Il giuslavorista Pietro Ichino (ex FIOM CGIL): «Nessun aumento contrattuale ai dipendenti pubblici nullafacenti»
Data: Venerdì, 15 dicembre 2006 ore 16:59:45 CET
Argomento: Opinioni


«Nessun aumento contrattuale ai nullafacenti»
Il giuslavorista Pietro Ichino dialoga con i lettori «Nessun aumento per chi lavora poco»

dal " Corriere della Sera"

Il giuslavorista, autore di un libro sull'innefficienza nel pubblico impiego, risponde ai lettori: basta trattare tutti allo stesso modo
 

MILANO - «Ci sono anche settori dell'impiego pubblico dove si lavora sodo, si lavora per due, anche per chi non lo fa. Ma ci sono anche sacche di non lavoro. Bisogna superarle per evitare generalizzazioni per tutelare chi lavora e distinguerlo dai nullafacenti».

PREMIARE IL MERITO

- Ichino, nel confronto con i lettori, ha ribadito la necessità di premiare il merito, anche per evitare l'umiliazione del lavoratore serio che a fine mese si vede retribuito come il suo collega assenteista o improduttivo. Per il giuslavorista è necessaria una riorganizzazione che parta dalla dirigenza, dove stanno le maggiori responsabilità dell'inefficienza del pubblico impiego, arrivando anche al licenziamento, teoricamente già possibile, di quei dirigenti che non riescono a rendere funzionali i servizi loro affidati. «Se io fossi al governo - ha poi detto Ichino - direi ai sindacati che dei soldi stanziati per i rinnovi contrattuali almeno un 25% vada solo a quei lavoratori che si impegnano di più. E non darei alcun aumento a quei lavoratori il cui rendimento è al di sotto di un livello minimo di efficienza».
«EGUALITARISMO IMPERANTE»

- A chi gli chiedeva come si sentisse nel ruolo di «nemico dei sindacati» cucitogli addosso dalla stampa, Ichino ha fatto notare che dopo gli ultimi articoli sul Corriere sul tema dell'improduttività del pubblico impiego sono state più le attestazioni di stima che le critiche. E molte sono arrivate proprio da lavoratori del settore pubblico. «Credo che il sindacato abbia perso il contatto con quella parte dei dipendenti pubblici che è esasperata per colpa dell'egualitarismo imperante - ha spiegato Ichino -. Negli anni 70 per questo egualitarismo spinto ci fu la marcia dei 40 mila, dei quadri intermedi. Oggi nel pubblico impiego i lavoratori sono ancora più schiacciati da qeusto egualitarismo eccessivo che non premia il merito».
I PRECARI DEL PUBBLICO

- A proposito del precariato nel settore pubblico, Ichino ha ricordato come ciò sia l'effetto di un trentennio di assunzioni spropositate che vengono oggi fatte ricadere sui giovani, che pure sarebbero disposti a lavorare sodo, con gravi ripercussioni sull'efficienza della stessa amministrazione pubblica. E questo a causa «eccessive rigidità» nella tutela dei lavoratori di ruolo, che sono di fatto «inamovibili» e che «intasano tutte le posizioni». In questo contesto si è affrontato anche il tema della mobilità interna al settore pubblico, vincolata oggi dalla necessità di un consenso allo spostamento da parte del lavoratore interessato. «Il trasferimento deve invece essere possibile anche senza l'approvazione dei diretti interessati - ha puntualizzato Ichino -. Soprattutto quando si tratta di coloro che un organismo di valutazione indipendente riconosca come poco produttivi».
PUBBLICO E PRIVATO

- Il problema dell'efficienza c'è anche al di fuori del settore pubblico, ha riconosciuto il giuslavorista rispondendo ad un lettore che facendo una sorta di outing ha rivelato di essere un lavotore del comparto privato che tuttavia passa il tempo davanti al pc senza nulla da fare. Ma la differenza - ha evidenziato Ichino - è che «se il management non pone rimedi, l'azienda fallisce. Invece nel settore pubblico non è così. Nessuno paga pegno per le situazioni di improduttività. Occorre invece il coraggio di fare come all'estero operando con trasferimenti e chiusura dei cosiddetti "rami secchi"».
A. Sa.
09 novembre 2006

Contratti pubblici, occasione per voltar pagina Un'authority per il merito di Pietro Ichino

 

