La credibilità dell’insegnante
Data: Giovedì, 24 agosto 2006 ore 12:20:34 CEST
Argomento: Opinioni


Guido Gili, preside della facoltà di Scienze umane e sociali Università del Molise

Premetto che non sono un pedagogista, un esperto di didattica o un filosofo dell’educazione. Sono solo un sociologo, per la precisione un sociologo che si occupa di comunicazione, a cui è capitato di dirigere per qualche anno nella sua Università il Corso di laurea in Scienze della Formazione primaria e la Scuola di specializzazione per gli insegnanti della scuola secondaria.
Questo fatto mi ha permesso di incontrare tanti insegnanti, persone che già insegnavano, e tanti che aspiravano a diventare insegnanti. Così nei molti incontri di questi anni, mi è capitato spesso di chiedermi quali siano le questioni principali, le sfide principali di questo mestiere, di questa professione, che una volta veniva spesso indicata con una parola impegnativa, cioè una “vocazione”. Così come me lo chiedo ogni volta che entro in un’aula piena di studenti. E me lo chiedo adesso, davanti a voi.

A mio avviso la questione centrale, il problema centrale è quello della “credibilità”. Quindi se dovessi dare un titolo a questo mio intervento, potrebbe essere “la credibilità dell’insegnante” o anche “l’insegnante credibile”. Mi porrò dunque questa domanda e la porrò anche a voi: “chi è l’insegnante credibile?” e “quali sono le caratteristiche, le forme, i modi della credibilità?”

Il tema della credibilità mi affascina molto perché credo sia un problema centrale, anzi il problema centrale, della relazione e della comunicazione umana. E quindi anche il problema centrale della relazione educativa e della comunicazione educativa. La sfida fondamentale per l’insegnante di fronte ai suoi allievi.
Ma non solo: è anche la domanda e la sfida fondamentale dei genitori di fronte ai loro figli, è la sfida essenziale per chi fa attività politica, per chi lavora nel mondo dell’informazione e della comunicazione, e comunque per chiunque abbia una qualsiasi responsabilità nei confronti di altri.

1. La credibilità è una relazione

Ma – primo punto – cosa è la credibilità e quali ne sono i fondamenti, le radici profonde?

A questa domanda molti di voi risponderebbero: è credibile chi è onesto, chi è coerente, chi è affidabile. Questa è la risposta che ha dato anche Aristotele nella Retorica. Aristotele dice che noi crediamo più facilmente alle persone oneste. E aggiunge: questo vale in generale, ma vale ancor più nelle questioni che non comportano certezza, ma opinabilità. Quindi per Aristotele e per la percezione comune, cioè della maggioranza di noi, la credibilità è una qualità personale, una caratteristica morale della persona. In termini comunicativi si potrebbe anche dire che la credibilità è un effetto intrinseco dell’emittente, un effetto intrinseco della fonte.
Aristotele, e chi la pensa come lui, ha ragione, ma solo in parte. Per metà ha ragione, per metà ha torto.

Perché? Perché, se riflettiamo meglio, la credibilità non è – o non è solo – una qualità personale. Così come non lo è l’autorevolezza. La credibilità è qualcosa che viene riconosciuto dagli altri. Anche se evidentemente non può prescindere dalle qualità personali – che ne costituiscono la base, il fondamento – la credibilità non è una caratteristica intrinseca della fonte, ma è una relazione, è un rapporto. Noi diciamo infatti: “io ti riconosco credibile, io ti credo, io ti do la mia fiducia”. E’ lo stesso accade per l’autorevolezza, quando diciamo “io ti riconosco il diritto di guidarmi, e perciò ti seguo”. Che la credibilità sia una relazione, lo dimostra nel modo più evidente il rapporto tra il leader carismatico e i suoi seguaci: per loro, cioè dentro il loro rapporto, egli è assolutamente credibile e autorevole, una persona dotata ai loro occhi di qualità eccezionali, sovrumane; per gli altri egli è spesso un pazzo o un delinquente o un criminale.

C’è un altro aspetto che vorrei farvi notare.
In ogni relazione comunicativa, le persone si attribuiscono reciprocamente una maggiore o minore credibilità. Tuttavia attribuire all’altro una qualche credibilità costituisce, come ha osservato giustamente il grande filosofo Gadamer, l’accordo portante su cui si regge ogni relazione comunicativa, e in fin dei conti ogni relazione umana. Cioè noi anticipiamo sempre all’altro una qualche forma di credibilità, di affidabilità. Anche l’incomprensione, il fraintendimento (non voluto) o la menzogna (voluta) sono necessariamente preceduti da una anticipazione di credibilità, di fiducia, cioè dall’idea della sensatezza e della verità di ciò che l’altro afferma.
Se, per ipotesi, sulla terra ci fossero solo due individui, questi potrebbero imparare a comunicare e a comprendersi, per quanto questo sembri difficile. Se però, anche uno solo dei due attribuisse all’altro sistematicamente opinioni e credenze false, se cioè non gli riconoscesse la capacità di parlare sensatamente e di dire il vero, questo comporterebbe l’impossibilità di ogni relazione. Cioè la relazione umana sarebbe impossibile.

2. Le tre radici della credibilità

Secondo punto. Abbiamo detto che la credibilità è una relazione ed è una dimensione presente in ogni rapporto umano.
Adesso chiediamoci: ma quali sono le radici della credibilità? I suoi fondamenti? Su cosa si basa la credibilità?
Io direi che esistono tre grandi radici, tre grandi “cause” della credibilità.

