penale, che il patteggiamento è stato determinato dalla particolare esigenza dell’interessato di porre fine a una situazione di particolare disagio psicologico, senza alcuna ammissione di responsabilità; rilevato che per fatti analoghi e connessi alla vicenda giudiziaria conclusasi con la sentenza di patteggiamento, l’interessato ha ottenuto sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste; ritenuto che non possono essere attribuiti all’interessato fatti e comportamenti non provati in specie di giudizio penale;ritenuto, tuttavia, che gli stessi fatti hanno avuto una risonanza nell’ambiente scolastico con ripercussioni sul prestigio e decoro dell’istituzione, sulla base di comportamenti dell’interessato, che, a prescindere da ogni volontarietà, sono stati interpretati ed eccepiti come illeciti... p.q.m. al collaboratore scolastico SPUC ... è irrogata la sanzione disciplinare prevista dall’art. 90 lett b) del CCNL del 24/07/2003, consistente nel rimprovero scritto, quale si configura il presente provvedimento...”
In altra fattispecie, la pratica disciplinare di un condannato per atti di libidine violenti e atti osceni è stata automaticamente archiviata. Si tratta del dipendente STOB, condannato con sentenza patteggiata n. 239/98 del Tribunale penale di Firenze, alla pena di anni uno e mesi otto di reclusione (pena sospesa), perché riconosciuto colpevole di aver compiuto - nell’arco temporale 1990 – 1993 - numerosi atti di libidine violenti nei confronti di diverse alunne, dopo averle convocate nell’ufficio di presidenza del Liceo, in qualità vice preside, ovvero nella pubblica via, all’interno di una autovettura.
Sulla base di tale sentenza, divenuta definitiva il 21.4.98 e pervenuta all’ex Provveditorato agli studi di Firenze solamente il 7/2/01, veniva instaurato il procedimento disciplinare, contestando al docente le gravissime violazioni ai doveri d’ufficio, già oggetto del giudicato penale.
Il procedimento in parola, tuttavia, si è concluso con la determinazione di archiviazione del 27.4.01, assunta autonomamente dal Provveditore, senza richiedere il parere del competente organo collegiale consultivo , la quale “…trova fondamento, preliminarmente, nel notevole lasso di tempo che è ormai trascorso dalle circostanze che diedero luogo al procedimento penale, con la conseguenza che la continuazione dell’azione disciplinare stravolgerebbe le finalità che sono connaturate all’istituto. Si deve, inoltre, dare atto della considerazione che meritano le attestazioni e l’apprezzamento per il particolare e notevole impegno profuso in questi anni come collaboratore del capo d’Istituto e responsabile dei vari settori del Liceo”.
In alcuni casi si intuisce come l’apparato amministrativo deputato ad esercitare l’azione disciplinare nelle scuole anteponga gli interessi del condannato a quelli dell’Amministrazione e della utenza. E’ il caso del dipendente SLGB: a fronte di una condanna per il reato di atti osceni (art. 527 c.p.) intervenuta nel 2003, il procedimento disciplinare non risulta ancora definito alla data del 30 gennaio 2006. L’Ufficio Scolastico Regionale della Liguria, interpellato da questa Corte, ha precisato che, ad oggi, non ha ancora ricevuto il prescritto parere dell’Organo Consultivo nazionale. Peraltro la stessa amministrazione ha informato che il docente cesserà dal servizio, per dimissioni volontarie, il 1° settembre 2006. In tal modo la sua situazione pensionistica sarà salvaguardata ma, nel lungo arco temporale intercorso tra la comunicazione del reato ad oggi, egli è rimasto impunemente nell’esercizio delle proprie funzioni.
Altre due archiviazioni riguardano personale transitato in quiescenza. In alcuni casi è proprio la volontà del condannato di uscire di scena senza clamori a risolvere il problema piuttosto che il traballante meccanismo disciplinare, messo in piedi dall’amministrazione.
Casi gravissimi di reati sessuali con minorenni hanno quale esito sospensioni dal lavoro oscillanti tra un giorno e 10 giorni.
Emblematico il caso del dipendente SCAH, “graziato” da una sospensione per 10 giorni dopo una condanna per atti sessuali con minorenni e successivamente licenziato per altra condanna penale per sequestro di persona (art. 605 c.p.). Anche il caso di questo dipendente dimostra la inadeguatezza del sistema disciplinare nel suo complesso normativo ed applicativo: colpevole di due reati assolutamente incompatibili con la permanenza nell’amministrazione, ed in particolare nella Scuola, dopo aver evitato, grazie alla clemenza disciplinare, il primo licenziamento ed essere inevitabilmente incorso nel secondo, ha formulato, durante un periodo intermedio di sospensione cautelare dal servizio, una domanda di pensione privilegiata di inabilità .
L’ Amministrazione, avendo applicato la sanzione del licenziamento con decorrenza dalla data di inizio della sospensione cautelare, ha ritenuto inammissibile la domanda del dipendente, ma il giudice del lavoro, adito dal dipendente con provvedimento cautelare ex art. 700 c.p.c. , ha ordinato all’Amministrazione “di proseguire l’iter per l’assegnazione della pensione di inabilità al ricorrente ex art. 2, comma 12, della legge n. 335/95 ”.
Altra fattispecie rappresentativa dei fenomeni disfunzionali, accertati nel corso della presente indagine, è quella relativa al professore SCAE condannato per il reato di “pubblicazione e spettacoli osceni (art. 528 c.p.) . Il successivo procedimento disciplinare si conclude in data 30/4/2003 con la sanzione della sospensione dall’insegnamento per mesi 4, giusto il parere del Consiglio Disciplina per il personale docente reso nell’adunanza del 15/1/2003. Singolare la misura di prevenzione adottata, consistente nel trasferimento dall’Istituto tecnico femminile, in cui prestava servizio al momento della commissione del reato, ad un liceo scientifico.
La clemenza disciplinare adottata ha comportato che, per il lungo periodo di sospensione cautelare patito, il dipendente ha percepito emolumenti arretrati, interessi legali, ricostruzione della posizione di carriera, contributiva e previdenziale .
L’immagine della Scuola e la coerenza dei comportamenti non sembra essere al centro delle valutazioni disciplinari, neppure quando la commissione degli illeciti riguarda i vertici delle istituzioni scolastiche: nel caso della Preside SLOC, già censurata con sanzione della sospensione dall’ufficio per 30 giorni , per la recidiva, esitata in condanna penale irrevocabile per peculato, truffa, abuso d’ufficio e falsità ideologica, si è ritenuto di applicare una nuova sanzione disciplinare di 31 giorni su conforme parere del Consiglio di disciplina per il personale direttivo, il quale ha, per i meccanismi vincolanti già illustrati, precluso una misura più adeguata .
Il più coerente esito dei gravi reati accertati risulta inevitabilmente quello di natura “non disciplinare”, consistente nella pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici (anche se la presente indagine ha messo in evidenza casi di mancato rispetto della interdizione).
Permane l’anomala sanzione, tipica del solo universo scolastico, consistente nella sospensione dall’insegnamento e utilizzazione in compiti diversi, caratterizzata dalla salvaguardia, non solo del maturato economico ma anche della pari dignità di qualifica . In tal modo accade talvolta che si debbano “creare” posti ad hoc oppure che il trasferimento ad altra mansione non escluda il contatto con minorenni, come, ad esempio, la preposizione ad una biblioteca scolastica.
Così il dipendente SSCC, condannato per atti sessuali con minorenni, è stato collocato fuori ruolo nel CSA di Caltanisetta, per evitare il contatto con gli alunni. SVEE, condannato per violenza sessuale e atti sessuali con minorenni, è stato trasferito al CSA di Vicenza: è opportuno segnalare come il trasferimento in un posto di organico, rappresenti un sostanziale scavalcamento nei confronti di dipendenti incensurati, potenzialmente aspiranti allo stesso posto
In definitiva il contesto fortemente patologico è riconducibile, dal punto di vista causale, sia alle norme che regolano la Pubblica Istruzione, sia ai comportamenti adottati dagli organismi amministrativi della Scuola. A tal proposito occorre ricordare come buona parte delle strutture scolastiche preposte all'esercizio della funzione disciplinare non siano munite di personale specializzato e presentino archivi gravemente deficitari. E non potrebbe essere altrimenti, considerate le eterogenee funzioni svolte dai funzionari, solo parzialmente dedicati all’esercizio della funzione disciplinare e raramente in grado di seguire l’evoluzione normativa e giurisprudenziale della materia .