Il governo si è dato appuntamento con Cgil, Cisl, Uil, Ugl, Confintesa e gli altri sindacati dell’impiego pubblico al 21 dicembre per la stipulazione di un pre-accordo sui rinnovi contrattuali del settore. C’è già largo consenso sul principio-guida che verrà sancito in quel pre-accordo, per cui gli aumenti dovranno premiare solo la produttività effettiva. Il problema, però, è che per attuare incisivamente questo principio occorre una capacità di autovalutazione della quale oggi l’amministrazione pubblica è in larga parte priva. Perché quel principio- guida non resti sulla carta occorre che l’amministrazione sappia dotarsi di strumenti di rilevazione credibili. È possibile questo in tempi brevi?
Un modo per farlo c’è. Si tratta, in sostanza, di obbligare tutti i comparti pubblici che non lo hanno ancora fatto ad attivare i nuclei di valutazione già previsti dalla legge n. 286 del 1999, garantire l’indipendenza di questi organismi e la trasparenza delle loro valutazioni, stimolarne e controllarne l’operato integrandolo dove necessario con interventi dal centro; il compito di promuovere, gestire e garantire l’intero processo può essere credibilmente affidato a una authority centrale presieduta da una personalità di indiscussa competenza e indipendenza. È questa la proposta contenuta in un progetto di legge- delega che un gruppo di giuristi ed esperti presenterà al governo e ai sindacati la settimana prossima.
All’authority centrale, secondo questo progetto, competerà di promuovere la diffusione delle tecniche più efficaci e delle esperienze migliori disponibili nel panorama internazionale, esigendo, in particolare, che l’opera di ogni nucleo di valutazione sia sottoposta annualmente a una public review, cioè a un confronto pubblico con le associazioni di utenti, i ricercatori universitari, i giornalisti specializzati, in modo da dare voce in questo processo alla cittadinanza.
Alla stessa authority competerà di attivare motu proprio rilevazioni autonome in tutti i casi in cui lo riterrà possibile e opportuno; inoltre di costituire il punto di riferimento per la raccolta e l’elaborazione delle valutazioni dei nuclei di comparto, nonché di ogni altra informazione proveniente dalla società civile. Questo le consentirà di censire le aree di eccellenza, da premiare, ma anche i casi più gravi di sovradimensionamento degli organici, o comunque di inefficienza o improduttività delle strutture pubbliche, dove dovrà applicarsi la regola del licenziamento del dirigente per responsabilità oggettiva; quanto ai dipendenti di queste strutture, per essi dovrà stabilirsi la trasferibilità d’ufficio entro limiti ragionevoli e l’inibizione degli aumenti retributivi fino al trasferimento alla struttura capace di garantirne la produttività effettiva.
Sarà, infine, molto importante attribuire all’authority centrale il potere di segnalare i casi individuali evidenti di totale inefficienza e improduttività a carattere colposo o doloso, per sollecitare il dirigente competente a procedere al licenziamento, a norma di legge e di contratto: la segnalazione contestuale di questi casi alla Corte dei Conti consentirà di far valere la responsabilità per danno erariale a carico del dirigente che, senza giustificazione, continui a non provvedere.
Questo progetto è ritenuto inadeguato? Il governo ne metta in cantiere uno migliore. Ma faccia in fretta. Perché, dove il giudizio non può essere affidato al mercato, la possibilità di incominciare davvero a differenziare i trattamenti secondo l’efficienza e la produttività delle strutture e degli individui dipende essenzialmente dalla capacità e credibilità pubblica dell’organo di valutazione.
07 dicembre 2006


Per il 78% dei concussori le pene sono sotto i due anni: impossibile rimuoverli Fannulloni e corrotti al sicuro Condannati e licenziati 2 su 100 Il caso dell'usciere malato per 220 giorni in un anno: è al suo posto

