PRECARIATO: L'IMPLOSIONE DI UNA PROFESSIONE. UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA
Data: Venerdì, 20 ottobre 2006 ore 22:52:04 CEST
Argomento: Opinioni


1^ Parte.
 Precariato: le nuove caratteristiche di una malattia cronica

Il precariato è una malattia cronica della scuola italiana, una normale emergenza che dura da oltre 50 anni. In questi ultimi tempi essa ha assunto però caratteristiche del tutto nuove.

Il precario ha in media 39 anni e verrà assunto, secondo la dimensione dei posti lasciati liberi dal turn-over, ad un'età tra i 45 e i 55 anni.

Chi oggi aspira ad insegnare subisce quindi trattamenti destabilizzanti per oltre 20 anni, quali:

•  mobilità estrema tra sedi e ordini di scuola,

•  cambiamenti casuali e senza un senso preciso delle materie che insegna,

•  varietà altrettanto casuale del pubblico dei suoi allievi,

•  intermittenza costante delle relazioni professionali,

•  trattamento anonimo, per usare un eufemismo, negli uffici e a scuola,

•  solitudine dell'aula,

•  pervasività dello status di precario nella vita pubblica e privata.

L'anomalo prolungarsi di queste condizioni ha fatto del "precario" un personaggio a sé, non riconducibile a nessun prototipo professionale.


 

Gli effetti della precarietà

Ma quali sono gli effetti di questa nuova tipologia di precarietà?

Un primo effetto è la difficoltà di insegnare, la fatica di controllare la relazione pedagogica. L'autonomia professionale si trasforma per i più in una sorta di "kit di sopravvivenza", un mezzo per instaurare un modus vivendi con la classe, senza troppo esigere e senza troppo spendersi, e con il minimo coinvolgimento nelle così dette attività collegiali.

Che interesse può mai nutrire questo insegnante verso il proprio sviluppo professionale, quando da anni e anni non conosce né il proprio destino né la destinazione del proprio lavoro?.

Un secondo effetto è un forte indebolimento dell'immagine di sé che contribuisce ad approfondire la scarsa opinione che ha del mestiere d'insegnare e a mettere in crisi la stessa relazione educativa.

Una mutazione antropologica

La durata abnorme di questo "nuovo" precariato ha dunque determinato una tipologia di insegnante che :

•  non riesce a percepire l'insegnamento in termini di "fedeltà" a dei principi e a dei valori, perché non ha potuto sviluppare nessun senso di appartenenza e nessuna identità professionale;

•  non ha ideali, perché non ha avuto e non ha un ambiente in cui coltivarli, consolidarli e condividerli;

•  è portato ad autodifendersi, assumendo atteggiamenti utilitaristici che evitino che i costi del mestiere superino i benefici;

•  manifesta insofferenza e inquietudine verso i cambiamenti e le riforme, perché non ha nessuna aspettativa professionale e ha fatto della routine la norma di sopravvivenza.

Si può allora dire che se questi atteggiamenti e comportamenti, che sono oggi dominanti nell'anomalo e abnorme mondo del precariato, dovessero invadere un intero ricambio generazionale, saremmo di fronte a una vera e propria mutazione antropologica del ruolo dell'insegnante: una tipologia docente che si è lasciata alle spalle tutti i modelli formatisi e susseguitisi nelle precedenti fasi storiche.

La domanda allora è: "Quali conseguenze può avere sul futuro della professione docente, un modello di insegnante che, sorto sulle ceneri di un precariato protrattosi per decine d'anni, è connotato da sfiducia e diffidenza, da una degradante immagine professionale e da radicati atteggiamenti utilitaristici?"

Non vi è dubbio che il rischio sia serio: un ostacolo alla possibilità di innovare le pratiche di insegnamento e le regole etiche che le alimentano.