Questo stato di cose favorisce indubbiamente i condannati (che lucrano sanzioni molto tenui, scadenze di termini, se non, addirittura, la mancata apertura dei procedimenti disciplinari) e induce a ripensare integralmente la funzione disciplinare nella Scuola, se del caso concentrandola in organismi tecnici snelli e neutrali, capaci di assicurarne la effettività.
Vi sono, però, dei casi in cui la produzione di esiti aberranti è imputabile proprio alle anfibologie del sistema normativo e degli indirizzi giurisprudenziali.
E’ questa la ipotesi che ha comportato un grave allarme sociale in un istituto scolastico, salito all’evidenza mediatica per un gravissimo caso di pedofilia e di violenza sessuale: un bidello è stato condannato con sentenza irrevocabile ex art. 444 c.p. resa dal Tribunale di Roma – Giudice per l’udienza preliminare in data 4/06/2002, perchè riconosciuto colpevole dei reati di favoreggiamento della prostituzione e pornografia .
La sentenza, comportante la pena (sospesa) di anni uno e mesi sei di reclusione, è stata inviata all’amministrazione ben sei mesi dopo il suo passaggio in giudicato. L’amministrazione, sulla quale questa Corte ha esercitato un controllo concomitante a far data dalla scoperta del grave crimine, applicava al condannato la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso , con decorrenza 21/5/01 (data di decorrenza della sospensione obbligatoria). Successivamente il dipendente ricorreva al Tribunale di Roma – Sezione lavoro 4° - il quale, con sentenza del 1.07.04, disponeva l’annullamento del licenziamento e ordinava all’amministrazione la riassunzione del ricorrente in servizio con decorrenza 21/5/2001 (data della sospensione dal servizio), nonché il ripristino del trattamento economico spettante al ricorrente da tale data , oltre agli accessori per legge. La singolare sentenza merita di essere ripresa in nota perché non in sintonia con le disposizioni introdotte dalla legge n. 97/01 sul valore del patteggiamento ex art. 444 c.p.p. .
Avverso la stessa, l’Avvocatura Generale dello Stato ha proposto appello , come richiesto dall’Ufficio Scolastico interessato.
Il dipendente, lucrati i consistenti benefici disposti dalla sentenza, si è dimesso volontariamente dal servizio in data 1/09/2005, dopo il congruo periodo di riammissione in servizio.
Probabilmente – come nel caso di altri condannati per gravi reati – appaiono più dissuasive, ai fini della permanenza in servizio, le pressioni ambientali dei superiori, dei colleghi e degli utenti del servizio, offesi da esiti così irragionevoli, che i meccanismi preventivi e repressivi predisposti dal sistema.
La vicenda, punta emergente di un consistente blocco di situazioni sommerse di analogo tenore, pone in luce, probabilmente, anche le ambiguità della cosiddetta privatizzazione del rapporto di impiego. L’attribuzione al giudice del lavoro di questioni così complesse che incidono in modo forte, sia pure indiretto, sulla amministrazione della cosa pubblica e sulla qualità dei servizi, comporta – a ben vedere – un implicito richiamo a subordinare l’interesse pubblico a quello del lavoratore al mantenimento del posto. Quasi che la concezione dell’amministrazione sia evoluta nel senso di luogo di rieducazione del condannato.

6.4 . Modifiche normative introdotte dal Parlamento su profili critici segnalati da questa Corte
Le disfunzioni in tema di permanenza del personale condannato per reati sessuali e di pedofilia nella scuola, segnalate, tra l’altro, da questa Corte con rapporti inviati al Parlamento con delibere n. 4/96 e n. 25/01, hanno indotto quest’ultimo ad adottare specifiche misure normative nella recente legge n. 38 del 6/02/2006, avente ad oggetto “Disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo INTERNET”.
La legge in questione, dispone all’art. 5, che l’art. 600 septies del c.p. sia emendato con l’aggiunta, in fine, del seguente comma: “ La condanna o l’applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale per uno dei delitti di cui al primo comma comporta in ogni caso l’interdizione perpetua da qualunque incarico nelle scuole di ogni ordine e grado, nonché da ogni ufficio o servizio in istituzioni o strutture pubbliche o private frequentate prevalentemente da minori”. Analogamente dispone l’art. 8, comma 1, lettera c, nei riguardi dell’articolo 609 nonies: “La condanna o l’applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per alcuno dei delitti previsti dagli articoli 609 bis , 609 ter e 609 octies, se commessi nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni diciotto, 609 quater e 609 quinquies, comporta in ogni caso l’interdizione perpetua da qualunque incarico nelle scuole di ogni ordine e grado nonché da ogni ufficio o servizio in istituzioni o in altre strutture pubbliche o private frequentate prevalentemente da minori.”
La valutazione del legislatore appare secca e indefettibile, sancendo l’assoluta incompatibilità della permanenza dei colpevoli dei reati collegati alla sfera sessuale nelle scuole di ogni ordine e grado.
Pur essendo le esposte norme assolutamente coerenti con le finalità di tutela dei minori, appare opportuno formulare, in ordine alla loro configurazione, alcune osservazioni di carattere tecnico:
• esse vanno ad implementare le norme di carattere speciale e particolare, che frammentano il sistema di garanzie a tutela della collettività, aumentando le variabili del sistema penale che già allo stato attuale i funzionari degli uffici del personale e della disciplina faticano a metabolizzare;
• nella scuola la norma potrebbe essere aggirata attraverso l’attribuzione alle diverse mansioni previste dall’art. 496 del d.l.vo 16/4/1994 n. 297, che viene liberamente interpretato, per cui luoghi come la biblioteca o la segreteria degli istituti scolastici sono stati in passato ritenuti idonei a prevenire il pericolo di un nuovo contatto con i minori;
• è assai difficile, stante l’attuale disciplina della recidiva e l’interferenza delle norme in tema di privacy, istituire una banca dati idonea ad interdire le molteplici soluzioni pratiche, oggi disponibili e ampiamente illustrate nella relazione, per accedere abusivamente alle istituzioni scolastiche;
• in ogni caso per garantire un coerente perseguimento degli obiettivi della nuova legge, appare opportuno che il sistema venga armonizzato attraverso la espressa abrogazione delle norme contenute nel d.lvo.n. 297/94 citato e che siano prescritte direttive vincolanti agli uffici competenti, affinché gli strumenti disciplinari siano utilizzati in modo rigoroso e definitivo, verso i condannati per tali illeciti, nei casi in cui la pena accessoria non sia ancora comminabile dal giudice penale, per i noti meccanismi dello ius superveniens nel diritto penale.

6.5 In particolare delle pene accessorie
In questo articolato contesto applicativo delle sanzioni disciplinari, l’istituto della pena accessoria, automatico nei suoi effetti verso il condannato, appare molto più efficace e caratterizzato da effettività rispetto alla dispendiosa funzione disciplinare.
Come già evidenziato nelle premesse alla presente relazione, la legge n. 97/2001 ha introdotto, quale pena accessoria per i reati più gravi contro la pubblica amministrazione, l’estinzione del rapporto di impiego.
A seguito delle sentenze della Corte Costituzionale, che hanno determinato la irretroattività della suddetta legge per i fatti ad essa antecedenti, non è stato possibile trarre valutazioni univoche sulle prassi applicative di questo istituto, seguite nell’ambito delle diverse amministrazioni.
La lentezza del processo penale ha determinato, infatti, la conclusione di pochissime vicende successive all’entrata in vigore della legge.
Valutazioni più coerenti possono, invece, essere sviluppate con riguardo alla pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici, sia per quanto concerne quella temporanea che quella perpetua.
Queste pene, riservate ai reati più gravi, paralizzano alla radice quei meccanismi autoreferenziali che, in ambito amministrativo e/o sindacale, conducono alla vanificazione di molti provvedimenti disciplinari.
Ciò nondimeno, la diffusa prassi di clemenza nei confronti dei condannati ha fatto sorgere dubbi e perplessità anche sul carattere indefettibile della interdizione: ciò sulla base di alcuni tipi di provvedimento adottati dai Tribunali di sorveglianza. In particolare, il Tribunale di sorveglianza di Milano ha accolto l’istanza di affidamento in prova ai servizi sociali di un condannato per concussione, sulla base della circostanza che lo stesso, sebbene condannato in via definitiva a pena accessoria di interdizione temporanea, continuava a prestare servizio presso il Ministero delle infrastrutture e trasporti.
In realtà il dipendente in questione esercitava detta prerogativa non sulla base di esplicito assenso dell’amministrazione, ma in virtù della pendenza del ricorso in Cassazione, poi respinto. La singolare motivazione del giudice di sorveglianza prendeva, in realtà, spunto da una situazione amministrativa, ispirata dalla pendenza del giudizio e non da una valutazione nel merito, peraltro preclusa all’amministrazione dalla natura giurisdizionale della fattispecie sanzionatoria.