Abbiano l'onestà di dirlo: non vogliono licenziare nessuno, neanche i mascalzoni arrestati con la bustarella in mano. Appioppare una condanna per corruzione a più di due anni di carcere, oggi, è pressoché impossibile. »Capita in due casi su cento. Quindi la nuova «severità» sbandierata dal governo verso i dipendenti pubblici disonesti, accettiamo scommesse, si rivelerà una bufala.
Eppure questo ha detto ieri al Corriere il ministro per la funzione pubblica Luigi Nicolais. Al prossimo consiglio dei ministri presenterà «un disegno di legge sui procedimenti penali e disciplinari nel pubblico impiego» che saranno «molto più severi» di adesso: «Oggi c'è il licenziamento in caso di corruzione, concussione e peculato con pene superiori a tre anni.
Molti sfuggono patteggiando o con il rito abbreviato. Da domani basterà una pena patteggiata di oltre due anni per essere licenziati automaticamente».
Domanda: il ministro sa quante condanne a oltre due anni di carcere vengono comminate oggi per quei reati? Se gli interessa, faccia una telefonata a Piercamillo Davigo, Consigliere di Cassazione, già protagonista del Pool Mani Pulite e autore con la professoressa GraziaMannozzi di un libro in uscita per Laterza proprio sulla corruzione. Gli risponderanno: «Pochissime».
Dettagli? Eccoli: elaborando i dati dei casellari giudiziari dal 1983 al 2002, risulta che le condanne per concussione (il reato più grave, articolo 317) a meno di due anni di galera con allegato il beneficio della condizionale sono il 78%. Quelli per corruzione propria (articolo 319) meno ancora: il 93%. E quelli per la corruzione normale (articolo 318) superano il 98%.
Ovvio: la pena prevista per la corruzione va da due a cinque anni. Il giudice, per prassi, sceglie di partire generalmente da una via di mezzo, tipo quattro anni. Basta che il corrotto chieda il rito abbreviato o il patteggiamento, se proprio non ha la pazienza di tener duro, di rinvio in rinvio, contando sulla prescrizione o un indulto, e già ha diritto allo sconto di un terzo: e siamo a due anni e otto mesi. Meno un altro terzo per le attenuanti generiche (che non si negano a nessuno) e un altro sconto se si restituisce il maltolto et voilà, siamo già saldamente al sicuro: sotto i due anni.
E questo, del resto, dicono un po' tutte le banche dati sui processi per corruzione. La pena finisce per essere spesso inferiore a un anno.
Per scendere fino a sette od otto mesi. Una oltre i due anni è una vera rarità. Soprattutto in certe aree del sud comeReggioCalabria, dove le condanne per corruzione risultano essere state due. In venti anni. Morale: la «severità» delle nuove norme finirebbe in realtà per lanciare nel mondo del pubblico impiego un messaggio devastante: tranquilli, non cambia niente, nessuno paga.
Lo dice la storia di questi anni. Non solo sul versante delle mazzette. Basti ricordare il caso di Antonio Donnarumma, un custode di Pompei. Lo arrestarono nella stupenda Casa di Cecilio Giocondo mentre cercava di violentare una ragazzina americana adescata con la scusa di mostrarle affreschi chiusi al pubblico. La flagranza del reato era tale che non cercò neanche di difendersi: patteggiò un anno con la condizionale. Bene: non riuscirono a licenziare manco lui. E si dovettero accontentare di mandarlo «in punizione» a Sorrento. Un «esilio» a 29 chilometri.
Una botta al morale di chi come Pietro Ichino invoca da anni una mano più pesante coi fannulloni proprio per dare più spazio e più soldi ai dipendenti pubblici che lo meritano, la diede ad esempio un certo Salvatore Castellano, che stava al museo di Capodimonte (dove gli usceri rifiutavano le divise perché "non sono confacenti al clima di Napoli") e dopo aver fatto 220 assenze in un anno (più le ferie, più le festività...) era stato indicato al ministero come uno da sbattere fuori. Accusa: la salute cagionevole non aveva impedito all'uomo, mentre risultava quasi agonizzante, di tenere aperto un laboratorio di cornici. Eppure, di ricorso al Tar in ricorso al Tar...
Anche A.T., un dipendente del comune di Genova, non si rassegnò al licenziamento che dopo vari ricorsi al Tribunale regionale: non riusciva a capire perché il municipio fosse così fiscale con lui, che aveva accumulato (facendo contemporaneamente altri lavori, secondo l'accusa) quasi 1.400 giorni di malattia. Perse, alla fine, ma solo perché non trovò magistrati come quelli del Consiglio di Stato che annullarono il licenziamento di un bidello calabrese introvabile quando arrivava il medico fiscale, perché «prima di assumere il provvedimento l'amministrazione deve comunque accertarsi delle reali condizioni di salute». E se quello fosse stato alle Maldive, come successe con un impiegato comunale di Pesaro? Andavano accertate le sue condizioni psicofisiche all' atollo Ari? Una sentenza fantastica. Pari almeno a quella del Tar di Milano che qualche anno fa fece riassumere al liceo scientifico Severi un bidello licenziato perché, preso in prova, in tre anni si era fatto vedere in totale per 60 giorni. No, dissero i giudici: nel pubblico impiego non si può interrompere un rapporto di lavoro prima che sia concluso un periodo di prova. Quanto lungo? Sei mesi.
Cosa che, lavorando il giovanotto ("Sono diplomato e invece di farmi fare le pulizie fatemi lavorare in ufficio!") venti giorni l'anno, avrebbe richiesto qualche decennio.
Il postino P.M., che qualche mese fa a Ortoliuzzo, Messina, fu sorpreso con due tonnellate e mezzo di lettere, fatture, telegrammi, assicurate, raccomandate che da nove mesi non aveva voglia di consegnare, se ne stia dunque sereno: avanti così, non lo licenzierà nessuno. Come nessuno è riuscito in questi anni a liberarsi, a Napoli, di quei vigili urbani che proprio non tengono voglia 'e fatica' nel traffico e hanno intasato la direzione del personale di centinaia di certificati: quello ha problemi all'udito, quell' altro non sopporta lo smog, quell'altro ancora si stressa... Tutta colpa del virus dell'«incrocite»": appena sono di turno a un incrocio, si sentono male. Il risultato, spiega il
Mattino, è il seguente: su 2.128 poliziotti municipali, quelli che lavorano ancora nelle strade sono circa 500. Un quarto. Tutti gli altri faticano dietro qualche scrivania.