 

2^ Parte.
FERMARE LA DERIVA INVERTIRE LA MARCIA

 

Un problema strutturale non contingente

E' proprio il problema del precariato che dimostra come la questione docente non possa più essere affrontata separatamente per singoli punti e con rimedi contingenti. Essa esige una riflessione complessiva e soluzioni strutturali a partire da alcuni dati che sono sotto gli occhi di tutti, ma che nessuno vuole considerare, come quelli annualmente forniti dall'OCSE.

Il recentissimo Sguardo all'educazione (OCSE, 12 settembre 2006) ha ribadito che:

•  Fino alla scuola secondaria superiore l'Italia spende, in termini comparativi, somme notevolmente alte per studente, ma i risultati rimangono molto al di sotto della media OCSE

•  Le prestazioni relativamente basse dell'Italia non possono essere collegate a bassi investimenti, considerato che in Italia, la spesa annua per studente della scuola primaria e secondaria è ben al di sopra delle corrispondenti medie OCSE

•  Nell'istruzione primaria l'Italia ha il rapporto più basso insegnanti/alunni, 1 insegnante ogni 10,7 alunni: il più basso in assoluto fra i Paesi OCSE, e molto al di sotto della media OCSE di 16, 9 alunni per insegnante.

•  L'Italia spende la maggior parte delle risorse per un elevato numero di insegnanti mal pagati, per un orario scolastico degli studenti molto alto, per un basso rapporto insegnanti/alunni, senza trarne alcun beneficio in termini di risultati

•  Il fatto che il rendimento dei quindicenni nei test PISA nelle aree fondamentali di apprendimento (lingua, matematica, scienze) sia notevolmente al di sotto della media OCSE, fa sorgere non pochi interrogativi circa l'efficienza di queste scelte di spesa per l'istruzione.

 


 

Troppi insegnanti?

Quali sono le risposte italiane a queste osservazioni che da anni vengono fatte al nostro sistema scolastico?

L'atteggiamento prevalente è di ignorare la questione, verso cui si dimostra sufficienza e insofferenza.

I soli a preoccuparsene, di tanto in tanto, sono i ministri dell'economia in sede di stesura della legge finanziaria.

Ma il tutto viene regolarmente annullato o, se scritto, non attuato. Si tratta infatti di misure assunte in solitudine, senza nessun accordo preventivo su misure strutturali, non contingenti, relative all'organizzazione complessiva del sistema scolastico.

Così in assenza di piani concertati in seno al governo fra i ministri finanziari e quello dell'istruzione, la situazione rimane eternamente, gattopardescamente, identica a se stessa .

Ma cosa hanno detto il ministro dell'economia e il ministro dell'istruzione in fase di preparazione dell'attuale legge finanziaria?

 

L'accusa: il ministro dell'economia

Il ministro Padoa Schioppa, ha preso atto dei dati dell'OCSE, li ha denunciati, e ha tentato di introdurre in finanziaria misure di contenimento della spesa per il personale (si ricordi che questa ricopre il 98% del bilancio della Pubblica Istruzione). Aveva, certamente, fondati motivi per farlo ma ha agito con molta ingenuità, senza avviare nessuna preventiva discussione di merito sulle condizioni del sistema che generano le distorsioni e gonfiano i costi. Ascoltando i suoi dati, nessuno è rimasto folgorato sulla via di Damasco, anzi, si è scatenato immediatamente il fuoco di fila con in testa il ministro della pubblica istruzione sospinto e sostenuto dalla potente armata dei sindacati, da molte associazioni, da comitati ecc.

La difesa: il ministro dell'istruzione

La "difesa" dello stattus quo si fonda da anni sullo stesso ritornello. Nulla di nuovo sotto il sole. Si snocciolano le peculiarità italiane, a giustificazione dei numeri, senza collegamento alcuno con i risultati della nostra scuola, trattati come una variabile indipendente.