Questo problematico “corto circuito” nel rapporto tra funzione penale e disciplinare è stato risolto per effetto della attività istruttoria di questa Corte (inerente alla presente indagine), che ha individuato l’anomalo protrarsi della permanenza in servizio di tre dipendenti del Ministero delle infrastrutture e trasporti , condannati con sentenza passata in giudicato, con la applicazione della interdizione temporanea dai pubblici uffici.
Successivamente la stessa Procura Generale della Repubblica di Milano ha avuto modo di pronunciarsi sulle fattispecie intercettate dalla Corte dei conti, precisando che la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici deve essere eseguita dopo l’espiazione della pena principale nel regime di affidamento in prova ai servizi sociali.
Questa chiara pronuncia consente una applicazione effettivamente sanzionatoria nei confronti di condannati per reati particolarmente “odiosi”.
Considerato che in tal modo l’allontanamento dal servizio viene determinato dalla somma dei periodi di espiazione della pena con quello della interdizione, il quale – com’è noto – ha una durata oscillante da 1 a 5 anni, nonché della eventuale sanzione disciplinare, ben può dirsi che alla effettività della sanzione giurisdizionale si somma il carattere della gradualità, assicurandosi così quella funzione di prevenzione ed espiazione, ormai assente nei giudizi disciplinari che applicano pene diverse dal licenziamento (essendo, infatti, la pena immediatamente successiva limitata a sei mesi di sospensione dal servizio).
Va comunque richiamata, per l’ennesima volta, la necessità di sanzionare con apposita norma l’omissione, da parte delle cancellerie penali, degli obblighi di informazione nei confronti delle amministrazioni pubbliche di appartenenza dei condannati.
Anche la presente indagine, infatti, al pari delle precedenti, ha messo in luce ipotesi di tardiva od omessa comunicazione, che hanno in tutto o in parte vanificato l’applicazione della pena accessoria penale nelle amministrazioni di appartenenza dei condannati.

7. Difficoltà emergenti anche in altri settori della amministrazione pubblica
Come già rilevato in passi precedenti della presente relazione, la legge n. 97/01 pone al centro della attenzione quei settori della amministrazione pubblica come gli enti economici e le società partecipate, ove le dimensioni economiche delle gestioni e le occasioni di malversazione delle risorse pubbliche espongono l’erario a maggiori pericoli.
Più in generale si è avuto modo di sottolineare come le ipotesi di malaffare amministrativo si diffondano piuttosto negli enti di base, come gli enti locali, preposti alla gestione di servizi e di consistenti risorse piuttosto che in apparati, come quello statale, in prevalenza dedicati alla regolazione ed ad affari di carattere né economico, né industriale.
Proprio in quei settori si sviluppano i poteri più insidiosi, a fronte di meccanismi disciplinari ancora più farraginosi e lenti di quelli dell’apparato statale (il quale, tra l’altro, ha subito, nell’ultimo decennio, il controllo, in qualche modo stimolante, di questa Corte).
Anche dall’esame della giurisprudenza contabile (cfr. in proposito, la sentenza Sezione giurisdizionale per la Regione Calabria, n. 557/03 ), compare un quadro di forti rischi e incertezze dovuti alla frequente assenza di regolamenti e uffici disciplinari e dalla capacità interdittiva delle Organizzazioni sindacali, estrinsecantesi, tra l’altro, nella tardiva o mancata nomina del rappresentante da inserire nella commissione di disciplina.
Tutto ciò, unito alla particolarità delle situazioni ambientali e ai fenomeni autoreferenziali dell’Amministrazione – anche in considerazione della assenza di controlli esterni – genera meccanismi di impunità più ampi e pericolosi che nella amministrazione statale.
Le considerazioni espresse a consuntivo della presente indagine possono pertanto essere riferite ad uno scenario più ampio di quello statale, delineando rischi e pericoli molto più vasti di quelli accertati in questa sede.

8. Impatto della attività di controllo sulla gestione della funzione disciplinare
In un quadro complessivamente negativo è tuttavia da segnalare come le precedenti indagini di questa Corte e la istruttoria in corso hanno pur prodotto dei risultati sulle linee programmatiche dell’esercizio della funzione disciplinare da parte di alcune amministrazioni.
Tra queste mette conto ricordare la “direttiva in materia di procedimenti disciplinari” emanata dal Ministro delle Infrastrutture e Trasporti n. 2051/P/FF del 27 dicembre 2005, la quale ha il pregio di inserire la funzione tra i profili strategici dell’amministrazione in discorso e di proporre rimedi, dando dimostrazione di consapevolezza delle patologie gestionali, già individuate dalla Corte e sottoposte a critica nella presente relazione. Significativi risultano nella evocata direttiva i seguenti profili:
• necessità di criteri uniformi nella assunzione delle decisioni sanzionatorie, ponendo fine a prassi disomogenee, che – nel caso del Ministero – originano anche dalla fusione – recentemente avvenuta – tra il Ministero dei lavori pubblici e quello dei trasporti;
• concentrazione della funzione in unico ufficio, la Direzione generale del personale per favorire la necessaria uniformità di giudizio. Ciò con particolare riguardo alla gestione delle misure cautelari, che spesso influenzano non solo gli esiti disciplinari ma anche conseguenze economiche non indifferenti per l’amministrazione. E’ evidente la diversa consapevolezza, da parte del Ministero delle infrastrutture e trasporti, dei problemi afferenti alla uniformità di giudizio rispetto ad altri apparati, come gli istituti scolastici, ove frammentazione ed estemporaneità dei giudizi assumono carattere ricorrente;
• attenzione assoluta agli elementi motivazionali delle decisioni in materia cautelare. E’ interessante il severo richiamo a criteri proporzionati al livello gerarchico dell’incolpato, tenendo conto del grado di intensità della rappresentanza organica dell’amministrazione. Particolarmente opportuno è il richiamo ad un principio enunciato da questa Corte, fin dalla deliberazione Sezione Centrale del Controllo sulla Gestione n. 4/96 e largamente disatteso dalla maggior parte delle amministrazioni assoggettate alla presente indagine, secondo cui è sempre necessario formalizzare la decisione di sospendere, ancorché negativa, dando coerente ed espressa articolazione al “giudizio prognostico di bilanciamento dell’interesse pubblico alla permanenza in servizio con il pregiudizio, che ne possa derivare all’attività e all’immagine dell’amministrazione”;
• il riconoscimento che “in presenza di reati quali la concussione e la corruzione, che obiettivamente si caratterizzano per la particolare gravità della lesione che da essa consegue per la pubblica amministrazione., la sanzione espulsiva costituisce una misura che, per quanto traumatica sul piano individuale, ha, sul piano dell’interesse pubblico, un carattere di sostanziale normalità”. Sul punto si ritiene opportuno evidenziare come più che di normalità devesi parlare di sanzione edittale con riguardo al sistema antecedente alla legge n. 97/01 (tale la previsione del contratto collettivo di lavoro) e di pena accessoria o di esito naturale del procedimento disciplinare, a seconda che la condanna alla reclusione sia o meno superiore a tre anni, dopo l’emanazione della predetta legge n. 97/01;
• il riconoscimento di linea-guida al principio affermato da questa Corte nella delibera della Sezione Centrale di controllo successivo n. 25/01/G secondo cui la valutazione di incompatibilità dei fatti accertati a carico del dipendente in sede penale con la permanenza in servizio pertiene alla Amministrazione e non può essere oggetto di disposizione tra le parti, attraverso istituti come l’arbitrato e la conciliazione. La direttiva del Ministro, ritiene tale principio opinato in dottrina ma certamente condivisibile e applicabile dalla amministrazione, attraverso la prescrizione ai propri dirigenti di una valutazione inerente alla compatibilità del mantenimento in servizio, pregiudiziale alla eventuale adozione di questi strumenti conciliativi. Pur condividendosi, in linea di massima, il punto di vista tecnico-amministrativo dell’Amministrazione, va evidenziato che la soluzione non può riguardare le ipotesi di estinzione della legge n. 97/01. Per quanto riguarda la sanzione di estinzione del rapporto, infatti, nessuno spazio può essere consentito, anche in astratto, ad ipotesi conciliative. Negli altri casi è opportuno richiamare l’art. 6, comma 2, del contratto collettivo nazionale quadro in materia di procedure di conciliazione ed arbitrato ai sensi degli artt. 59-bis, 69 e 69 bis del D.Lgs. n. 29/1993 nonché dell'art. 412-ter c.p.c., sottoscritto in data 23 gennaio 2001 (“In via sperimentale e fino alla scadenza del presente accordo, la richiesta di ricorso all'arbitro unico è vincolante per la pubblica amministrazione., salvo che l'impugnazione abbia per oggetto una sanzione risolutiva del rapporto”), dal quale si deduce la non obbligatorietà della procedura negoziata in materia di impugnazione delle sanzioni espulsive. In definitiva dallo stesso quadro normativo si evince che il giudizio ponderato tra la compatibilità della condotta con la permanenza e l’interesse del condannato al mantenimento del posto è propedeutica e vincolante rispetto alla eventuale accettazione dello arbitrato o della conciliazione sulla controversia da parte dell’amministrazione;
• l’accuratezza tecnica nel difendere, anche in sede di arbitrato e conciliazione, le decisioni sanzionatorie impugnate, se del caso ricorrendo contro pronunce esageratamente benevole nei confronti dell’incolpato;
• la estrema cura nel perseguire i risarcimenti nei confronti dei colpevoli di illecito, che hanno danneggiato, a vario titolo, l’amministrazione.