Gian Antonio Stella
14 dicembre 2006

Una commissione di inchiesta interna al Comune ha accertato che la mega truffa organizzata da dirigenti e impiegati ha provocato un «buco» di 30 milioni Taranto, il caso degli «illicenziabili» Si aumentarono lo stipendio per anni, quasi tutti al loro posto

Come osano, sospenderlo dal servizio? Francesco Grassi, uno dei ventitré dirigenti e impiegati del comune di Taranto arrestati ai primi di luglio perché si erano auto-regalati sontuose buste paga per un totale di 5 milioni di euro in cinque anni, ha già fatto ricorso. Gli altri sei obbligati a non ripresentarsi in ufficio il ricorso lo stanno preparando. Gli altri ancora, sono tornati alla loro scrivania da un pezzo. Per non dire di tutti gli altri dipendenti ancora che, per la commissione d'inchiesta interna, si sarebbero complessivamente fregati almeno da 21 a 30 milioni di euro. Un decimo del gigantesco buco nel quale è precipitata l'ex capitale industriale della Puglia, dichiarata in bancarotta. Stando alle accuse, mosse dalle denunce di un ex consigliere comunale, Nello De Gregorio, Grassi si sarebbe fatto dei regalini nello stipendio, dal 2001 al 2006, con compensi extra per misteriosi lavori «a progetto», per 389 mila euro. Dice però che non è stato ancora rinviato a giudizio e la legge è legge, signori e signore: come si è permesso, il commissario Tommaso Blonda, di sospendere lui e i protagonisti degli altri casi più gravi? Si dirà che, come ha accertato il comandante della Finanza Emanuele Fisicaro, c'è chi in un mese si era fatto omaggio di 19.439 euro e chi di 39.160: ma che c'entra? Certo, c'è chi è accusato come Nicola Blasi, di essersi preso coi ritocchi in busta paga 434 mila euro, chi come Giuseppe Cuccaro 429 mila, chi come Orazio Massafra 422 mila e chi come Cataldo Ricchiuti (al quale sono stati sequestrati 12 fabbricati e un terreno e 124 mila euro in banca: mica male per un funzionario comunale...) addirittura 567 mila.
Ma perché non dovrebbero tornare al loro posto, in attesa del rinvio a giudizio e poi della decisione del Gip e poi del processo in Assise e poi di quello in Appello e poi di quello in Cassazione e magari ancora di qualche ricorso alla corte costituzionale? E il bello è che la magistratura potrebbe dare loro ragione. Perché qui è lo scandalo: Francesco Boccia, mandato da Amato a Taranto come liquidatore (primo caso in Italia per una grande città) ha le mani legate da leggi e leggine così pelosamente garantiste da impedirgli di fatto di usare la mano pesante. Una impotenza che, oltre ad alleggerire la posizione di quella massa di persone coinvolte nella maxi- truffa sugli stipendi (tutte assolutamente convinte che un giorno o l'altro il can-can finirà e magari con l'aiuto dell'indulto anche questa seccatura dell'inchiesta evaporerà in una nuvoletta) rischia di lanciare un pessimo segnale a una città allo sbando. Mario Pazzaglia, il veneto-marchigiano incaricato con Giuseppe Caricati di mettere il naso nei conti, fa professione di ottimismo e cerca di incoraggiare Taranto a reagire spiegando che «con uno scatto di orgoglio la città può recuperare e rinascere». Ma certo il baratro nei conti lasciato dalla giunta guidata dalla forzista Rossana Di Bello (dimessasi pochi mesi dopo una trionfale rielezione in seguito a una condanna per gli appalti dell'inceneritore) gela il sangue: finora siamo già a un buco accertato di 382 milioni di euro. Pari a oltre sei mila euro di «rosso» per ogni famiglia. Un disastro. Sul quale non è avviata solo un'opera di rilettura dei bilanci (che potrebbe rivelare un abisso finanziario che qualcuno paventa addirittura intorno al miliardo di euro) ma si sono aperte un mucchio di inchieste penali. Per falsità in bilancio. Per un appalto da 28 milioni per la pubblica illuminazione. Per il Parco Cimino dato in gestione per 1.000 euro l'anno (neppure pagati) a un ristoratore che faceva lavori edilizi (anche abusivi) e poi mandava il conto al Comune. Per una specie di fontana da due milioni di euro piazzata in mezzo al mare e mai usata. E altro ancora. Una gestione sciagurata.
E meno male che non è andato in porto il progetto un po' megalomane di costruire il Colosso di Zeus, un bestione che avrebbe dovuto ricordare un'antica opera di Lisippo. E magari avrebbe ricordato anche il monumentale sindaco Giancarlo Cito, che prima di finire in galera fu il Re di Taranto e prometteva di far di Taranto «la Svizzera del Sud» e minacciava Di Pietro di «riempirgli la bocca di cemento a presa rapida» e quando si prese pure la squadra di calcio ordinò ai giocatori di darsi da morire sul campo sennò avrebbe «messo le gambe dei più brocchi a mollo in una vasca di piranha». Ma torniamo ai nostri «eroi». La difficoltà di licenziare o perfino di sospendere i dipendenti infedeli del Comune di Taranto, coincidenza, nei giorni in cui un pezzo della sinistra vorrebbe arruolare d'un colpo, senza filtri, 300 mila precari, dei quali moltissimi saranno bravissimi ma una parte certo una palla al piede. E dà ragione a chi, come scriveva Pietro Ichino ieri sul Corriere, sostiene che «la precarietà degli uni è l'altra faccia dell'iperprotezione e inamovibilità degli altri». Cioè di chi, avuto un posto pubblico, non può più essere rimosso da qui all'eternità. Sapete quante notizie Ansa escono, su milioni e milioni di takes dal 1981 ad oggi, incrociando le parole «dipendenti comunali» + «licenziati», declinate al plurale o al singolare? Dodici. Ma nella stragrande maggioranza non raccontano di licenziamenti (come quello di 9 becchini triestini, sbattuti fuori perché davvero nessuno se la sentì di difenderli dopo che avevano aperto un sacco di tombe per rubare ori e orologi ai morti) ma di rimozioni tenacemente intralciate dal sindacato o da un giudice. Come nel caso di Fabrizio Filippi, accusato dal comune di Livorno di essere un lavativo e finalmente messo fuori, dopo una accanita guerriglia processuale, solo dopo 13 anni di sentenze e di ricorsi. O di quello spazzino licenziato dal comune di Latisana dopo un'assenza non giustificata di 15 giorni e fatto riassumere dalla magistratura perché, essendo l'uomo sempre ubriaco, «non era provata la volontà dell'inottemperanza al dovere di prestare servizio». Per non dire di un caso simile a quello di Taranto. Ricordate cosa successe a Napoli? Finirono sotto inchiesta in 321, quattro anni fa, per essersi gonfiati lo stipendio. Molti dichiarando con l'autocertificazione di avere a casa a proprio carico una tale quantità di nonni, suoceri, cugini, zie, cognate e consuocere da ottenere fino a 15 o 20 mila euro di arretrati. Altri perché si erano ritoccati le buste paga attribuendosi fino a 32 milioni al mese. E «voci accessorie» fino a 105 l'anno. Bene: solo uno, il dirigente dell'ufficio Aldo Buono, è stato rimosso. Gli altri, se non se ne sono andati per godersi la «meritata pensione», stanno ancora lì. E con l'indulto di quest'anno si sono tolti pure il pensiero del processo: marameo!
Gian Antonio Stella
13 dicembre 2006

