LEOPARDI, SEMPRE INFINITO
Data: Sabato, 30 settembre 2006 ore 00:05:00 CEST
Argomento: Rassegna stampa



Leopardi, sempre infinito

Fino all'8 di ottobre è aperta ai visitatori, nelle sale del Castellare del Palazzo Ducale di Urbino, la mostra di fotografie sui luoghi leopardiani di Gianni Berengo Gardin Leopardi - la biblioteca, la casa, l'infinito, organizzata in collaborazione con Codice, Idee per la cultura, Fondazione Carlo e Marise Bo, Contrasto, famiglia Leopardi. Mette certamente conto andarla a vedere, perché, sebbene Leopardi viva nella memoria letteraria che un po' tutti abbiamo di lui e delle sue più note poesie, e sebbene per i lettori più attenti e intenti, parafrasando una celebre frase di Charles Péguy, dedicata ad Omero come simbolo di tutti i classici della letteratura, si potrebbe dire che «Leopardi è nuovo, stamattina, e niente è forse così vecchio come il giornale di oggi», pure prendere contatto con i luoghi leopardiani, proprio perché riletti dall'occhio di un altro artista, può aprire la via a nuove suggestioni extra-testuali. Stando al testo, diremo che il classico, quando si manifesta, ha la forza primigenia della creazione che disordina l'esistente, rompe le regole del mondo noto, produce caos ideologico e di stile mettendo in discussione, col proprio apparire, le vedute consuete e gli scolasticismi della norma. Il discorso vale anche per Giacomo Leopardi. Il quale pure, a una prima superficiale occhiata che conviene subito rinnegare per principio, sembra adagiato nella tradizione formale della immobile petrarchesca lirica italiana.

Petrarca e Leopardi

Dunque, va detto: Leopardi poeta si pone nel solco della tradizione, si inserisce nella costante linea di "fuga" dalla lingua realistica. In lui l'ascendenza petrarchesca è visibile e ricercata. Tanto più è notevole «la spiccata originalità del poeta di Recanati [in quanto] si realizza tutta all'interno di forme espressive già codificate» (Luca Serianni). Se cerchiamo qualche neologismo nei Canti, rimarremo delusi; se volessimo trovare qualche voce non autorizzata dalla tradizione, cercheremmo invano. Anche la scelta elettiva della canzone richiama il magistero petrarchesco. Soprattutto nelle composizioni giovanili, la rete di rimandi al Petrarca è fitta. Basti riprendere in mano la canzone All'Italia (1818). Qui il giovane Leopardi è debitore ancora forte del dettato del suo illustre predecessore. Le riprese sono quasi meccaniche. «Oimè quante ferite, / Che lividor, che sangue!», esclama Leopardi, ricordando «A le piaghe mortali / Che nel bel corpo sì spesse veggio» del Petrarca (CXXVIII). «... Io chiedo al cielo / E al mondo» è in parallelo con «Rettor del Ciel, io cheggio». In Leopardi l'enfasi retorica porta all'uso massiccio di tutta la strumentazione a disposizione per amplificare l'effetto dei nobili concetti espressi: dittologie, iterazioni, anadiplosi, anafore.

Petrarca e il nuovo Leopardi
Bastano dieci anni per misurare i balzi giganteschi che l'erudito e virtuoso poeta degli inizi compie scavando dentro la tradizione e il suo principale modello. Il petrarchismo leopardiano, per citare il titolo di un celebre e ancora esemplare saggio del 1904 di Cesare De Lollis, diventa altra cosa. Dentro la tradizione, Leopardi muta tutti i rapporti metrici e di significato, pur non rinunciando al bagaglio lessicale ricevuto. All'interno di questo, Leopardi compie un'opera di selezione (insistendo su un circolo di vocaboli prediletto: si pensi all'area semantica del ricordo: rimembranza, rimembrare, sovvenire, rammentare) e di riconnotazione in direzione della "vaghezza", della dilatazione semantica a scopo evocativo. Nello Zibaldone il poeta era stato, come sempre, lucidissimo nel segnalare la direzione principe presa dalla propria ricerca poetica e di poetica: «Non solo l'eleganza, ma la nobiltà, la grandezza, tutte le qualità del linguaggio poetico, anzi il linguaggio poetico esso stesso consiste, se ben l'osservi, in un modo di parlare indefinito, o non ben definito, o sempre meno definito del parlar prosaico e volgare». Ideologicamente, il topos petrarchesco, quando ripreso, viene rivissuto dall'interno, in nome di nuove motivazioni e personalissime, che allontanano Leopardi non soltanto dal Petrarca, ma anche dai lirici dell'Ottocento, fautori delle «magnifiche sorti e progressive» della storia e dell'umanità. Proprio il De Lollis nel saggio succitato porta ad esempio del petrarchismo "maturo" del Leopardi non più giovanissimo il Canto notturno, mettendolo a paragone con la canzone L del Petrarca («Ne la stagion che 'l ciel rapido inchina...»). Nel secondo si accampa la contrapposizione tra la propria sofferenza e la quiete serale che placa gli esseri umani, tra i quali spicca - immagine di rara efficacia - «la stanca vecchiarella pellegrina» che «più e più s'affretta» per consolarsi «d'alcun breve riposo, ov'ella oblia / La noia e 'l mal de la passata via». In Leopardi, al contrario, il «vecchierel bianco, infermo» «più e più s'affretta» fino a sprofondare in un - immagine di raggelante potenza - «abisso orrido immenso, / ov'ei precipitando, il tutto obblia». Commentava magistralmente De Lollis: «una stessa scena con molta conformità ritratta dai due poeti, si chiude poi nelle loro mani in modo differente quanto differente era il concetto che a traverso il proprio stato essi s'erano formato della vita umana».

Silverio Novelli 







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