La prima radice è costituita dalla conoscenza e dalla competenza. E’ cioè la credibilità che nasce dalla conoscenza, dalla competenza: è essenzialmente la credibilità dell’esperto. Il caso più “tipico” è quello della credibilità dello scienziato, e più in generale, della persona “bene informata”. E’ ad esempio, anche la credibilità del giornalista che è credibile se appunto svolge il suo lavoro di informare secondo le regole della completezza, dell’equilibrio, della attendibilità. Questo primo tipo di credibilità soggiace al criterio della falsificabilità popperiana secondo cui una proposizione è vera finché non viene invalidata, cioè falsificata, da qualche fenomeno che la contraddice. Così si può dire anche della credibilità dell’esperto (e quindi è una credibilità abbastanza facile da controllare, da sottoporre a verifica).

La seconda radice della credibilità è basata sui valori, cioè sulla condivisione delle nostre concezioni di ciò che è buono, giusto, preferibile. Ciò per cui “vale la pena”. I sociologi definiscono i valori: “le concezioni del desiderabile”. E’ la ragione per cui, ad esempio, io riterrò altamente credibili quelle persone che incarnano, mi mostrano in modo evidente nel loro modo di essere, nella loro condotta, quell’ideale di “vita buona” che anch’io vorrei realizzare in me stesso. Se io vivo in una società di guerrieri, la persona più credibile sarà quella più forte e valorosa. In una società fortemente religiosa in cui è fondamentale il rapporto con il divino, questo ideale sarà rappresentato dal santo, dal mistico o dallo sciamano. In una società che pone alla sommità della sua scala di valori la ricchezza e il successo, io riterrò credibile chi ha molti soldi, chi ha fatto una bella carriera professionale o chi compare spesso in televisione. Quindi tendiamo a ritenere più credibile chi condivide i nostri stessi valori oppure chi incarna i valori che godono di maggior prestigio, di maggior considerazione nella nostra società.
[Qui c’è un nota bene. Questa seconda radice però, spesso si intreccia, con un altro elemento, cioè con l’elemento del potere e della posizione sociale (status). Spesso chi incarna i valori centrali di una società è anche chi detiene una qualche forma di potere. E proprio per questo risulta credibile – o almeno riesce a farsi obbedire – anche e soprattutto per il potere di attribuire ricompense o punizioni. E questo complica molto il quadro e lo rende meno limpido.]

La terza radice della credibilità è basata sull’attaccamento e sull’affettività. Fa leva cioè sulla dimensione affettiva. E’ quella forma di credibilità per cui noi diciamo: “io ti credo perché ti voglio bene”. E’ la credibilità che si basa sulla percezione di un legame, come accade, ad esempio, nel rapporto tra la madre e il figlio, soprattutto nei primi anni di vita, cioè nel corso di quella che chiamiamo la socializzazione primaria. Senza dubbio la madre dispone di conoscenze e competenze che il bambino riconosce e segue (cioè la prima radice); senza dubbio rappresenta e incarna quei valori che spingono il bambino all’imitazione e poi, si spera, ad una adesione consapevole (quindi, la seconda radice), ma è essenzialmente l’attaccamento, l’affetto profondo che spinge il bambino a credere alla madre, a credere nella madre.
[Sempre alla radice affettiva fa riferimento il fatto che riteniamo più credibile chi ci è simpatico (colui verso il quale nutriamo un sentimento positivo) rispetto a chi ci sta cordialmente antipatico (verso il quale abbiamo un sentimento negativo). Proprio perché la simpatia – come ci dicono tutti coloro che l’hanno analizzata più da vicino, come Scheler o Edith Stein – è una sintonia, cioè una corrispondenza umana.]

Quindi ci sono tre radici principali della credibilità. Qui le ho descritte in modo ideal-tipico, allo stato puro. Nella vita reale, concreta, queste tre radici si intrecciano e si mischiano: così una fonte che originariamente si legittima per la dimensione cognitiva, valoriale o affettiva, può poi risultare credibile anche per altri aspetti che essa richiama. E un tipo di credibilità può generare un altro tipo di credibilità. Ad esempio, immagino che molti di voi ritengano Giovanni Paolo II “credibile”. Perché? Non solo perché ha una competenza conoscitiva (cioè la corretta esegesi e interpretazione del messaggio evangelico), non solo perché incarna quei valori e quei modi di essere e di agire che sono propri della antropologia cristiana, cioè della visione cristiana dell’uomo e del mondo, ma ancor più lo ritenete credibile perché, nel tempo, conoscendolo, vi siete sinceramente affezionati a quell’uomo. Quindi non lo ritenete credibile solo perché è il papa, cioè quella figura al vertice dell’istituzione Chiesa, ma perché è quell’uomo, proprio lui.

Dobbiamo anche notare che la credibilità ha una estensione: c’è una credibilità più estesa, universalistica, che vale “in generale”, ed una credibilità più “mirata”, limitata ad oggetti specifici.
La credibilità basata sulla conoscenza, cioè la credibilità dell’esperto tende, almeno nella nostra società, ad essere necessariamente una credibilità specifica, limitata, ed anzi si fonda proprio su questo aspetto. Nelle società del passato, l’essere sapiente o erudito si rivolgeva all’intera conoscenza umana e coincideva con un ideale di perfezione morale (l’ideale della “sapienza”). Con lo sviluppo della scienza moderna, sempre più la competenza si restringe e si specializza, viene riferita ad un oggetto ben definito. La credibilità “specifica” fa sì che una persona sia credibile in un contesto o su un determinato tema, ma non lo sia necessariamente e allo stesso modo in un altro contesto o argomento. Ad esempio, un ottimo studioso di matematica è altamente credibile nel suo campo di studio, ma può essere assolutamente inaffidabile quando deve consigliare un buon film ad un amico.
La credibilità generalizzata è invece attribuita alla persona come tale o a ciò che rappresenta. La credibilità normativa, cioè la credibilità basata su valori, e, ancor più, la credibilità affettiva, tende ad essere una credibilità generalizzata in questo preciso senso, cioè basata più sull’affidamento personale che sulla competenza specifica.