Un punto fondamentale toccato dalla direttiva riguarda i comportamenti deontologicamente scorretti dei dirigenti. Questa ricorda correttamente come “il sistema delle disposizioni legislative e contrattuali relative ai dirigenti in materia disciplinare prevede la sola misura cautelare (sospensione o trasferimento), mentre non prevede espressamente la obbligatorietà del procedimento disciplinare” ed esprime l’esigenza, pur in assenza di sanzioni diverse dal licenziamento, di una graduazione delle misure con riguardo alla diversa gravità dei comportamenti. Ad avviso della Corte la commissione di illeciti penali da parte dei dirigenti produce un irreparabile pregiudizio al rapporto di investitura fiduciaria, sancito dalla vigente normativa in materia di dirigenza, tale da comportare, di regola, il licenziamento del dirigente stesso.
Tra le direttive emanate a seguito dei reiterati solleciti di questa Corte sono da sottolineare, per organicità e sistematicità, quelle emanate dall’Agenzia delle dogane . In esse viene affrontato il problema dei rapporti tra le diverse misure di carattere cautelare disposte dalla legge n. 97/01, individuando parametri di valutazione nella scelta delle alternative consentite dalla legge .
Di rilievo anche la indicazione, rivolta agli uffici competenti, per ciò che concerne il personale avente qualifica dirigenziale resosi responsabile di gravi illeciti: in questi casi si evidenzia l’opportunità di procedere al recesso dal rapporto di lavoro. In merito al menzionato argomento si richiamano le valutazioni espresse in ordine alla direttiva di analogo tenore del Ministero delle infrastrutture e trasporti n. 2051/P/FF del 27 dicembre 2005.
E’ da sottolineare come una delle direttive emanate dall’Agenzia si occupi di disporre, anche in pendenza del procedimento penale, “apposita indagine amministrativa finalizzata all’accertamento di eventuali danni all’erario per effetto delle condotte attribuite al dipendente inquisito; ciò, ovviamente, al fine di acquisire i necessari elementi di valutazione per l’eventuale adozione dei provvedimenti previsti a tutela degli interessi erariali (denuncia alla Corte dei conti e costituzione in mora del dipendente interessato, costituzione di parte civile nel procedimento penale)”.
Tale profilo appare particolarmente importante alla luce del fenomeno accertato nel corso della presente indagine, previo riscontro sulle scritture di bilancio dell’esercizio 2005, di gravi carenze nel recupero danni nei confronti dei rei di gravi reati (cfr. sul punto paragrafo 10). Anche alla luce della precisa indicazione della direttiva si ricava la preoccupazione di fronteggiare la tendenza, in sede amministrativa, a disinteressarsi dell’intera vicenda illecita, una volta che la stessa sia transitata nelle mani del giudice penale.

9. Esigenza di vigilanza sistematica sui fenomeni di natura penale e disciplinare nelle amministrazioni pubbliche
La presente indagine ha confermato e approfondito una serie di disfunzioni sistemiche, già accertate in precedenza, ma acuitesi, attraverso scenari amministrativi e normativi sempre più incerti e problematici.
Il primo fenomeno di palmare evidenza è una frammentazione di uffici e di funzioni che mal si conciliano con la esigenza di forme certe e predeterminate, connaturate ai sistemi sanzionatori.
A questa frammentazione si accompagna la eterogeneità degli interessi collegati all’esercizio della funzione disciplinare: alla tradizionale ponderazione tra gli interessi generali consistenti nella tutela dell’immagine e del buon andamento della amministrazione e quelli dell’incolpato ad avere una sanzione equa e proporzionata, si è sostituito un sistema dominato dalla pregiudiziale penale, dai tempi della giustizia penale, dalla contrattazione collettiva, dalla logica arbitrale e conciliativa, da una normazione incerta e frammentaria, spesso rimodulata dalla giurisprudenza costituzionale ed amministrativa.
Questo nuovo contesto, così soggetto a variabili tra loro indipendenti, ha prostrato una amministrazione, già strutturalmente debole: i funzionari preposti hanno perduto motivazione e professionalità o sono transitati ad incarichi più coinvolgenti.
I superstiti si sono attestati su linee di mediazione per evitare che la loro intrinseca debolezza li esponga a soccombenze giudiziarie e ad azioni di rivalsa dei condannati. Si è così creato un singolare capovolgimento dei ruoli: condannati sempre più consapevoli dei propri diritti “formali” e uffici di disciplina attestati su posizioni difensive e di cautela, soprattutto nelle fattispecie (e sono molte) inficiate da errori o mancato rispetto dei termini.
Questi fenomeni ingenerano conseguenze inevitabili: atteggiamenti diffusi di clemenza e acquiescenza alle decisioni dei giudici di merito e dei collegi arbitrali, anche le più singolari; tendenza a negoziare nel modo più vantaggioso per l’incolpato, sanando attraverso la sua interessata acquiescenza, gli errori e il superamento dei termini tassativi.
Senza dire di alcune fattispecie in cui il comportamento delle amministrazioni sembra oggettivamente preordinato a generare motivi di impugnazione per il condannato.
Questo sistema dispendioso e farraginoso sembra giunto ad un fisiologico capolinea: se il legislatore intende valorizzare la funzione disciplinare, come emerso nelle ultime leggi finanziarie, deve concepire una profonda riorganizzazione della materia; in caso contrario sembra più opportuno puntare sul sistema delle pene accessorie ai reati, abbandonando aspettative che gli attuali esiti disciplinari contraddicono.
Alla luce delle risultanze delle indagini della Corte, succedutesi nell’ultimo decennio, alcune considerazioni sorgono dalla oggettiva osservazione dei fatti accertati:
- necessità di separare la gestione disciplinare delle fattispecie “minime” da quelle concretatesi in gravi illeciti. Per le prime appaiono adeguati istituti deflattivi come la conciliazione, per i secondi occorre riservare alla legge e alla Amministrazione una valutazione unilaterale, fondata sulla corretta ponderazione degli interessi pubblici e privati in gioco;
- tale valutazione, per essere effettiva e non declamata, deve essere gestita da soggetti autorevoli e in posizione di assoluta terzietà, rispetto alle pressioni ambientali che si sviluppano;
- considerato che apparati terzi, autorevoli e specializzati, comportano costi e ricerca di professionalità non indifferenti, una tale soluzione sembra incompatibile con la attuale atomizzazione di competenze in sede disciplinare. Ne deriva l’esigenza di concentrare i funzionari a ciò deputati in poche strutture specializzate e munite;
- peraltro, una radicale riorganizzazione della funzione disciplinare non sembra poter prescindere da un ripensamento della pregiudiziale penale. La lunghezza dei giudizi debilita di per sé la ratio iuris disciplinare; comprensibile nel vecchio regime di automaticità delle pene disciplinari, appare incongruente in un contesto ove il decorso del tempo pregiudica il sistema probatorio amministrativo e il significato della sanzione. Nei casi in cui l’Amministrazione può accertare direttamente la gravità dell’illecito disciplinare compiuto al suo interno, appare irragionevole sospendere qualsiasi valutazione e decisione in attesa di un esito penale, che può anche essere inservibile, dal punto di vista amministrativo;
- attraverso servizi ispettivi e sistemi di internal audit adeguati alla complessità dei fatti amministrativi contemporanei, i fenomeni di malaffare nella Amministrazione potrebbero essere colpiti e sanzionati direttamente, senza attendere passivamente la pronunzia dei giudici penali.