Il rimedio sbagliato

di Pietro Ichino

 

L'emendamento alla Finanziaria che prefigura l'immissione indiscriminata in ruolo di centinaia di migliaia di lavoratori precari del settore pubblico — anche ammesso che si trovino davvero i soldi necessari — rischia di essere un rimedio peggiore del male che si vuole combattere. Da molti anni, ormai, una parte rilevante della funzione pubblica è affidata a lavoratori non di ruolo, assunti in una miriade di forme: trimestralisti, supplenti, «contrattisti», co.co.co., stagisti e altre figure ancora, che si affiancano permanentemente a un personale di ruolo in parte efficientissimo, in altra parte impigrito dalla totale assenza di incentivi, talvolta del tutto inerte o assente. Il male è che ai primi, i paria, si accolli tutto il peso della flessibilità necessaria, che non si può o non si vuole chiedere al personale di ruolo; e che ciononostante essi siano trattati molto peggio, sotto ogni punto di vista. E’ apprezzabile che il governo si proponga di correggere un'ingiustizia e un'incongruenza tanto gravi. Il problema, però, è che correggerle per davvero implica mettere in discussione l'intero sistema dell'amministrazione pubblica; perché, in quel sistema, la precarietà degli uni è l'altra faccia dell'iperprotezione e inamovibilità degli altri.
Limitarsi a trasferire gli avventizi dal regime di iperflessibilità a quello di iperprotezione produrrà l'effetto di assimilarli in tutto, anche nei comportamenti, al vecchio personale impiegatizio; e i ruoli pubblici, ancor più sovradimensionati di prima, torneranno a essere inaccessibili per molti anni, creando nuove generazioni di precari e di esclusi. Qualcuno, dalle file della maggioranza, replicherà che il governo si appresta a stipulare entro Natale con le confederazioni sindacalimaggiori un «memorandum» sul rinnovo dei contratti collettivi pubblici, destinato a garantire che d'ora in poi la produttività venga adeguatamente premiata. Per quanto è dato saperne, questo documento segna, in qualche misura, un passo avanti in questa direzione; ma esso non basta certo a voltar pagina incisivamente rispetto a decenni di inerzia dell'apparato statale. Manca del tutto, in questo «memorandum», l'attivazione di organi indipendenti capaci di una valutazione puntuale e credibile dell'efficienza delle strutture pubbliche e degli addetti: senza di quelli, affidarsi a una sorta di verifica concertata con i sindacati è — nel migliore dei casi — un'ingenuità. Manca il principio per cui non si devono valutare solo l'efficienza e la produttività medie di una struttura, ma anche le differenze enormi di rendimento tra gli addetti migliori e i peggiori: passaggio indispensabile se si vuole davvero premiare quelli che lavorano per due e stanare i nullafacenti.
Manca un meccanismo credibile di individuazione dei molti casi di grave sovradimensionamento degli organici, da risolvere con i trasferimenti. Manca infine — non ultimo per importanza—il principio di partecipazione e di piena voce della cittadinanza in questa valutazione, che non si garantiscono con le «consultazioni », ma col dare ai ricercatori, alle associazioni degli utenti, ai giornalisti specializzati, l'accesso costante e immediato a tutti i dati di cui dispongono gli organi di valutazione. Questi nuovi principi e strumenti costituiscono l'oggetto essenziale del progetto di legge elaborato da un gruppo di giuristi, di cui abbiamo dato notizia su queste pagine giovedì 7 (Un'Authority per il merito) e che verrà presentato al governo e ai sindacati venerdì prossimo. Dal modo in cui governo e sindacati risponderanno analiticamente, su ciascuno dei punti indicati, si misurerà la serietà del loro impegno riformatore.
12 dicembre 2006