A questo punto dobbiamo rapportare questo discorso alla credibilità dell’insegnante.


3. Le tre radici della credibilità dell’insegnante

Io partirei da una premessa sociologica. Che ci permette di essere realisti e di non sfarfallare troppo. Quello dell’insegnante è un ruolo e, come ogni altro ruolo sociale, sta al centro di un sistema di aspettative, cioè di un fascio di aspettative diverse e spesso divergenti, contrastanti: le aspettative dei ragazzi, dei loro genitori, dei colleghi, dei dirigenti scolastici, del Ministero, dei mass media, della società in generale. Ognuno di questi interlocutori ha una particolare aspettativa di credibilità nei confronti dell’insegnante, che può essere anche diversa. Io però, pur non dimenticando gli altri, focalizzerò l’attenzione sull’aspettativa di credibilità che viene dagli studenti. Perché, alla fine, sono loro i principali interlocutori del nostro lavoro.

1. La competenza.

La prima radice della credibilità – abbiamo visto – è la radice cognitiva, cioè la credibilità basata sulla competenza, in particolare, la competenza dell’esperto.
Qual è la competenza dell’insegnante, di quali aspetti e fattori è costituita la competenza dell’insegnante?

Innanzitutto, l’insegnante è un esperto di una disciplina o di un insieme di discipline e il suo ruolo è trasmettere la conoscenza, i contenuti conoscitivi di queste discipline. Quindi il primo aspetto è una competenza disciplinare. La competenza disciplinare è quella che si associa immediatamente all’idea di un bravo insegnante. Se uno non ha imparato abbastanza durante l’università, continui a studiare, continui a imparare. Io ammiro quei giovani insegnanti che, usciti dall’università, passano le notti a studiare per preparare la lezione del giorno dopo. Forse lo dovranno fare per molti anni. Non basta aver superato un concorso o un’abilitazione e nemmeno aver frequentato la formazione universitaria per insegnanti. Certo, questa è la società del credenzialismo, in cui valgono i titoli, i diplomi, dove uno insegna sulla base di un pezzo di carta, un concorso vinto, uno straccio di abilitazione. Ma questo non può bastare, è sempre troppo poco.

Il secondo aspetto della competenza è la capacità di insegnare, cioè quell’insieme di competenze didattiche e metodologiche che permettono di trasmettere nel modo migliore, più efficace, più coinvolgente questi contenuti disciplinari e culturali. Talvolta sentiamo dire: certo è molto competente, sa bene la sua materia, ma non sa insegnare. Quindi insegnare non è – o non è solo – sapere bene i contenuti. Occorre saperli comunicare, saperli trasmettere.
Per questa ragione, per fornire queste competenze è nata la formazione universitaria degli insegnanti.
Quella dell’insegnante è una alta professionalità, cioè una professionalità qualificata e complessa, che giustamente richiede un percorso formativo universitario. Il ruolo – e il compito – di chi insegna nella scuola, dalla scuola primaria alle scuole superiori, non è semplice. All’insegnante sono richieste molte competenze: in campo psicologico, pedagogico, didattico, ed anche sociologico, estremamente sofisticate.
Ma per diventare dei buoni insegnanti non basta l’università. Occorre la scuola. Occorre imparare guardando e coinvolgendosi con chi già insegna. Ecco perché è così importante il Tirocinio formativo, che vede la “alleanza” tra università e scuola per la formazione dei futuri insegnanti. Per questo vorrei rivolgervi una raccomandazione. Accogliete i tirocinanti con simpatia, con benevolenza, non con un senso malinteso di concorrenza, quasi a vedere chi è più bravo, perché da voi possono imparare molto, perché sono coloro che verranno dopo di voi e voi ne siete responsabili non meno di noi docenti universitari.

Il terzo aspetto della competenza è la competenza comunicativa. La competenza comunicativa è molto di più della pura competenza disciplinare ed anche della competenza didattica. E la capacità di identificare le modalità comunicative più adatte alla propria intenzione, al contesto e allo scopo. E soprattutto la capacità di adattare la propria comunicazione al pubblico che ci sta davanti, quello che in termini tecnici si chiama il “destinatario designato”. Voi, in questo momento, ad esempio, siete i miei destinatari designati. Quindi la mia comunicazione deve essere costruita, concepita, per voi, deve tener conto di voi. Se io avessi di fronte un pubblico di miei studenti o di miei colleghi professori universitari, la mia comunicazione sarebbe diversa, dovrebbe essere diversa. Quindi i concetti che esprimo, le parole che scelgo, i riferimenti che faccio, la stessa comunicazione non verbale che accompagna le mie parole, cioè la mia espressività comunicativa, tiene conto di voi, è fatta per voi, in funzione di voi. Un bravo insegnante deve essere un buon comunicatore. Ma il buon comunicatore è colui che, per usare le parole di un grande psicologo sociale (George H. Mead), sa assumere il “ruolo dell’altro”. Cioè sa “decentrarsi”, sa uscire da se stesso per assumere lo sguardo dell’altro, la prospettiva dell’altro, sa interpretare l’aspettativa dell’altro nei suoi confronti. Io devo tener conto delle competenze dello studente, “sintonizzarmi” con queste competenze, non assumere un modello astratto di studente. Un insegnante non può dire: “ho fatto una bellissima lezione”, quando gli studenti non hanno capito niente. Se gli studenti non hanno capito niente, la tua lezione non vale niente. Perché la tua lezione deve essere fatta per quel pubblico, quello lì, non per un pubblico astratto. Questo non significa appiattirsi sul livello degli studenti, ma tener conto della concretezza del contesto in cui mi muovo e della concretezza delle persone che ho davanti. Io ho l’impressione che molti insegnanti non abbiano mai superato quella fase infantile che Piaget chiama dell’ “egocentrismo” e che, con una parola oggi più di moda, potremmo anche chiamare “auto-referenzialità”. La comunicazione auto-referenziale è una cattiva comunicazione, è una comunicazione inevitabilmente destinata al fallimento. Perché è una comunicazione che non tiene conto del suo pubblico, cioè paradossalmente di coloro a cui è rivolta.