Le parole a difesa, pronunciate dal ministro Fioroni, sono le stesse sostenute da sempre, quasi con insofferenza, da sindacati, associazioni, comitati eccc.. ; eccole:

" Quando si dice che abbiamo troppi insegnanti, si dimentica che in Italia

  • •  ci sono i monti,
  • •  le piccole isole,
  • •  l'integrazione handicap,
  • •  e il tempo pieno. "

A cui il ministro recentemente ha aggiunto il minor numero di suicidi rispetto alla Finlandia .
 

Una giusta sentenza

Costruire una giusta sentenza, dopo aver sentito l'accusa e la difesa, richiede di approfondire l'indagine, e di fare emergere nuovi elementi.

Ora, quando si ipotizza di alzare il rapporto insegnanti/alunni, si pensa solo all'aumento del numero di alunni per classe, ma non è questo il punto.

Occorre ricercare le vere anomalie che producono in Italia un “gonfiamento” degli organici, senza migliorare l'istruzione, né tanto meno lo status professionale dei docenti.

Vediamole in sintesi:

 

Orario molto alto degli studenti

Uno dei dati che l'OCSE ha giustamente messo in rilievo, e che va tenuto in assoluta considerazione, è l'orario molto alto degli studenti . Ed è vero.

Tempo scuola nel 1° ciclo

Per quanto concerne la scuola primaria , non si può continuare a propagandare il tempo pieno, come il migliore modello possibile e spingere la domanda in quella direzione. Da una bella indagine svolta in Emilia Romagna, Idee di tempo Idee di scuola a cura di G. Cerini, ed. Tecnodid (2005) si rilevano alcuni dati interessanti su cui meditare. Un esempio: a Modena il tempo pieno copre il 63,8% delle classi, a Reggio Emilia, città a 19 Km da Modena con simili tradizioni civiche, il tempo pieno copre solo il 20% delle classi. Quando poi si analizza la soddisfazione dei genitori rispetto ai due tipi di scuola, tempo normale e tempo pieno, il grado di apprezzamento non è diverso per le due tipologie.

Quando si passa infine alla scuola media c'è un netto calo della richiesta di tempo prolungato.

Tutto questo sta ad indicare che occorre abbandonare antichi stereotipi , che vogliono la giornata dei ragazzi interamente regolata dall'istituzione scolastica, e valutare altri modelli che tengano conto dell'emergere di nuove esigenze e abitudini sociali.

Tempo scuola nel 2° ciclo

Nel secondo ciclo esistono due tipi di spreco:

•  l'aumento dell'orario dovuto ad un sovraccarico del numero delle discipline, che ha alimentato un crescente assenteismo fra gli studenti, che si traduce in sprechi di risorse umane ed economiche (i dati di una ricerca svolta dall'ADi in un istituto professionale di Bologna nell'a.s. 2002-03 indicavano una fruizione del servizio scuola sotto il 65%)

•  la riduzione negli istituti tecnici e professionali delle ore da 60' a 50', che in termini di organico significa 1/6 in più di insegnanti rispetto alle esigenze effettive e non nominali.

 

Formazione e istruzione professionale

Il permanere della separazione fra istruzione e formazione professionale, fra scuole e centri di formazione professionale, ha dato luogo a forme di vera e propria dissipazione di fondi.

Senza entrare qui nel merito dell' utilizzo quanto meno discutibile dei fondi per la formazione professionale, va stigmatizzata la pratica della così detta integrazione, che costituisce un costo elevato in quanto aggiunge ad un organico scolastico già ampio (negli istituti professionali copre 40 ore settimanali di lezione), un numero di formatori dei Centri professionali che agiscono in contemporaneità d'orario con gli insegnanti dell'istituto. E questo senza tenere conto che negli istituti tecnici e professionali esiste già la compresenza nello stesso orario dell'insegnante teorico e dell'insegnante tecnico pratico!