La videochat con il giuslavorista Pietro Ichino «Gli elogi da destra? Nessun imbarazzo»

 

È d'accordo con il ministro per l'Innovazione Luigi Nicolais che ha annunciato nuovi criteri valutativi del lavoro, parlando nello specifico di «valutazione oggettiva della performance nella pubblica amministrazione»? (Marco, Brescia)
«La proposta non è di Nicolais. Alle nostre spalle abbiamo già il rapporto Giannini degli anni '70 e soprattutto le riforme di Cassese e di Bassanini negli anni '90. I nuclei di valutazione esistono in tutti i comparti pubblici, li ha istituiti proprio la legge Bassanini del '98-99. Ma hanno il difetto di poca trasparenza e qualche volta di non sufficiente indipendenza. Dobbiamo valorizzarli e sottoporli a un confronto pubblico e aperto con gli osservatori qualificati (sindacati, associazione dei consumatori e degli utenti). Questo consentirà quella "valutazione oggettiva della performance" di cui parla Nicolais, che finora è stata teorizzata ma che non è mai decollata. Dobbiamo farla decollare».

Perché non è possibile redistribuire con facilità i dipendenti pubblici? In alcuni enti sono decisamente in esubero, in altri il contrario. Spostarli da un settore all'altro è davvero cosi difficile?
(Vincenzo, Latina)
«Il sindacato si è sempre opposto al trasferimento d'ufficio. A parole è disponibile, ma nei fatti no. Sembrano dire: è giusto trasferire un dipendente da dove non serve a dove serve a patto che siano d'accordo i rappresentanti sindacali dell'azienda, i quali - è l'esperienza che ce lo insegna - non danno il consenso se prima non lo ottengono dai singoli interessati. La conseguenza è che abbiamo sindaci che non possono trasferire i dipendenti da un ufficio a quello che sta nella via accanto, e poi code agli sportelli, quartieri senza vigili e musei che chiudono alle sei di pomeriggio. In questi casi, si deve operare senza il consenso dei rappresentanti sindacali. E per questo è indispensabile l'opera degli organismi di valutazione. Quella fascia di impiegati al di sotto del livello di efficienza dovrebbe essere disponibile al trasferimento come conseguenza della valutazione di improduttività data dall'organismo indipendente».

Io sono l'esempio contrario: un dipendente privato che passa il giorno davanti ad internet perché NON HA LAVORO DA SVOLGERE. E' veramente deprimente e sento di guadagnare una cifra spropositata rispetto alla quantità e qualità del mio lavoro(Max)
«Nel privato, accade anche questo. Ma c'è una piccola differenza. Se il management non è capace di individuare ed eliminare questo tipo di situazioni, alla lunga l'impresa privata fallisce. Nel pubblico non è così. Il management è inerte, e lo è ormai da decenni. L'inefficienza e l'improduttività non generano la verifica. Non si paga pegno».

Al liceo ho avuto molti professori bravi, alcuni professori mediocri e tre nullafacenti. Non male, ma poteva andare meglio. Tutti nella scuola erano a conoscenza del problema, ma sembrava che non ci fosse soluzione: quei professori toccavano a noi, così ha voluto il destino. È giusto?(Amedeo, Bruxelles)
«In tutte le scuole, in tutte le sezioni, c'è il caso del docente nullafacente: è una sfortuna ma anche una grande ingiustizia. È un caso tipico di rendita parassitaria di cui pagano le spese intere generazione di studenti.
I professori nullafacenti sono pochi ma fanno molti danni. La possibilità di licenziamento è questione di equità. Lasciare al suo posto il prof. nullafacente significa penalizzare la parte più povera e bisognosa del Paese, quella che non ha una famiglia alle spalle che può rimediare alle lacune dei docenti. Non licenziandolo, si tradisce la funzione della scuola pubblica».

Come vedrebbe la creazione di un organo esterno che invece di creare dannose liste di proscrizione controllasse il rendimento del personale di ogni singolo ufficio, con ampi poteri anche sanzionatori sulla dirigenza per indurla ad applicare strumenti già esistenti ma inutilizzati?
(Andrea, Roma)
«È una delle due possibili versioni dell'organismo indipendente di valutazione, quella dell'agenzia esterna o dell'authority pubblica. Se ne può discutere. L'esperienza inglese, olandese e svedese vedono esempi di questo genere. Ma - insisto - potrebbe essere sufficiente rivalutare i nuclei di valutazione, istituiti dalla legge Bassanini, rivitalizzarli, renderli indipendenti e trasparenti, anche su internet. Altrimenti si può scegliere il metodo pragmatico del "trying and go", ossia del confronto. Adottare due linee in due settori differenti e vedere quale funziona meglio».