Infine c’è un quarto aspetto della competenza: quella competenza che io chiamerei, usando una terminologia presa a prestito da un grande sociologo contemporaneo, Erving Goffman, la competenza o l’abilità drammaturgica. La caratteristica del lavoro dell’insegnante è di svolgersi costantemente sulla ribalta, davanti a un pubblico, sotto lo sguardo di un pubblico. Ci sono mestieri, professioni, che si svolgono essenzialmente nel retroscena – pensate a un meccanico o un idraulico, professioni che hanno a che fare con la produzione o la manutenzione delle cose. Il mestiere dell’insegnante, come tutte quelle professioni che hanno a che fare con le relazioni interpersonali, si svolge invece sulla ribalta, davanti a un pubblico. Gli studenti sono il nostro primo pubblico, anche se vi sono altri pubblici laterali (come i genitori o i colleghi). E’ questo aspetto, cioè l’essere sempre sulla ribalta, sempre sulla scena, sempre sotto lo sguardo di altri, uno sguardo che è anche giudicante, perché i nostri allievi ci giudicano, che produce quel tipico affaticamento e stress che è proprio dell’insegnante. L’insegnante deve essere sempre presente a se stesso, padrone della situazione, non mostrare debolezze, non perdere il controllo della situazione. E questo è stressante, è faticoso. E’ particolarmente logorante.
Tuttavia è essenziale per l’insegnante saper “tenere la scena”. Certo non tutti hanno le stesse qualità e capacità di “tenere la scena”, c’è chi è più estroverso, più sicuro di sé, più simpatico, ma questo è un problema con cui tutti devono fare i conti. Quando arrivano i nuovi professori, quelli giovani o i professori a contratto, io dico sempre: dovete sapere tenere, o imparare a tenere la scena, a catalizzare l’attenzione. Cioè a essere protagonisti di quello che fate. Non fate addormentare i ragazzi. Un insegnante noioso, moscio, è una iattura terribile.


2. I valori.

Veniamo alla seconda radice della credibilità: i valori.
I valori, cioè i criteri che guidano l’azione. Questi valori che fondano la credibilità si rivolgono in due direzioni: 1) i valori nei confronti del proprio lavoro; 2) i valori che guidano, che determinano la relazione con i ragazzi. Intuiamo che le due cose sono intrecciate, ma per chiarezza esaminiamoli distintamente.

Partiamo dai valori nei confronti del proprio lavoro.

L’insegnante deve essere serio nei confronti del lavoro che fa, deve prendere sul serio il lavoro che fa.
Qui c’è una piccola osservazione da fare. Nel confronto dei nostri ruoli sociali, tutti i nostri ruoli, noi possiamo essere più o meno immedesimati o cinici. Siamo immedesimati quando crediamo in quel ruolo che stiamo interpretando, riteniamo che quel ruolo corrisponda alla nostra persona, ci piace quel ruolo, ci sentiamo realizzati. Cioè, in sintesi, quando quel ruolo è un pezzo o una dimensione significativa della nostra identità. Al contrario abbiamo un atteggiamento “cinico” in tutte quelle situazioni in cui c’è distanza dal ruolo, il ruolo è assunto con una distanza, senza coinvolgimento, come una finalità estrinseca. Ad esempio di una professione non ci interessa il suo contenuto, ma solo le gratificazioni esterne che produce: lo stipendio, la considerazione sociale, etc.
Questa distinzione la percepiamo immediatamente quando usiamo due espressioni per descrivere il nostro lavoro: dire “io sono un insegnante” è diverso dal dire “io faccio l’insegnante”.

E’ certamente più credibile l’insegnante immedesimato con il suo lavoro, che prende il suo lavoro seriamente. Questo ha una serie di implicazioni. Ad esempio il fatto di aggiornarsi. Il rischio di chi per mestiere trasmette conoscenza è quello di adagiarsi in una routine. Cioè credere che trasmettere non significhi anche produrre, rielaborare, ricreare. Invece l’insegnante resta anche un ricercatore. Questo non solo perché le discipline, tutte le discipline – dalla linguistica alla storia, dalle discipline scientifiche a quelle artistiche – evolvono, vedono continuamente nuove scoperte e acquisizioni, nuove metodologie. Ma perché è costituivo di una professione intellettuale, quale è quella di un insegnante: mantenere viva una curiosità, che il ragazzo possa percepire.
Un altro aspetto di questa serietà è che non si deve improvvisare. Non c’è niente di più irritante dell’improvvisazione. L’improvvisazione fa perdere credibilità. L’improvvisazione nasce dall’eccesso di sicurezza. Io personalmente ho sempre degli appunti di quello che dico, anche su argomenti che conosco così bene che potrei parlarne anche dormendo. Gli appunti non dimostrano insicurezza, ma al contrario serietà nei confronti degli allievi. E poi gli appunti dicono di uno svolgimento, di un ragionamento di una riflessione, di uno sforzo per migliorare la propria performance. Dicono di una serietà.

Ecco. Qui vediamo come i valori nei confronti del lavoro, delle concezioni del proprio lavoro, si intreccino con i valori che devono guidare la relazione con gli studenti.
Questo è un aspetto fondamentale. E’ credibile chi chiede rigore a se stesso, prima che agli studenti. E’ il significato educativo dell’exemplum, dell’esempio, che non ha nulla di moralistico, ma identifica il senso profondo di ogni rapporto educativo. Fa parte di questo rigore, ad esempio, la puntualità, l’impegno, fino alle cose più banali, come il non fumare in classe o il non usare telefonino.
Non è per un ossequio ottuso e stupido alle regole. Perché la regola ha un senso diverso: la norma, la regola fonda – come diciamo noi sociologi – la reciprocità delle aspettative. Quindi la regola serve alla relazione, a dare senso e ordine alle relazioni. Io so cosa posso aspettarmi da te e questo mi rassicura. Io oggi avrei potuto venire qui e mettermi a ballare sul tavolo. Forse sarebbe stato più divertente per tutti, ma non è la ragione per cui siamo qui. Non c’è niente di peggio dei lunatici, dei bizzarri, degli originali a tutti i costi: cambino mestiere.

