Il dibattito
intorno al nuovo esame di stato
introdotto dal ministro della p. i.,
Fioroni, è apertissimo, anche se la
gran parte degli osservatori e dei
sindacati della scuola sono per lo
più d'accordo: finalmente si fa sul
serio, pare di capire.
Se critica s'è levata riguarda il
compromesso circa la formazione
della commissione: metà interna e
metà esterna. Per taluni sarebbe
carente per i criteri della scelta
delle materie; altri invece
avrebbero voluto un ritorno alla
commissione presessantottina: tutti
esterni. Nel complesso si plaude
anche al ripristino del giudizio di
ammissione e all'obbligo del saldo
dei debiti, compreso l'aumento dei
punti del credito formativo. Pure
sulla terza prova scritta elaborata
dai docenti della scuola qualcuno ha
storto il naso, drizzandolo a favore
di una uguale per tutta la nazione,
contrariamente alla tesi del
ministero che vuole lasciare spazio
alla autonomia didattica di ogni
singola istituzione. Piccolezze
anche se si sarebbe potuto
intervenire, con un autentico colpo
coraggioso d'ali, in modo veramente
radicale: abolendo il valore legale
del titolo di studio ma
sostituendolo con la certificazione
dei saperi e delle competenze
acquisite.
Un colpo d'ala per allinearci
all'Europa e per evitare l'ambiguità
di un voto complessivo che tutto
dice ma poco definisce. Come è noto
l'esame di Stato si fa solo in
Italia mentre negli altri Paesi
esistono esami di ammissione
all'università (da noi succede in
quelle a numero chiuso) per cui
rilasciare un diploma con un voto
che è la media di tante materie
appare ormai, nella società delle
competenze e delle specializzazioni,
quantomeno singolare. Nasce da qui
la proposta, tanto condivisibile
quanto ancora poco dibattuta, di
sostituire l'esame di diploma con un
esame che certifichi le competenze
raggiunte a conclusione di un ciclo
di studi che non può né deve avere
l'intenzione di respingere lo
studente. E il coraggio richiesto,
ma anche il dovere e la volontà di
farlo, sta nel definire bene e
descrivere preventivamente e a
livello ministeriale, e in modo pure
che servano come obiettivi dei
percorsi curricolari dei docenti, le
competenze che si richiedono e i
livelli dei saperi che i ragazzi
devono essere in grado di conoscere
al termine della loro vita
scolastica, così come è avvenuto per
le lingue straniere.
Il Consiglio europeo nell'opera di
riferimento per lo studio delle
lingue straniere: «Modern languages
learning teaching assessment. A
Common European Framework of
reference» (Strasburgo 1996) e
ribaditi dalle linee guida per
l'insegnamento delle lingue
straniere in Europa, ha fissato tre
macro livelli di competenze: A,B,C,
suddivisi a loro volta in
altrettanti sotto livelli: A1-A2;
B1-B2; C1-C2 con ancora altrettanti
sublivelli. In ciascuno di essi è
descritto nel dettaglio, non solo
cosa deve essere in grado di sapere
(conoscere) l'alunno ma anche le
metodologie di insegnamento e le
modalità di verifica. Tutte le
scuole di lingua straniera in tutta
Europa adottano questi parametri,
questi livelli e una similare
certificazione cosicché ogni azienda
europea sa con precisione il livello
di preparazione del giovane sulla
specifica lingua straniera, proprio
perché essa è chiaramente indicata,
per lo più effettivamente oggettiva
e soprattutto valida dovunque.
Non è certamente semplice descrivere
e definire per ciascuna altra
disciplina questi standard, ma se
per le lingue si è fatto altrettanto
può avvenire altrove. La chiarezza
degli obiettivi e delle competenze
darebbe garanzie e certezza non solo
al lavoro dei docenti e allo studio
dei ragazzi, ma anche alle aziende,
alle università e darebbe pure più
credito a coloro che decidessero di
lavorare all'estero. Certificare
ciascuna competenza toglierebbe pure
l'incubo della bocciatura e darebbe
l'opportunità di ripetere per avere
migliori risultati, oltre a
consentire ai commissari prove
oggettive di valutazione: quello che
conta sono i reali saperi che lo
studente ha acquisito.
Pasquale Almirante