Nessun imbarazzo a vedere le sue battaglie strumentalizzate dalla destra?(Chiara, Milano)
«La destra sta zitta e cheta su questo tema. Ha la coda tra le gambe anche perché in 5 anni di legislatura nulla è stato fatto su questo terreno. Per quel che mi riguarda, non ho avuto grandi consensi dagli uomini politici del centrodestra mentre ho ricevuto molte manifestazioni di interesse e di cooperazione dal centrosinistra. Già in passato i miei iscritti sono stati approvati a destra, non la parte politica cui appartengo, ma non per questo ho provato imbarazzo. Il compito dell'intellettuale serio è quello di mostrare i frutti della propria ricerca senza chiedersi a chi giova. La figura dell'intellettuale organico, di antica memoria, è da abbandonare: non fa un buon servizio né alla propria parte politica né alla cittadinanza. Ci vuole dialettica tra politici e studiosi ma ciascuno faccia il suo mestiere».
A cura di Luca Gelmini e Paolo Virtuani
09 novembre 2006

 

IL SONDAGGIO / Consenso sulla proposta di Ichino rilanciata da Prodi per gli impiegati pubblici Statali, larghe intese antifannulloni

Il 70% degli italiani, sia a destra sia a sinistra, favorevole al licenziamento


L'Italia e gli statali
Licenziare almeno una parte dei dipendenti pubblici che non lavorano? La proposta, avanzata qualche giorno fa sul Corriere della Sera da Pietro Ichino, ha suscitato grandi polemiche. Alcuni esponenti del mondo dell'economia e della politica (compreso lo stesso presidente del Consiglio, Romano Prodi) hanno detto di condividerla. Mentre altri, specie nel sindacato, l'hanno definita una «sciocchezza » o, tutt'al più, una «provocazione ».
Tra gli italiani nel loro insieme l'idea suscita una larga approvazione. E, ciò che è più significativo, il consenso è presente tra tutte le categorie, con una accentuazione tra i più giovani e tra chi possiede un titolo di studio più elevato. Ancoramaggiore è l'adesione tra i residenti nel Nord-Est. Com'è ovvio, l'idea di licenziare trova minor plauso nell'elettorato di centrosinistra. Ma anche qui resta maggioritaria: persino tra chi si definisce di sinistra tout-court, il 62% condivide la proposta di Ichino. Unorientamento così diffuso trae origine dalla visione che, a torto o a ragione, gli italiani si sono fatti del settore pubblico. Giudicato dalla maggioranza (quasi il 60%) meno efficiente di quello privato (anche se il 14% - che diventa il 24% tra chi si dichiara di sinistra tout-court - lo ritiene viceversa più efficiente).
Al sostanziale accordo con l'idea di licenziare i «lavativi», si accompagna però la convinzione che il giudizio sull'efficienza dei singoli debba essere espresso da criteri oggettivi: la proposta, sempre avanzata da Ichino, concernente l'indicazione degli inefficienti da parte di altri lavoratori accusati di scarso rendimento, trova consenso solo in una minoranza (17%). Quasi tre italiani su quattro (anche in questo caso, specialmente i giovani), viceversa, suggeriscono una più estesa e puntuale applicazione dei sistemi di misurazione della produttività anche ai lavoratori pubblici.
Alcuni, pur condividendo il suggerimento di Ichino, ne hanno sottolineato la difficoltà - secondo qualcuno l'impossibilità - di implementazione, sia per le resistenze interne alla stessa P.A., sia per gli intrecci tra quest'ultima e il mondo della politica. Forse anche per questi motivi, gran parte degli italiani, benché persuasa dalla proposta in sé, non ritiene che la sua attuazione possa rendere davvero più efficiente il settore pubblico. Per questo, la maggioranza auspica, da subito, una più ampia riorganizzazione dell'intero comparto. Si tratta, certo, di una richiesta fondata.
E' del tutto evidente, infatti, che, oltre a sollevare conflitti sociali rilevantissimi, specie in certe zone del Paese (una larghissima parte della popolazione meridionale vive, come si sa, del «pubblico »), il licenziamento degli inefficienti non garantirebbe di per sé il ritorno al buon funzionamento del settore. Che necessita di interventi organizzativi e normativi di più vasta portata. Resta il fatto, però, che la reale introduzione, anche nel settore pubblico, della possibilità di licenziare, costituirebbe, secondo la maggioranza degli italiani - anche di quelli residenti al sud - un segnale forte di svolta e di rinnovamento.
Renato Mannheimer
31 agosto 2006

 

Tagli di spesa ed efficienza nel pubblico impiegoIl sindacato e i nullafacenti

di Pietro Ichino

 