Infine un altro grande valore che dà credibilità all’insegnante è il valore della giustizia. Durante un’incontro, un’insegnante mi ha detto: è credibile chi è giusto, chi non fa preferenze. E’ vero. Ma qui la questione è più complessa. Da un lato l’insegnante deve trattare tutti i ragazzi secondo un criterio universalistico, senza particolarismi e preferenze. Se io ho in classe la figlia di un mio amico io non posso darle del tu, mentre agli altri do del lei. O non posso riservarle un trattamento di favore o perdonarle qualcosa in più perché, ad esempio, conosco la sua storia personale.
Però c’è anche un altro aspetto. L’educazione non è un esercizio burocratico, da impiegati, in cui si applicano esclusivamente dei criteri universalistici, propri di tutte le burocrazie, che trattano tutti – almeno in linea di principio – allo stesso modo. Certo, quello dell’insegnante è anche un mestiere burocratico, per cui io devo valutare, applicare regole, disposizioni, etc. Ma è anche un rapporto educativo. Io ho davanti persone che sono tutte diverse. Ognuna con una sua biografia, una storia, con sue esigenze, con sue potenzialità. Io devo essere capace di mediare il criterio universalistico – cioè la giustizia astratta – con l’attenzione al percorso di ogni ragazzo e alle sue esigenze specifiche. E questo è difficile, non è affatto facile.
Anche perché qui si inserisce l’aspetto della simpatia, quella maggiore preferenza o sintonia umana che proviamo per certe persone rispetto ad altre. Qui si cela una trappola, di cui occorre essere consapevoli. Gli psicologi sociali ci avvertono – giustamente – che la simpatia si indirizza più facilmente verso chi ci assomiglia, chi è più simile a noi: più simile nell’aspetto, nelle opinioni, negli interessi, nei valori, nell’ambiente di provenienza, nel modo di vivere. Questa leva, e questa trappola, è tanto più efficace perché in genere tendiamo a sottovalutare l’effetto della somiglianza sulla simpatia che proviamo per gli altri. Ed è doppiamente pericolosa. Da un lato perché ci rende incapaci di distanza critica verso certe persone, e invece questa distanza ci vuole, perché un insegnante troppo coinvolto non è un buon insegnante. Ed è pericolosa dal lato del ragazzo, che si sente ricattato ad assimilarsi all’insegnante, alle sue idee o ai suoi modi di comportarsi, senza esserne convinto, in modo ipocrita. I ragazzi mettono cioè in atto quelle che, ancora gli psicologi sociali chiamano “strategie di ingraziamento”, cioè il tentativo di rendersi simile – o meglio di apparire simile o bene accetto all’insegnante – per trarre vantaggio dal più favorevole atteggiamento che ciò produce. Ma questo è l’esatto contrario della credibilità. E’ un rapporto collusivo, è collusione.

Bene: quindi è più credibile l’insegnante immedesimato, motivato, che ci crede. Ma su questo dobbiamo fare un altro “nota bene”.
Un certo grado di distanza dal ruolo è necessario. Quale? Non certo il menefreghismo di chi aspetta solo lo stipendio. Questa è la “cattiva” distanza. C’è però anche una distanza “buona”.
Vi faccio un esempio. Un chirurgo deve essere coinvolto con il lavoro che fa. Deve essere “immedesimato”, cioè responsabile: deve essere consapevole dell’importanza di quello che fa, cioè che ha tra le mani la vita di un altro. Però deve anche essere freddo, lucido, cioè avere un certa distanza dal ruolo, non essere troppo coinvolto. Per il successo della sua azione, della sua intenzione, deve agire freddamente, senza farsi coinvolgere emotivamente, perché questo gli darebbe minore lucidità. Perché più facilmente gli tremerebbe la mano. Pensiamo, ad esempio, se dovesse operare un parente o un amico. Tant’è vero che molti, in queste particolari situazioni, preferiscono farli operare da altri. Bene, questa lucidità è la “distanza buona”.
Lo stesso vale per l’insegnante. L’insegnante deve essere immedesimato, coinvolto, ma l’insegnante troppo coinvolto, troppo “anima e core”, quello che concepisce l’insegnamento come pratica da “vecchia zia” buona non fa un buon servizio. E’ troppo coinvolto, troppo affettivamente coinvolto, troppo indulgente, quindi poco lucido. Questo impedisce di leggere con la dovuta intelligenza, con la dovuta distanza prospettica, la situazione del ragazzo, i suoi limiti, e quindi di intervenire con lucidità, di capire i passi che devono essere fatti, di giudicare correttamente qual è il suo bene.