10. Evidenziazione contabile dei costi della funzione disciplinare e dei crediti per risarcimenti dovuti dai dipendenti
Le risultanze della indagine hanno confermato le gravi carenze, già precedentemente emerse, nella illustrazione contabile del fenomeno disciplinare.
In particolare si rende evidente, in quasi tutte le amministrazioni interessate, una netta scissione operativa ed organizzativa tra i centri decisionali deputati a gestire la funzione disciplinare e quelli preposti a curarne gli effetti, sotto il profilo finanziario contabile.
In tal modo gli uffici disciplinari tendono a perdere traccia delle conseguenze sui bilanci delle loro decisioni e i dirigenti delle tesorerie e delle ragionerie centrali gestiscono – rispettivamente per l’entrata e per la spesa - le partite contabili in modo meccanico, senza tenere conto delle peculiarità legate alle singole fattispecie.
L’allegato F sintetizza gli accertamenti effettuati nei confronti delle Amministrazioni dello Stato, indicate nello allegato A, riguardo alla esistenza, nelle pertinenti poste contabili, di una evidenziazione analitica dei crediti verso i condannati, per illeciti in danno delle amministrazioni, e dei pagamenti per assegni alimentari e retribuzione di periodi trascorsi in sospensione cautelare, a seguito di vicende penali, concluse con condanna.
Le amministrazioni non sono state in grado di presentare liste di carico relativamente a tali crediti, dando l’impressione, salvo ciò che si dirà successivamente sull’impianto della contabilità dello Stato, che i rimborsi affluiscono nelle casse erariali senza un piano e scadenze precise.
Per quel che concerne le Agenzie e le Istituzioni scolastiche, i pertinenti rimborsi sembrano ancora confluire nel bilancio dello Stato, anche se non risultano emanate disposizioni in proposito . In ogni caso, data la sua natura, questo genere di entrata andrebbe, a sua volta, evidenziato in appositi capitoli di entrata.
Sul versante della spesa, il prospetto F individua i capitoli ove vengono pagati assegni ed emolumenti relativi alle richiamate vicende disciplinari.
Anche in questi casi si tratta di capitoli sui quali sono imputate in modo indifferenziato spese ordinarie di personale ed emolumenti di analoga natura.
Uffici disciplina e centri decisionali in materia disciplinare non sono in grado di enucleare gli ordinativi relativi a questo tipo di spesa.
Dall’illustrato contenuto emergono, dunque, due criticità:
a) la prima riguarda i recuperi ed i risarcimenti collegati alla commissione degli illeciti;
b) la seconda afferisce alla evidenziazione di costi improduttivi per la amministrazione, considerato che assegni alimentari e rimborsi collegati a periodi di sospensione non costituiscono, dal punto di vista patrimoniale, partite attive, in grado di compensare gli esborsi finanziari a carico delle Amministrazioni e quindi non possono essere imputate, in contabilità economica, quali componenti dei costi del prodotto amministrativo.
Per ciò che riguarda i recuperi, è da sottolineare come nel bilancio dello Stato siano stati istituiti, per effetto del d.m.14 maggio 2001 , appositi capitoli di bilancio per ciascun ministero, relativamente ai danni erariali, conseguenti a pronunce della Corte.
Al contrario le condanne a risarcire l’amministrazione in sede penale e civile vengono riscosse in capitoli promiscui, ove risulta impossibile una loro analisi ed evidenziazione.
Peraltro la maggior parte delle amministrazioni, come emerge dall’allegato F, dichiarano il solo capitolo relativo alle condanne erariali, rimanendo completamente in un cono d’ombra la gestione dei crediti originati da sentenze penali e civili.
In alcuni casi le amministrazioni non sono state neppure in grado di individuare il capitolo relativo ai crediti erariali, rintracciato in modo autonomo nel corso della istruttoria.
I capitoli, relativi ai crediti originati da condanne della Corte, sono articolati in modo da distinguere le somme riscosse per via ordinaria (art. 1) da quelle riscosse per mezzo ruoli (art. 2).
In realtà, come risulta dalla relazione relativa al monitoraggio delle entrate del dicembre 2005, tenuto dall’Ufficio di Controllo sulla gestione dei Ministeri economico–finanziari di supporto a questa Sezione, le somme complessivamente riscosse attraverso i ruoli sono irrilevanti mentre di maggiore consistenza appaiono quelle riscosse in via diretta dal debitore.
Peraltro le richiamate partite di entrata seguono, come si evince dall’allegato F, un andamento contabile alquanto anomalo: quasi tutte presentano una previsione per memoria pari a 0, un accertamento a fine anno di rilevante consistenza ed una riscossione complessivamente inferiore al 10% .
Peraltro, all’interno di questo rapporto, si verificano notevoli disparità, che vanno dal 100% di alcune amministrazioni a percentuali ancora più basse del 10%. Inoltre, anche le percentuali del 100%, alla luce della loro intrinseca configurazione, non sembrano indicative di ottime performances realizzative quanto la mera sommatoria dei pagamenti ricevuti. E ciò evidenzia eterogeneità di criteri nella determinazione degli accertamenti.
Al quadro di scarsa chiarezza contabile si aggiunge che nessuna delle amministrazioni assoggettate alla presente indagine è stata in grado di precisare i criteri di riscossione ed eventualmente quelli di compilazione dei ruoli. Quest’ultimo profilo appare particolarmente grave, se si considera l’elevato tasso di evasione segnalato dall’ufficio della Corte, preposto al monitoraggio.
E’ peraltro da sottolineare come un esame degli ordinativi relativi ai capp. 3426, 3427, 3440, 3447, 3560 e 3570 abbia messo in evidenza come uno solo dei condannati, relativi alla presente indagine (SSDB), abbia effettivamente versato, nell’esercizio 2005, somme risarcitorie per l’illecito. Risultanza questa assai singolare se si riflette che i reati presi in considerazione dalla presente sono stati commessi nell’esercizio di funzioni o in connessione con esse.
Riassumendo le problematiche osservazioni, relative al profilo della riscossione dei crediti si può concludere che:
• i crediti originati da condanne del giudice contabile, le quali – è bene precisarlo – non provengono necessariamente dalla commissione di reati, sono evidenziati in appositi capitoli, dai quali, tuttavia, non è possibile individuare le modalità di stima, di accertamento e – soprattutto – le problematiche inerenti alle riscossioni;
• i crediti derivanti da sentenze in sede penale e civile finiscono in capitoli promiscui, ove è preclusa un’analisi, sia in ordine alle modalità di riscossione che alla loro stessa individuazione nel coacervo delle altri fonti di entrata. In alcuni casi le amministrazioni non prevedono neppure la possibilità di riscuotere tali somme;
• non è possibile rintracciare nella contabilità statale, salvo l’eccezione precedentemente richiamata, i crediti nei confronti dei condannati per reati commessi nell’esercizio della propria funzione, i quali tendenzialmente risultano i più idonei a produrre un danno patrimonialmente valutabile. Per questo motivo - indipendentemente dalle valutazioni del giudice penale e dalla eventuale promozione di un’azione civile da parte della pubblica amministrazione lesa – sussiste l’obbligo, in capo ai dirigenti competenti, della segnalazione prevista dall’art. 1 della legge n. 20/94, nei confronti delle procure regionali contabili. Le risultanze della analisi contabile sembrano confermare, a livello sintomatico, comportamenti atarassici dei funzionari preposti alla segnalazione, nei casi di pendenza o risoluzione del giudizio penale, originati dall’erronea convinzione che la amministrazione non abbia alcun ruolo in queste vicende. Quando la segnalazione non viene effettuata, i patologici meccanismi precedentemente descritti trasformano il dipendente infedele in creditore, anziché debitore della pubblica amministrazione.
Nell’attuale esposizione contabile dei costi del personale, queste situazioni sono del tutto oscurate, essendo assegni alimentari ed arretrati, per periodi di sospensione eccedenti la sanzione, confusi tra gli ordinari emolumenti del personale dipendente.
Ciò comporta la sostanziale deresponsabilizzazione dei centri decisionali in materia disciplinare, i quali in sede istruttoria confessano, in modo più o meno velato, il loro disinteresse per la gestione contabile e gli effetti patrimoniali delle loro decisioni .
In questo modo diventa arduo utilizzare anche uno strumento efficace quale la compensazione nei confronti del personale rimasto in servizio, pur dopo la commissione dell’illecito: infatti l’assenza di un unico centro decisionale fa si che la gestione delle partite creditorie e debitorie non sia affatto coordinata.