Alla proposta di individuare i dipendenti pubblici totalmente improduttivi e di incominciare a tagliare lì, piuttosto che tagliare sugli investimenti o sui servizi pubblici che funzionano (Corriere, 24 agosto), i sindacalisti del settore hanno risposto, come previsto, con un «no» secco: niente licenziamenti; semmai «mobilità» e incentivi. Però hanno riconosciuto che il problema esiste, e in misura non trascurabile. Questo è già un passo avanti notevole: tutti dunque concordano che nell'amministrazione pubblica c'è una quota rilevante di nullafacenti.
Allora, che cosa intende fare di questi nullafacenti il ministro della Funzione pubblica? Continuare a voltar la testa altrove e a pagar loro lo stipendio a tempo indeterminato, mentre si taglia sulla spesa utile e sugli investimenti, sarebbe oggi intollerabile: non dimentichi, il ministro, che non si tratta dei lavoratori deboli e poco produttivi, ma di persone che non fanno proprio nulla, non ci sono e quando ci sono è come se non ci fossero; una categoria che alligna solo nel settore pubblico. È giusto ascoltare con la massima attenzione quel che dice il sindacato, ma nella materia di sua competenza, cioè in quella della protezione dei lavoratori; i nullafacenti, per definizione, non sono lavoratori.
Esaminiamo, comunque, le tesi dei sindacalisti su questo problema. La prima: licenziare non si deve, mai. Ma non sono forse licenziamenti anche i prepensionamenti di impiegati anziani che il governo sta studiando in questi giorni, con il tacito consenso degli stessi sindacalisti? E licenziando gli anziani, non si rischia di privare indiscriminatamente gli uffici pubblici di competenze talvolta preziose e insostituibili? Se ridurre gli organici bisogna, non è meglio incominciare con l'impiegato totalmente improduttivo, riservandogli per due o tre anni un trattamento di disoccupazione pari alla pensione anticipata che verrebbe data altrimenti all'anziano produttivo, e ovviamente verificando che non abbia un'altra occupazione nascosta e che sia davvero disponibile a un'occupazione regolare? Veniamo alla proposta alternativa della «mobilità ».
I sindacati del settore pubblico fino a oggi si sono sempre opposti in modo fermissimo a qualsiasi trasferimento autoritativo di dipendenti pubblici: la «mobilità» che essi propongono è solo quella «volontaria ». Ma questa non risolve il problema: nessun impiegato nullafacente ha mai acconsentito a trasferirsi in un ufficio dove si deve lavorare sul serio. In molti casi, poi, anche il trasferimento autoritativo non risolve il problema: per esempio, se un professore non insegna, perché ha altre cose da fare o perché non conosce la materia che dovrebbe insegnare, trasferirlo altrove significa soltanto infliggere il danno ad altri studenti. I sindacalisti del settore pubblico sostengono poi che il problema potrebbe essere risolto con gli incentivi economici. Tutti noi, però, conosciamo la determinazione con cui loro stessi hanno sempre perseguito gli aumenti salariali indifferenziati e hanno di fatto impedito l'attivazione di sistemi retributivi capaci di premiare impegno e produttività.
È comunque evidente che non può essere un premio di produzione a sradicare il fenomeno dei nullafacenti. A me sembra che la sola soluzione efficace sia quella a) di un organo indipendente di valutazione che individui i nullafacenti, almeno quelli più smaccati (operazione relativamente facile); b) di una norma che stabilisca nella massima inefficienza e inutilità il criterio prioritario di scelta da applicare per la riduzione del personale pubblico, incominciando dai dirigenti; c) diunprocedimento giudiziale nelquale il giudice, quando annulli un licenziamentoimpugnato, accerti altempostesso chi altro debba essere licenziato secondo la corretta applicazione dei criteri stabiliti, previa, ovviamente, chiamata in causa del nullafacente interessato, a garanzia del suo diritto di difesa.
Questa soluzione ai sindacati del settore pubblico non piace? Ne propongano un’altra;manon le chiacchiere che si sono sentite fin qui: una soluzione vera, incisiva, efficace. Certo, per essere efficace qualsiasi soluzione comporterà maggior rigore in un sistemache per decenni è stato intollerabilmente lassista. D'altra parte, la lotta alle rendite—comesi è appenavisto nella vicenda del decreto Bersani — qualche durezza la richiede («la rivoluzione non è un pranzo di gala»). E la posizione di rendita dei nullafacenti del settore pubblicononmerita indulgenza maggiore rispetto a quelle, tutto sommato meno costose per la collettività, dei tassisti edi alcune categorie di liberi professionisti.
Da una parte c'è l'interesse dei nullafacenti a continuare a godere della rendita che finora è stata loro assicurata; dall'altra c'è l'interesse della maggioranza dei lavoratori pubblici—quelli veri—a una retribuzione adeguata, l'interesse dei precari a uscire dall'apartheid cui sono stati finora condannati, l'interesse della collettività a non veder tagliare gli investimenti necessari per lo sviluppo economico del Paese. In questo conflitto di interessi i sindacalisti del settore pubblico da che parte stanno?
29 agosto 2006


 







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