3. L’affettività.

Vediamo ora la terza radice della credibilità: l’affettività.
Parto da un’osservazione. Io mi arrabbio profondamente quando sento dire che i giovani di oggi non hanno valori, non credono in niente. E mi arrabbio ancora di più quando a dirlo sono gli insegnanti. Alcune ricerche condotte da un istituto specializzato in ricerche sul mondo giovanile e sul mondo della scuola, mostrano che molti insegnanti la pensano esattamente in questo modo: i ragazzi non hanno più valori, non ha senso per loro l’impegno e il sacrificio. Interessano solo le sciocchezze, la televisione, la musica.
Questo è un giudizio profondamente ingiusto. Ed è un forma di auto-assoluzione. Non sono i ragazzi ad essere senza valori. Sono gli adulti ad essere senza valori, o almeno ad avere accettato dei valori deboli, un’etica della reversibilità e della contingenza, in cui ogni scelta può essere rivista, ri-considerata, ribaltata. Sono gli adulti non sanno indicare ai ragazzi un modello convincente dell’io e della società. Sono gli adulti che hanno “tirato i remi in barca”. E’ la nostra generazione, dei quaranta-cinquantenni che è rinunciataria, relativista, disimpegnata.
I ragazzi hanno respirato questo clima, respirano questo clima. Che è il clima dell’interesse, del tornaconto, della furberia, del massimo risultato con il minimo sforzo. Ma a grattare un po’, appena un po’, si ritrova una curiosità, un desiderio di impegno, di serietà, che è straordinario. Vi siete chiesti perché certi film come Il Signore degli Anelli (ma potremmo citare anche Il gladiatore o L’ultimo samurai) hanno avuto tanto successo tra i giovani? Certo potrete rispondere: perché sono stati oggetto di una promozione massiccia. Potreste anche dire, giustamente, che non mancano effetti retorici e pacchianerie hollywoodiane. Tutto vero. Però vi siete chiesti quali sono i valori di questi film? Questi valori sono il senso dell’onore (l’onore, un valore che si pensava fuori moda, un valore feudale, medievale, per dirla con Montesquieu, mentre il valore tipicamente moderno sarebbe la “virtù”, anzi la virtù “civica”), poi il senso della dignità dell’individuo che fa una scelta e a questa rimane fedele fino alla fine (questa è in estrema sintesi la storia della Compagnia dell’anello), poi il valore della libertà come conquista faticosa e non come semplice premessa astratta dell’agire, poi il valore del coraggio, il valore del sacrificio, che è anche il sacrificio di sé. Qualche superficiale pensa che l’onore sia un valore di destra e la libertà sia un valore di sinistra. Bene, questi ragazzi cinici e superficiali, di destra o di sinistra o a cui non importa niente né della destra né della sinistra, si sono commossi e entusiasmati di fronte a queste figure e a queste storie. Perché li interrogavano, contenevano implicitamente una domanda su di sé. Allora il problema vero è forse far sì che tutto questo non rimanga una pura emozione, o rimanga nell’implicitezza di un umore momentaneo.
E si potrebbe dire anche molto sulla Passione di Cristo di Mel Gibson. Non entro nel merito, anche se mi piacerebbe molto. Mi limito a questo: i ragazzi che lo sono andati a vedere, i tantissimi che lo sono andati a vedere, si sono disinteressati delle discussioni inutili e un po’ pretestuose su antisemitismo, violenza eccessiva, su cui tanto si sono infervorati gli intellettuali da circo mediatico. Sono andati a vederlo e basta. Perché il vedere basta. E alla fine, quando si accendevano le luci, rimanevano attoniti sulla sedia, con gli occhi sbarrati, o piangevano. Nessuno sghignazzava. Gli adulti sghignazzano o costruiscono elaborate teorie, giustificazioni e distinguo filologici, tutti modi per eludere la domanda, per sfuggire alla provocazione, per salvare la loro debole tranquillità.

Vedete. Tutto ciò per dire cosa? Che non sono i ragazzi che non hanno più valori, siamo noi che non sappiamo renderglieli convincenti, concreti, percepibili, incarnati.

Allora qui il punto chiave è davvero la credibilità fondata sull’affettività.

Il rapporto educativo è – prima di tutto e più profondamente di ogni altra cosa – un rapporto personale, cioè un rapporto tra due persone, in cui l’allievo percepisce l’insegnante non solo come una “macchina parlante”, un dispensatore di conoscenza (anche se questo è importante), ma come un modello affascinante e persuasivo di umanità e di sapere, insisto non solo di umanità, ma di umanità e sapere – perché le due cose nel nostro mestiere sono inesorabilmente intrecciate.

E questo mostra un’altra dimensione. Affettività significa coinvolgimento. Ma coinvolgimento vero significa reciprocità. La reciprocità rifiuta la complementarità rigida (il rapporto superiore-inferiore cristallizzato e superbo), ma anche la simmetria, cioè il malinteso di porsi sullo stesso piano dei ragazzi. La reciprocità è un’altra cosa. In fondo anche quando nascono i nostri figli, non siamo solo noi a socializzarli e ad educarli, ma anche loro ci socializzano, cioè ci “educano” al nostro ruolo di padri e madri. Perché tale ruolo non può essere saputo prima, ma viene appreso nel momento in viene sperimentato, in cui “accade”.

Che è dire: tu sei credibile, non solo perché sai bene le cose, sei appassionato a ciò che fai, c’è una simpatia o una sintonia con te, ma tu sei credibile perché mi ascolti. Perché mi guardi. Quante volte i nostri studenti intervengono durante le lezioni non perché hanno una domanda particolare sul contenuto di quello che stiamo dicendo, ma perché è come se dicessero: sono qui, ci sono, sono proprio io, guardami, prendimi in considerazione. Allora la più potente radice della credibilità dell’altro è la percezione che l’altro non è distratto, ma è “presente”. Perché dentro il ruolo, e dentro le regole e gli obblighi del ruolo – i programmi, le interrogazioni, i voti – io vedo la tua persona, io intravedo la tua persona.

Questo è il senso più vero e profondo della credibilità. Mi sembra che Guardini esprima bene questo concetto. In Persona e libertà c’è un capitoletto che si intitola proprio: La credibilità dell’educatore.
Dice Guardini:

“La più potente “forza di educazione” consiste nel fatto che io stesso [cioè, io educatore] in prima persona mi protendo in avanti e mi affatico a crescere”.