I modelli di rilevazione, che ogni direzione generale, gerente il personale, compila ed invia alle competenti ragionerie centrali, dovrebbero essere corredati – in modo riservato – da una sintetica analisi dello stato delle procedure disciplinari e degli effetti patrimoniali ad esse correlati. In particolare, per ogni dipendente sospeso o sottoposto a procedimento penale dovrebbero essere quantificati gli oneri finanziari e gli eventuali crediti maturati a seguito di condanne risarcitorie, nonché il richiamo alla eventuale segnalazione ex art. 1 della legge n.20/94.
Come per le ordinarie spese di personale, anche questo tipo di allegato dovrebbe essere strutturato per centri di responsabilità, in modo da evidenziare direttamente gli uffici titolari della gestione.
La reiterata inosservanza di questi profili di trasparenza contabile, già evidenziati dalla Corte nelle precedenti delibere della Sezione centrale di controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato , e la necessità di porre rimedio a questo deficit di informazioni, che spesso comporta negativi effetti patrimoniali ed organizzativi per l’amministrazione, inducono a ritenere che la fattispecie in esame sia inquadrabile nella previsione dell’art. 1, comma 171, della legge n.266/05.
Pertanto, la Sezione ravvisa la indefettibile necessità di invitare le amministrazioni dello Stato ad indicare, nelle note preliminari della spesa relativa al futuro bilancio di previsione 2007, le misure adottate per rimuovere le disfunzioni contabili evidenziate nel presente paragrafo.
Infatti, la specificazione di questa tipologia di spesa e la sua possibile correlazione con situazione creditorie, altrimenti disperse in partite di entrata anonime, si inquadra nel processo di analisi del costo del personale e dei fenomeni gestionali ad esso collegati, indispensabile in una corretta ottica di rendicontazione.

11. Il punto di vista delle Amministrazioni e le controdeduzioni della Corte dei conti
In ordine alla presente relazione è stato attivato – secondo le procedure della Sezione centrale del controllo – il contraddittorio con le Amministrazioni interessate all’indagine.
Queste ultime hanno presentato memorie scritte e svolto interventi orali secondo la analitica elencazione esposta nella delibera di approvazione del presente referto. Le richiamate memorie esprimono, nel loro complesso, una posizione sostanzialmente adesiva alle tesi prospettate nella relazione.
In ordine alle stesse, tuttavia, mette conto formulare ulteriori osservazioni per evidenziare e puntualizzare alcuni profili che sono stati ritenuti pregnanti dalle Amministrazioni intervenute.
Per ragioni di sintesi e chiarezza le osservazioni sono state raggruppate per argomenti. Esse possono essere così sintetizzate:
a) effetti negativi dei continui avvicendamenti della dirigenza nella materia disciplinare . Sul punto vengono corroborate da parte delle Amministrazioni le valutazioni contenute nella relazione. In effetti l’accentuarsi, negli ultimi anni, della mobilità dirigenziale danneggia settori come quello disciplinare, ove la conoscenza della materia e dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale costituiscono patrimonio indefettibile nella assunzione di decisioni rapide e corrette, di fronte ai complessi scenari che si presentano;
b) necessità della emanazione di un testo unico della materia disciplinare, in grado di risolvere le sperequazioni e le anfibologie presenti nell’attuale quadro normativo - giurisprudenziale . Le osservazioni delle Amministrazioni sono assolutamente confermative delle valutazioni espresse nella relazione sulla base della analisi di impatto ex-post della normativa sulle patologie gestionali accertate;
c) valutazione differenziata di fattispecie penali analoghe . Le Amministrazioni giustificano la assunzione di decisioni disciplinari differenziate in relazione agli stessi reati, rivendicando la facoltà di valutare le concrete fattispecie, in proporzione della gravità del reato e della personalità dell’incolpato. La Corte ritiene di ribadire, peraltro in sintonia con la diversa opinione di altre Amministrazioni intervenute, che i principi in questione, validi in linea astratta, tendono ad essere smentiti proprio con riguardo alle ipotesi intercettate dalla presente indagine ed espressamente in essa richiamate. In proposito mette conto ricordare che i reati analizzati dalla Corte riguardano le fattispecie più gravi e pregiudizievoli per l’immagine e il buon andamento della Pubblica Amministrazione (concussione, corruzione, peculato, truffa ecc.), per le quali, pur nell’ambiguo assetto derivante dal complesso normativo-giurisprudenziale, ampiamente descritto nel corso della relazione, la legge n. 97/01 da un lato, e i contratti collettivi, dall’altro, formulano una chiara opzione per la sanzione espulsiva. Quest’ultima dovrebbe pertanto essere la regola, di guisa che una eventuale sanzione minore dovrebbe essere sorretta da eccezionali motivi che permettano di scalfire in qualche modo l’indefettibilità dell’accertamento penale e la sua imputazione all’incolpato. Al contrario, i provvedimenti esaminati delle Amministrazioni interessate, nonché le prassi disciplinari complessivamente risultanti testimoniano come le sanzioni conservative del posto siano concepite quale soluzione “normale”. Talvolta ciò avviene pur in presenza di direttive politico-amministrative, che invitano al rigore nei confronti dei fenomeni di malaffare, concretantisi nei reati sopra richiamati. Pertanto è da riaffermare il principio secondo cui già il complesso quadro normativo contiene, nei riguardi di tali fattispecie, valutazioni di gravità “apicale”, inidonee ad essere postergate a motivi ispirati alla “clemenza ambientale”;
d) necessità di uniformare i termini per l’apertura, lo svolgimento e la conclusione del procedimento disciplinare . In effetti, negli stessi ordinamenti amministrativi continuano a convivere, come più volte richiamato nella relazione, normative difformi che ingenerano sperequazioni tra le diverse categorie di personale dipendente e conseguente contenzioso da parte dei soggetti, meno favorevolmente regolati dalle vigenti disposizioni, i quali invocano il diritto ad analogo trattamento. Particolarmente censurato da parte delle Amministrazioni intervenute risulta l’articolo 24 comma 2 del CCNL del 16/05/1995 (modificato dall’art. 12 del CCNL 12/06/2003) il quale fissa in 20 giorni il termine per l’apertura del procedimento disciplinare a fronte dei 180 e 90 giorni rispettivamente previsti dalla legge 19/90 e dalla 97/01. La Corte non può che aderire a tali doglianze, che influenzano in modo gravemente negativo le gestioni disciplinari;
e) incongruenza della logica arbitrale con la gestione disciplinare dei reati più gravi . Le Amministrazioni lamentano i gravi pregiudizi derivanti dalla attribuzione ai collegi arbitrali dei ricorsi sulla applicazione delle pene espulsive. La questione fu sollevata, fin dalla deliberazione n. 70/97 di questa Corte, la quale ne aveva sottolineato l’incongruenza, invitando le amministrazioni, interessate dalle impugnazioni in sede arbitrale, a chiederne la devoluzione in sede giurisdizionale, laddove la previa valutazione in sede amministrativa della fattispecie criminosa ne avesse escluso la compatibilità con la permanenza in servizio dell’incolpato. In effetti le amministrazioni che si sono attenute alla tesi prospettata dalla Corte ne hanno avuto formale riconoscimento giuridico, attraverso l’orientamento maturato nella Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, n. 7601 del 13 aprile 2005, la quale ha chiarito che la decisione del Collegio Arbitrale ha natura di arbitrato rituale e che pertanto risulta impugnabile ex artt. 828 e 829 c.p.c. Di ciò appare consapevole l’Agenzia delle Entrate la quale, nei casi di annullamento delle sentenze espulsive per i reati di cui alla legge n. 97/01, ha formulato impugnazione per il tramite dell’Avvocatura Generale dello Stato. Peraltro l’orientamento della Corte di Cassazione non appare ancora patrimonio di conoscenza di tutte le amministrazioni, dal momento che il Ministero della difesa lamenta di doversi uniformare alla decisione del Collegio arbitrale, essendo ad oggi inevasa la sollecitazione formulata all’Avvocatura in ordine alla impugnazione di lodi arbitrali sfavorevoli. Sotto questo profilo la presente delibera può essere uno stimolo ad uniformare i comportamenti delle amministrazioni interessate alle logiche emergenti dall’orientamento della Corte di Cassazione;