 

2° Ciclo: 1 anno in più rispetto a tutti i Paesi del mondo

E' universalmente noto che l'Italia è rimasto l'unico Paese nel quale il percorso secondario di studi si conclude a 19 anni, un anno dopo la maggiore età, senza che questo migliori di una virgola i livelli di istruzione. Un anno in più di scolarizzazione rappresenta evidentemente un notevolissimo aumento del numero di docenti, oltre che una penalizzazione per i singoli studenti rispetto ai loro compagni europei.

In conclusione….

Proletarizzazione e precarizzazione :
uguali aggressioni alla professione docente

La proletarizzazione, che consiste nel mantenere un alto numero di insegnanti mal pagati, privi di status sociale, non selezionati e non valutati, senza carriera e prospettive, è l'altra faccia della precarizzazione.
Il precariato è rimasto, infatti, in un mercato del lavoro burocraticamente amministrato dal Centro, il solo strumento in mano ai ministri economici per controllare la spesa dell'istruzione, dal momento che su tutti gli altri aspetti non riescono ad intervenire.

Se questa è la situazione, almeno due provvedimenti si impongono sul versante degli insegnanti. Il circolo vizioso che si è instaurato fra negazione dei diritti e offuscamento dei doveri, deve essere in qualche modo interrotto.

 

Un nuovo stato giuridico

Il primo è un intervento legislativo: un nuovo "Stato giuridico" che attribuisca alla docenza lo status di "professione", anche per evitare che la scuola rimanga il ricettacolo della disoccupazione intellettuale. Questo obiettivo fu autorevolmente posto dall'UNESCO fin dal lontano 5 ottobre 1966, data che è oggi rimasta a celebrare la "giornata mondiale degli insegnanti". Il documento dell'UNESCO, tanto fondamentale quanto ignorato, fu "La Raccomandazione sullo status degli insegnanti",

Un nuovo Stato giuridico è dunque necessario, per valorizzare il merito professionale in tutte le sue forme, anche attraverso coerenti modalità di valutazione, e per dare contestualmente avvio a quella fascia di docenti specializzati o esperti, che fu prevista dalla legge 59/1997, ma che non è mai stata creata, nonostante la gestione delle scuole autonome abbia bisogno di queste figure di leadership intermedia.

Non si può, infine, mancare di rilevare come qualsiasi intervento su formazione e reclutamento si scontri con l'incapacità del Parlamento di porre fine a deleteri provvedimenti di sanatoria, sia per i docenti, ma ancor più per i dirigenti, di cui abbiamo anche in questi giorni una triste testimonianza.

La decentralizzazione dell'istruzione

  Il secondo provvedimento riguarda l'attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione, con l'assunzione da parte delle Regioni di tutti i compiti loro attribuiti in materia di istruzione.

Con la riforma costituzionale del 2001, statali rimangono solo le regole (le "norme generali sull'istruzione" i "livelli essenziali" e "i principi fondamentali"), mentre la gestione del servizio e quindi del personale, diventa quasi per intero regionale e per gli aspetti funzionali dell'istituto scolastico. Questa ridistribuzione di competenze appare oggi indispensabile per rimettere in moto una situazione scolastica drammaticamente ingessata dal persistente centralismo burocratico che questo ministero pare volere saldamente mantenere .

La speranza è che le Regioni, in un moto di orgoglio, vogliano impugnare il timone del cambiamento, anche se il documento del 12 luglio 2006, pare costituire per alcuni aspetti un arretramento rispetto al documento del 14 luglio 2005

In particolare desta preoccupazione la frase, riferita alla “gestione del personale della scuola”, secondo cui “la dipendenza giuridico-economica permane allo Stato nell'ambito di un ruolo unico nazionale del personale della Scuola

Ma, in ogni caso, il processo è in marcia ed è irreversibile. Possiamo solo augurarci che le Regioni vogliano governarlo nell'interesse dei diritti delle giovani generazioni e con la qualificazione della professione docente, secondo la Raccomandazione, tuttora inascoltata, dell'UNESCO, di cui oggi si celebra il quarantesimo anniversario.







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