Qui, in questo “mi protendo”, si coglie chiaramente un’eco di San Paolo. Mi protendo e mi affatico a crescere. Cioè mi affatico ad essere più impegnato, più serio con me stesso, più attivo, più sollecito, più intelligente, più ricco di immaginazione. Che sono tutte qualità che si coltivano. Anche l’immaginazione e la creatività si coltivano.
E continua:

“Sta proprio qui il punto decisivo. E’ proprio il fatto che io lotto per migliorarmi che dà credibilità alla mia sollecitudine pedagogica per l’altro”.

Bene: proviamo a sintetizzare.

La prima radice – la competenza nella propria materia e la capacità di insegnarla – è fondamentale per la credibilità presso gli studenti, perché è la radice che dà il rispetto, ed è particolarmente importante per le altre categorie, che in vari modi e a vari livelli, valutano il lavoro dell’insegnante. La credibilità basata sulla competenza genera rispetto.

La seconda radice – l’adesione al valore dell’impegno verso la propria professione e verso gli studenti, la serietà e anche la passione con cui lo si svolge, il “crederci” – muove la stima. La coerenza, l’impegno, muovono, generano la stima. Questa è fondamentale per gli studenti.

La terza radice – cioè la radice affettiva – muove l’identificazione e il paragone personale. Per le altre categorie che hanno aspettative nei confronti del ruolo dell’insegnante, forse non è molto importante, ma è decisiva per il ragazzo. Quanti di noi nella scelta universitaria hanno scelto una disciplina non solo perché quella disciplina li appassionava, ma perché avevano di fronte un modello di persona che rendeva affascinante quella disciplina. Anche se era uno che la pensava in un altro modo. Per me è stato così. L’affettività non è necessariamente il sentimentalismo o l’essere d’accordo: è lo scontro con una persona umana, con una posizione umana. Io ti accetto o ti rifiuto, ma sto davanti a te, perché tu mi incuriosisci e mi interessi.


5. La credibilità del ruolo e la credibilità nel ruolo

Vorrei concludere con un’ultima riflessione: la credibilità è sempre collegata al ruolo e dipende dal ruolo, nel bene e nel male.
I diversi ruoli, sopratutto i ruoli professionali – come quello dell’insegnante – dispongono di un patrimonio più o meno grande di credibilità a seconda della istituzione in cui sono incardinati e a seconda della posizione che occupano in tale istituzione, più o meno elevata. Alcune professioni prestigiose godono di una elevata immagine di ruolo, che è un elemento importante nel sostenere la credibilità (e l’identità) del singolo professionista che esercita quel ruolo. Il ruolo può esercitare una influenza positiva o negativa sul comunicatore (a seconda che i ruoli siano idealizzati positivamente o negativamente, possano contare cioè su una immagine consolidata di credibilità o non credibilità).

Allora possiamo chiederci: qual è il patrimonio di credibilità di cui il ruolo dell’insegnante – in generale – gode oggi nel nostro paese?
E’ abbastanza facile rispondere. Non molta. E’ un patrimonio che si è fortemente eroso, depauperato, negli ultimi decenni.
Innanzitutto il prestigio sociale dell’insegnante si è ridotto di molto. Un tempo la professione dell’insegnante era chiaramente considerata una professione intellettuale e come tale meritava rispetto. Pochi studiavano e la conoscenza era una merce rara. L’insegnante era quindi detentore di una risorsa preziosa e socialmente apprezzata. Questo si manifestava immediatamente anche nel livello retributivo, superiore a quello dei ceti operai e impiegatizi. Proprio per questo la figura dell’insegnante, in particolare nei livelli superiori dell’istruzione, era soprattutto maschile. L’insegnante godeva inoltre di prestigio presso i genitori, che normalmente erano di livello sociale e culturale inferiore. Per tutte queste ragioni, unite anche a concezioni pedagogiche di tipo autoritario, la funzione dell’insegnante non era messa in discussione. Ma c’era anche un altro elemento che è rimasto presente fino agli anni settanta: l’idea che l’istruzione potesse essere un mezzo di avanzamento sociale, un’opportunità di miglioramento della propria posizione sociale. Quindi qualcosa su cui investire, per cui lottare e fare sacrifici. Questo era possibile in un clima di ottimismo, quale è quello del dopoguerra, in cui i genitori facevano sacrifici per far studiare i figli, era un investimento sul futuro.
Questa situazione oggi è radicalmente mutata. La scuola non ha più il monopolio e la centralità dell’educazione e della formazione. Sono sorte tantissime altre agenzie formative. Si parla anche di educazione e formazione permanente, long life learning. Educazione e formazione lungo tutto il corso della vita. E questa è l’origine della crisi d’identità della scuola. Il ruolo dell’insegnante ha perso in termini di prestigio sociale, sopravanzato da moltissimi altri ruoli professionali. I genitori degli allievi spesso hanno un livello sociale e culturale superiore agli insegnanti. Dal punto di vista della retribuzione, la professione ha perso molti punti, e questo anche nel paragone con altre professioni. Di solito quello dell’insegnante è il secondo stipendio familiare. Si prende poco, però è un lavoro compatibile con altri impegni famigliari. Quindi diventa sempre più un lavoro femminile. Poi la scuola, e questo è il dato più importante, non è più investita, nelle rappresentazioni sociali condivise, di quel valore positivo di opportunità, di palestra, di trampolino in cui si prepara il proprio futuro. Un futuro migliore. Così l’istituzione scolastica in generale e la figura dell’insegnante in particolare non godono più di molto rispetto, prestigio e credibilità. E questo spiega anche la disillusione diffusa che si coglie tra gli insegnanti, attestata da tutte le ricerche sociologiche, a cui facevo cenno, sulla percezione soggettiva che gli insegnanti hanno del proprio ruolo sociale.