f) l’Agenzia delle entrate rappresenta il problema della scarsa imparzialità dei Collegi arbitrali, i quali sembrano orientati piuttosto a logiche di settore che ad un coerente ed imparziale sviluppo dei propri orientamenti giurisprudenziali. La preoccupazione dell’Agenzia è la stessa della Corte, la quale con le precedenti delibere ha più volte rappresentato al legislatore la opportunità di vietare espressamente la devoluzione ai Collegi arbitrali delle sanzioni di natura espulsiva;
g) Il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti lamenta la difficoltà, dopo la legge n.97/01, di “patteggiare” la sanzione disciplinare, rimanendo all’Amministrazione soltanto la facoltà di irrogare unilateralmente la sanzione conservativa. La Corte non può condividere tale assunto dal momento che la gravità delle fattispecie in esame impone, come la giurisprudenza costituzionale ed amministrativa riconosce, una previa ponderazione tra l’esigenza di tutelare il buon andamento e l’immagine dell’Amministrazione e l’interesse dell’incolpato al mantenimento del posto di lavoro. Questa valutazione non può evidentemente essere oggetto di negoziazione, se non nei termini già autonomamente valutati dall’Amministrazione, di guisa che della eventuale conservazione del posto debba assumersi interamente la responsabilità l’ufficio disciplinare, senza trasferirla surrettiziamente ad un meccanismo negoziale, pensato per fattispecie di minore entità e di trascurabile impatto sul buon andamento e l’immagine dell’Amministrazione. Pertanto è da condividere l’orientamento delle altre amministrazioni intervenute, le quali non accettano logiche negoziate su reati di tale gravità;
h) il rappresentante del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti mostra preoccupazioni relative alla interpretazione fornita dalla Procura Generale di Milano in ordine alla applicazione della pena interdittiva accessoria nei casi di affidamento in prova al servizio sociale. Anche in questo caso le preoccupazioni del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti non possono essere condivise: in disparte ogni considerazione sugli effetti giuridici collegati al sistema alternativo di espiazione della pena, è di tutta evidenza che non possa essere condivisa la soluzione adottata dal Ministero, poi revocata a seguito delle osservazioni della Corte e dei chiarimenti della Procura di Milano, di accompagnare il beneficio della pena alternativa con la permanenza in servizio del condannato. Le preoccupazioni del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti appaiono sintomatiche della particolarità del rapporto di lavoro delle amministrazioni pubbliche, nella cui dinamica non si verifica sempre la fisiologica dialettica tra gli interessi dell’impresa e quelli del dipendente, risultando talvolta, in modo anomalo, l’amministrazione più preoccupata dello stesso incolpato di garantire la conservazione del posto;
i) l’Agenzia del territorio si duole del fatto che la pregiudiziale penale e gli ipertrofici strumenti giudiziali messi a disposizione dell’incolpato finiscono per deresponsabilizzare i funzionari preposti all’esercizio della funzione disciplinare, dal momento che gli stessi percepiscono come dimidiato o vanificato il potere di assumere una decisione autonomamente ponderata. La doglianza appare fondata ed eziologicamente riconducibile alla anomala reintroduzione della pregiudiziale penale, cancellata, negli altri rami della giurisdizione, attraverso l’abrogazione del vecchio art. 3 del c.p.p. Anomalia, quest’ultima, messa particolarmente in risalto dai tempi della giurisdizione penale e dalla materiale impossibilità, in molti casi, da parte dell’esercente la funzione disciplinare, di lucrare accertamenti ed elementi di prova, emersi durante il giudizio penale. Sul punto, si rinvia a quanto argomentato nel corso della relazione;
j) l’Agenzia delle dogane ha annunciato la propria intenzione di emanare una direttiva circa le problematiche del danno erariale, anche con riguardo ai fatti emergenti dalle vicende penali in itinere. L’intenzione appare quanto mai appropriata, soprattutto alla luce delle risultanze della indagine, che hanno messo in luce come solo una percentuale irrilevante dei condannati per i gravi reati accertati stia effettivamente versando risarcimenti nelle casse dell’amministrazione danneggiata. Fatto, quest’ultimo, ricondotto in altre parti della relazione al sostanziale disinteresse dell’amministrazione per le conseguenze patrimoniali degli illeciti, ogni qualvolta ad occuparsi degli stessi sia il giudice penale;
k) molte delle amministrazioni intervenute, ed in particolare il Ministero della salute ed il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, hanno sottolineato la difficoltà dei rapporti tra gli uffici disciplinari e le cancellerie penali. La ricorrenza di questo fenomeno e la sua importanza nel rapporto causale tra ritardi ed errori compiuti dalle amministrazioni è stata sottolineata fin dalla prima delle relazioni approvate dalla Corte in materia (delibera n. 4/96): la sostanziale stasi e la perpetuazione del problema emerse dagli accertamenti, effettuati nel successivo decennio, inducono a ritenere necessario un coinvolgimento del Ministro della giustizia, anche attraverso l’avviso di cui all’art. 15 del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214 ;
l) per quel che concerne il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, il rappresentante della Direzione generale delle risorse umane riconosce le gravi difficoltà in cui versa l’amministrazione scolastica e denuncia gli intollerabili ritardi nella riforma degli organi collegiali, alla luce dei diversi assetti organizzativi intervenuti nel quadriennio 2001 – 2004. L’osservazione è assolutamente conforme alle risultanze dell’indagine, anche se è opinione ormai consolidata di questa Corte che il coinvolgimento degli organi collegiali nella funzione decidente in materia disciplinare sia assolutamente incongruente coi principi della responsabilità dirigenziale e della autonomia del procedimento disciplinare, ben presenti nelle norme generali di riforma della pubblica amministrazione, più volte richiamati nel corso della relazione;
m) non appare invece condivisibile l’assunto del rappresentante del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca - Direzione generale per il personale della scuola, il quale ritiene fisiologico che in una platea di circa 900.000 dipendenti della scuola, alcuni comportamenti illeciti risultino impuniti o sanzionati in modo inappropriato. Le irregolarità accertate dalla Corte e i rischi ontologicamente collegati all’irrazionale assetto delle competenze non possono essere oscurati da percentuali statistiche del personale coinvolto negli illeciti e neppure dalla rassegnata accettazione che agli stessi non possa porsi rimedio. La gravità e la continuità, nel corso dell’ultimo decennio, dei fenomeni disfunzionali della gestione disciplinare nell’ambito della scuola, che hanno già condotto all’invio di formale avviso al Ministro competente ex art. 15 del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214, inducono a formularne una reiterazione, in conseguenza della situazione sostanzialmente inalterata.
