BENEDETTO CROCE E LA FILOSOFIA DELLA STORIA
Data: Domenica, 17 dicembre 2006 ore 00:05:00 CET
Argomento: Rassegna stampa


IL SENSO DELLA STORIA

Benedetto Croce e la filosofia della storia
Marcello Mustè*

 

Fin dai suoi primi scritti, Benedetto Croce si è caratterizzato come un critico, e come un avversario radicale, della filosofia della storia, sia nella forma classica che essa aveva assunto nell’opera di Hegel sia nella versione, diversa e rinnovata, che ne era stata tentata, agli inizi del Novecento, da autori come Simmel e Rickert.

Dalla storia come ‘narrazione’…
 Nella memoria pontaniana del 1893, intitolata La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, che costituisce il suo esordio nella riflessione filosofica, Croce aveva definito la storia come conoscenza ‘artistica’ e come ‘narrazione’, cioè come una rappresentazione del particolare e dell’individuale, distinguendola con nettezza dalla conoscenza di tipo ‘scientifico’, che consiste invece nell’elaborazione di concetti generali. Proprio in tale negazione del carattere ‘scientifico’ della storia, intesa piuttosto come raffigurazione artistica del ‘realmente accaduto’, era già implicito il rifiuto di una considerazione ‘filosofica’ (ossia concettuale), e quindi una critica di ogni filosofia della storia: posizione, questa, che si rese esplicita in un saggio appena successivo, del 1895, intitolato Intorno alla filosofia della storia, nel quale Croce, ribadendo la propria concezione ‘narrativa’, considerò la filosofia della storia come un'inammissibile ‘duplicazione’ della storia reale e concreta, e come una tendenza impropria a rivelare un ‘significato’ che la storia possiede già, di per sé, senza doversi appoggiare a concetti metafisici e teologici, come quelli di ‘provvidenza’, ‘ragione’, ‘idea’ o ‘divenire universale’.

… alla teoria del ‘giudizio individuale’
 Questa prima critica della filosofia della storia derivava, come si è detto, da una concezione teorica - centrata sull’idea della storia come ‘arte’ e ‘narrazione’ - che Croce abbandonerà intorno al 1908, quando, con la pubblicazione della Logica come scienza del concetto puro e della Filosofia della pratica, approderà a una diversa e più matura spiegazione della storicità, fondata sulla teoria del ‘giudizio individuale’: in base a questa teoria, l’essenza della storia non consisteva più nell’arte o nell’intuizione, ma nell’atto logico del giudizio, capace di stringere in una relazione ‘sintetica’ un sostrato intuitivo e una predicazione concettuale, e dunque di determinare le rappresentazioni, distinguendo in esse tra l’esistenza (la realtà accaduta) e l’inesistenza (la fantasia, il sogno, l’immaginazione). La lunga e travagliata genesi di tale teoria - che impegnò Croce per un quindicennio - si accompagnò allo studio e alla critica delle massime espressioni della filosofia della storia: dapprima dell’opera di Marx, con i saggi raccolti nel volume Materialismo storico ed economia marxistica (la cui prima edizione è del 1899), poi della filosofia di Hegel, con il libro su Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, apparso nel 1907. Fu proprio in questi due scritti, e soprattutto nel secondo, che la critica della filosofia della storia si ampliò e si precisò, fino a delineare quella ‘dissoluzione ideale’ di cui Croce parlerà, nel 1917, in un importante saggio raccolto in Teoria e storia della storiografia.