Poi c’è un altro aspetto. Il prestigio e la credibilità del ruolo variano anche in base alla posizione che si occupa nell’istituzione. E qui ci sono parecchie differenze. Gli insegnanti di certi istituti godono di maggior prestigio rispetto a quelli di altri istituti. C’è un’immagine di istituto che dà più credibilità ad alcuni che ad altri. Ad esempio istituti che hanno una lunga storia, una lunga tradizione. Una scuola del centro di Milano o di Napoli gode di più prestigio di una scuola della periferia o della cintura suburbana. Poi il prestigio e la credibilità dipende anche dai tipi di scuola. Insegnare in un liceo classico dà più prestigio e credibilità che insegnare in un istituto tecnico o una scuola professionale. Qui naturalmente è anche questione di utenza: nei licei non vanno solo quelli con i migliori risultati scolastici, ma anche i figli delle famiglie più abbienti. Poi la credibilità e il prestigio dipende dal tipo di materia insegnata. Nei documenti ufficiali si può dire finché si vuole che tutte le discipline hanno una uguale dignità, ma così non è. Nelle rappresentazioni sociali condivise, insegnare lettere o matematica non è come insegnare storia dell’arte o educazione musicale o religione. Infine si ritiene che insegnare nelle scuole superiori sia più prestigioso che insegnare nelle medie inferiori e nelle elementari.

Certo qui ci sono tre livelli da considerare. Un livello macro che è quello del sistema scolastico nazionale, della legislazione e della sua organizzazione complessiva. Poi c’è il livello meso, intermedio, che è quello dei singoli istituti. Infine c’è il livello micro, cioè quello della classe e della concreta interazione che lì si realizza tra insegnante e allievi. Questi tre livelli si condizionano e si influenzano nelle due direzioni. Generalmente si coglie di più l’influenza dal macro al micro. La legislazione, la riforma, e l’organizzazione scolastica favoriscono o sfavoriscono, cioè rendono più facile o più difficile il lavoro dell’insegnante. Questo è senza dubbio vero e riforme intelligenti sono meglio che riforme stupide. E anche vero che un istituto scolastico che funziona, con un preside intelligente, con un clima interpersonale positivo, consente di lavorare meglio e con più soddisfazione rispetto a un istituto che non funziona, con un preside ottuso e un clima ostile e conflittuale.
Tutto questo è vero. Però è vero anche il contrario: il micro influenza il macro. Perché se io sono in una scuola che gode di una cattiva fama, gode di scarso prestigio, ma io sono competente, appassionato, interessato ai ragazzi, creo un pezzo di realtà che contraddice quell’immagine e, piano piano, la cambia. Se io sono l’insegnante di una materia poco considerata, ma ho la capacità di renderla interessante, oppure mi pongo come mediatore e facilitatore nel rapporto con gli altri insegnanti, io contribuisco a migliorare il clima sociale e interpersonale, il clima umano, della mia scuola. E infine i genitori, vedendo insegnanti bravi, coinvolti, finiranno per avere un giudizio più positivo sulla scuola, e potranno investire di più – prima di tutto emotivamente, con più fiducia – nel percorso formativo dei loro figli.


In sintesi, cosa voglio dire?
Voglio dire che accanto alla credibilità del ruolo, c’è anche la credibilità nel ruolo, cioè il modo in cui ognuno di noi – pur con tutti i limiti e gli ostacoli che abbiamo detto – vive personalmente quel ruolo, interpreta quel ruolo, lo riempie con la sua personalità, cioè la capacità che la persona ha di risultare credibile in quel ruolo, lui personalmente. Cioè il modo in cui dà dignità a quel ruolo. E questo vale per il bidello non meno che per il professore.

Io credo che il punto fondamentale sia proprio questo. A ognuno di noi è affidato un pezzo di mondo, un pezzo di realtà. Può essere un pezzo piccolo come una famiglia, sua moglie e i suoi figli, o un pezzo grande come una nazione o una grande comunità religiosa. E a uno è affidata una scuola o una classe. O una facoltà universitaria.
Molti filosofi, da Platone a Heidegger, hanno capito e detto in vari modi una cosa importante: l’uomo è il “custode dell’essere”, cioè il custode della creazione, di tutto ciò che esiste. Custodire significa prendersi cura con sollecitudine e intelligenza. Questa idea peraltro è presente fin dalle origini della cultura ebraico-cristiana, quando nel racconto della Genesi Dio affida all’uomo il mondo perché lo custodisca e lo “coltivi”. E se questo è vero per uno che costruisce una sedia o che cura il suo giardino, lo è a maggiore ragione per chi educa.
Vedete, il grande problema è la ragione per cui uno fa questo mestiere.
Ci sono ragioni strumentali ed estrinseche. Si fa questo mestiere perché ti dà uno stipendio. Il rischio è che questa fascia di persone cresca paurosamente o per mancanza di motivazione iniziale o per disillusione sopravvenuta. Per cui all’inizio si è partiti pieni di entusiasmo e poi si è diventati via via più cinici e disimpegnati. C’è poi una ragione ideologica, anche questa estrinseca. Si fa questo mestiere come sottospecie di propaganda ideologica o politica.

E poi c’è un’altra ragione. Una volta, molti anni fa, quando ancora ero uno studente, ho letto una frase, che non ho più ritrovato, mi pare fosse di Peguy, ma che mi è rimasta impressa e che mi sembra definisca in modo chiarissimo il senso dell’educazione e il senso del nostro mestiere e del nostro affaticarci. Il senso dell’educazione, del nostro impegno, del nostro sforzo è che i nostri figli – e io aggiungerei, i nostri allievi (il mio rettore, che è un uomo intelligente, dice sempre: “pensiamo ai nostri allievi come se fossero i nostri figli”) – possano essere migliori di noi. Migliori, cioè più intelligenti, più saggi, più liberi, più appassionati alla realtà e al vero di noi, cioè in una sola parola, più profondamente umani.
 







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