12 Sintesi delle osservazioni sulla gestione disciplinare
In questo paragrafo vengono sintetizzate le valutazioni, analiticamente illustrate nei paragrafi precedenti, inerenti ai profili gestionali critici e a problematiche situazioni consolidatesi negli uffici controllati:
a) i continui mutamenti organizzativi, originati da prescrizioni normative e/o amministrative e caratterizzati da un sostanziale disinteresse per le sorti di una funzione naturalmente “tipizzata”, come quella disciplinare, pregiudicano il principio di continuità della azione disciplinare e tendono a disperdere specializzazioni professionali nella difficile materia;
b) analoghi effetti produce la forte mobilità di dipendenti nel settore disciplinare;
c) nelle istituzioni scolastiche questi fenomeni si accentuano perché la nuova organizzazione, basata su criteri autonomistici, convive con l’arcaica e disefficiente struttura consultiva “piramidale”. Quest’ultima è titolare di un anomalo potere di codecisione, che viene implementato da una frequente utilizzazione interdittiva di sanzioni proporzionate all’illecito;
d) risulta ancor più lenta e difficoltosa, rispetto alle precedenti indagini compiute da questa Corte, la capacità di evadere le notizie istruttorie. Il fenomeno riguarda soprattutto i casi più problematici, ove si intuisce una tendenziale riottosità ad illustrare compiutamente le disfunzioni amministrative e le loro conseguenze;
e) la tempistica delle vicende penali permane ipertrofica e allontana nel tempo la definizione disciplinare dei reati;
f) la tempistica dei procedimenti disciplinari - sia pure con le eccezioni e particolarità evidenziate in relazione – presenta margini di miglioramento rispetto ai valori rilevati nelle precedenti indagini. Essa rimane tuttavia assolutamente problematica se rapportata ai tempi tassativi previsti dalla legge, il cui mancato rispetto invalida la legittimità formale delle sanzioni disciplinari. Il fenomeno si acuisce e tende a concentrarsi nelle istituzioni scolastiche;
g) tendono ad accentuarsi – soprattutto nelle istituzioni scolastiche – i problematici rapporti, già accertati nelle precedenti indagini, tra le cancellerie penali e gli uffici disciplinari, da ascriversi prevalentemente al comportamento delle prime ma - talvolta – anche alla inadeguatezza dei funzionari degli uffici disciplinari ad interagire con procure e tribunali;
h) si sono verificate situazioni di mancata applicazione delle pene accessorie inerenti al rapporto di impiego;
i) sono state intercettate alcune situazioni di mancata apertura del procedimento disciplinare, con conseguente impunità del soggetto condannato in sede penale per reati rilevanti;
j) le situazioni di ritardo e le disfunzioni amministrative, inficianti la regolarità formale dei procedimenti, induce i funzionari responsabili a minimizzare le sanzioni, in modo da prevenire i ricorsi degli interessati e gli esborsi pecuniari conseguenti;
k) anche per le sospensioni cautelari il complesso “diritto vivente”, risultante dalle eterogenee disposizioni, normative e dagli andamenti giurisprudenziali, produce l’effetto secondo cui, al centro delle valutazioni della amministrazione più che la esigenza cautelare rimane la preoccupazione degli effetti economici della sospensione stessa;
l) quanto alla tempistica della funzione cautelare emerge che tra la data del fatto illecito e l’adozione del provvedimento decorre un tempo medio superiore a due anni;
m) i complessi meccanismi giurisdizionali e amministrativi illustrati nella relazione provocano la frequente permanenza in servizio di condannati per reati gravissimi. Queste situazioni sono talvolta accentuate dagli apparati amministrativi competenti;
n) alcune pronunce, soprattutto di carattere arbitrale, presentano notevoli profili problematici, aggravando situazioni di disparità ed effetti, anche patrimoniali, negativi per l’amministrazione;
o) emerge una sensibile dissonanza tra le pronunzie penali e quelle dei giudici del lavoro anche in termini ermeneutici della legge n. 97/01. Su tale fenomeno si riverbera, probabilmente, la natura del rapporto di lavoro pubblico “privatizzato”, dietro la cui controversa connotazione semantica si nasconde un coacervo di interessi concreti diversi da quelli del rapporto di lavoro privato;
p) permane, rispetto alle precedenti indagini, la eterogeneità delle sanzioni disciplinari in ordine ad analoghe tipologie criminose. Su tale fenomeno incidono, tra l’altro, la presenza di irregolarità formali nel procedimento disciplinare ed i condizionamenti ambientali;
q) si consolidano fenomeni elusivi della funzione disciplinare, quali i passaggi ad altra amministrazione, alcuni dei quali con esiti di recidiva particolarmente gravi;
r) nell’esercizio della mobilità non risultano prassi di verifica, da parte della amministrazione ricevente, dei requisiti di moralità del dipendente trasferito;
s) le procedure di arbitrato e conciliazione, applicate alle condanne più gravi, consentono di negoziare interessi ontologicamente indisponibili, privando i reati più gravi di appropriate sanzioni.

13. Osservazioni in ordine alla coerenza interna della vigente legislazione in materia
Come precisato nel corso della relazione, alcune delle disfunzioni accertate presentano un collegamento causale con la normativa regolante la materia e con la interpretazione giurisprudenziale prevalente, che si è affermata su alcune questioni di fondamentale impatto gestionale.
Nell’esercizio della funzione ausiliaria al Parlamento, sancita all’art. 100 della Costituzione, si ritiene – come in precedenti referti – di sintetizzare le riflessioni, meritevoli – ad avviso di questa Corte – di una delibazione in sede legislativa, al fine di migliorare l’assetto complessivo della legislazione:
a) considerato che gli oneri finanziari, diretti o indiretti (procedure amministrative complesse, spostamenti organizzativi, occupazione in funzioni non previste dalle piante organiche, spese da contenzioso), gravanti sulla Amministrazione a seguito degli illeciti penali e disciplinari sono notevoli, appare opportuno che, almeno per quelli non direttamente imputati dalla legislazione all’Amministrazione, come gli emolumenti relativi a periodi di sospensione obbligatoria e facoltativa, originate da vicende penali conclusesi con la condanna, siano espressamente dichiarati non dovuti, al fine di non esporre l’amministrazione a fronteggiare pretese originate dal prevalente orientamento giurisprudenziale in materia;
b) con riguardo ai continui mutamenti organizzativi e funzionali, che interessano le pubbliche amministrazioni, andrebbe sancito per legge un sistema di immediato adeguamento e di tipizzazione del sistema disciplinare, onde evitare che in una materia, ove ogni aspetto formale assume valore sostanziale di riferimento a garanzia dell’incolpato, le disfunzioni organizzative non si tramutino immediatamente in motivi di ricorso verso la decisione disciplinare;
c) con riguardo alla situazione degli istituti scolastici appare necessario sancire espressamente per legge l’abrogazione delle norme speciali contenute nel d. lgs. n.297/94 ed in particolare quelle inerenti agli organi consultivi e al loro potere vincolante sulle decisioni dell’amministrazione;
d) considerati gli effetti sulla tempistica disciplinare, la evoluzione giurisprudenziale in materia di limiti complessivi della sospensione cautelare, i difficili rapporti con le procure e i tribunali per l’acquisizione del materiale probatorio e la tendenziale incapacità della amministrazione di servirsene nel procedimento disciplinare, sarebbe opportuno rivalutare la opportunità di abolire la pregiudiziale penale in tutti i casi, in cui l’amministrazione sia in grado di istruire autonomamente il giudizio di disciplina;
e) nell’ambito dei diversi istituti di mobilità del personale pubblico, sarebbe opportuno fosse sancito espressamente il principio di continuità dell’azione disciplinare o comunque un istituto analogo, in grado di vincolare l’amministrazione ad un giudizio di compatibilità tra l’illecito accertato e le funzioni istituzionali ricoperte nel nuovo organico;
f) per ciò che concerne la possibilità di sottoporre le decisioni disciplinari ad istituti quali l’arbitrato e la conciliazione, andrebbe affermato con atto avente forza legislativa il principio di indisponibilità della controversia da parte della amministrazione in merito agli illeciti più gravi commessi dal dipendente; principio attualmente ricavabile in modo indiretto, ma non sempre rispettato dalle amministrazioni, nel contratto collettivo inerente all’arbitrato e alla conciliazione. Infatti attraverso detti istituti le amministrazioni sono state di fatto espropriate del potere-dovere di ponderare, autonomamente ed obiettivamente, la situazione del condannato con le proprie esigenze di autotutela;
g) considerata l’attuale assenza di controlli specifici sull’andamento della funzione disciplinare nell’ambito degli enti pubblici, degli enti locali, delle aziende sanitarie, degli enti economici e delle società partecipate, sarebbe opportuna la instaurazione di meccanismi di vigilanza specifica, alimentati dal sistema informativo della giustizia penale, per verificare il comportamento dei menzionati enti nei confronti dei dipendenti, macchiatisi di gravi reati in correlazione con il servizio svolto. Detto sistema dovrebbe essere improntato, con riguardo all’organo e ai funzionari competenti, a principi di terzietà, concentrazione, specializzazione e dovrebbe essere dotato dei più ampi poteri istruttori;
h) in conseguenza dei cattivi esiti gestionali della funzione disciplinare, stabilmente negativi a decorrere dall’inizio di questo tipo di indagini (esercizio 1995), andrebbe valutata la possibilità di concentrare la disciplina di questa materia in un testo unico che sancisse principi uniformi in ordine ai tempi e alle modalità dell’azione disciplinare nonché dei criteri valutativi da adottare in presenza di reati collegati allo svolgimento del servizio;
i) in conseguenza del cattivo andamento della funzione disciplinare, per i reati più gravi collegati allo svolgimento di funzioni e/o servizi pubblici, potrebbe essere valutata la possibilità di risolvere il profilo sanzionatorio con un sistema più organico e incisivo di pene accessorie interdittive, espressamente rapportato alla tutela degli interessi della collettività, conferendo certezza e proporzionalità, attraverso la valutazione, terza e insindacabile in sede amministrativa, del giudice.

14. Esiti del controllo rilevanti ai fini dell’ art. 2, comma 3bis, l. 468/78
Ai sensi e per gli effetti dell’ art. 2, comma 3bis , della l. n. 468/78 si ritiene che nelle note preliminari della spesa dell’esercizio finanziario 2007 debbano essere indicati i criteri inerenti alla allocazione, individuazione ed analisi delle partite di entrata e di spesa, richiamate nel paragrafo n. 10, nonché ai mezzi improntati per rendere trasparente ed efficace la riscossione dei crediti.



I MAGISTRATI ISTRUTTORI

Cons Aldo Carosi

Cons. Fabio Viola
 







Questo Articolo proviene da AetnaNet
http://www.aetnanet.org

L'URL per questa storia è:
http://www.aetnanet.org/scuola-news-6101.html