La critica alla concezione hegeliana
 Nel libro su Hegel si legge un capitolo, il settimo, che è appunto dedicato alla ‘idea di una filosofia della storia’. E qui la filosofia della storia (nella classica formulazione delle Vorlesungen hegeliane) è presentata come ‘annullamento’ e ‘dissoluzione’ della storia, anzi come ‘disconoscimento dell’autonomia della storiografia’ (Bari, Laterza, 1907, p. 132): al modo stesso in cui aveva negato l’indipendenza della conoscenza artistica, pervenendo alla ‘morte’ dell’arte nella filosofia, così Hegel dichiarava qui – secondo Croce – una specie di ‘morte’ della storia, elevando sopra di essa una ‘storia di secondo grado’, costruita ‘a priori’, ‘bella e fatta’ prima dell’esame dei fatti concreti. Per questo, per avere edificato ‘a priori’ un ‘significato’ e un ‘senso’ del divenire storico, Hegel riteneva di poter distinguere tra fatti ‘essenziali’ e fatti ‘inessenziali’ o ‘accidentali’, senza accorgersi che, in questo modo, “si vengono a gettar via come inutili tutti i fatti, la nozione stessa di fatto” (Ibidem, p. 141). Tutti i fatti, concludeva Croce, hanno il carattere della contingenza e dell’individualità, ma ciò significa che tutti i fatti storici - anche quelli ritenuti inessenziali - sono un’opera dello spirito umano, la cui genesi include, alla radice, un atto logico e propriamente filosofico.

L’identità di filosofia e storia
 Alla filosofia della storia, insomma, considerata come ‘storia di secondo grado’, Croce opponeva la sua teoria del giudizio individuale, che implicava l’identità di filosofia e storia non in modo estrinseco, ma nello stesso atto di generazione del fatto storico. Così, nel capitolo quarto di Teoria e storia della storiografia, sulla Genesi e dissoluzione ideale della ‘filosofia della storia’, sottolineava ancora che ‘fatti bruti e slegati’ non esistono nella realtà dello spirito, ma possiedono soltanto una natura ‘pseudoconcettuale’, cioè pratica, utilitaria, e soprattutto susseguente all’atto concreto del giudizio: “nel pensiero – concludeva –, realtà e qualità, esistenza ed essenza, sono tutt’uno, e non si può affermare reale un fatto senza insieme conoscere quale fatto esso sia, cioè senza qualificarlo” (Milano, Adelphi, 1989, p. 85). Di più, in quello stesso scritto riportava la filosofia della storia, sempre intesa come ‘concezione trascendente’, a un'insufficiente e subalterna reazione al determinismo: mentre questo dissolve la concretezza storica nel regresso infinito delle cause e degli antecedenti, quella si volge alla ricerca di un altrettanto vacuo ‘fine trascendente’, derivando da tale finalismo l’idea di un ‘disegno riposto’ nel divenire storico, “per rispondere alle domande del donde veniamo e del dove andiamo”; e per costruire, così, ‘accanto alla storia’, il “piano generale e provvidenziale di una filosofia della storia” (Ibidem, p. 78).
 Ancora nel libro del 1938 su La storia come pensiero e come azione, Croce ribadiva che la filosofia della storia è “un caso particolare di falsa posizione teorica, ossia appartiene alla fenomenologia dell’errore” (Bari, Laterza, 1966, p. 129). E la riduceva alla forma ibrida del mito, e più precisamente a quella dualità del racconto (la pretesa dualità tra storia ‘pensata’ e storia ‘accidentale’) che, nella teoria estetica, va sotto il nome di ‘allegorismo’, poiché l’allegoria non costituisce una vera sintesi e una ‘superiore unità’, ma un discorso che si aggiunge al margine di un altro discorso, una scrittura che vuole ‘interpolare’ un’altra scrittura, e così ne spezza la concretezza originaria. Il dualismo implicito nella filosofia della storia, tra una storia ‘sostanziale’ e una storia ‘accidentale’, non solo non doveva essere confuso con la distinzione delle forme categoriali, ma ne rappresentava, anzi, la negazione estrema, risolvendosi in una ‘materializzazione’ delle stesse categorie spirituali, e dunque non nell’identità di filosofia e storia, ma nella loro separazione e nella loro successiva, quanto impropria, confusione.

 *Marcello Mustè insegna Teoria e storia della storiografia alla Facoltà di Filosofia dell'Università La Sapienza di Roma. Tra i suoi libri: Adolfo Omodeo. Storiografia e pensiero politico (Il Mulino, 1990), Benedetto Croce (Morano, 1990), Politica e storia in Marc Bloch (Aracne, 2000), La scienza ideale. Filosofia e politica in Vincenzo Gioberti (Rubbettino, 2000), La storia: teoria e metodi (Carocci, 2005).

Pubblicato il 12/12/2006






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