LE VICENDE DELL'ASSEMBLEA COSTITUENTE
Data: Luned́, 03 luglio 2006 ore 00:30:00 CEST
Argomento: Rassegna stampa


La vicenda costituente italiana
di Paolo Soddu*

 

Le elezioni per l'Assemblea costituente – le prime a suffragio universale maschile e femminile - si svolsero, al pari del referendum istituzionale, il 2 giugno 1946 e sanzionarono una variegata e plurale presenza di culture politiche. I grandi partiti di massa, Dc, Psiup e Pci, raccolsero poco meno del 75% dei voti. I liberali, egemoni nel periodo prefascista, si ridussero al 6,8%. Le diverse anime democratiche confluite nel Partito d'azione, particolarmente attive nell'antifascismo e nella Resistenza, superarono di poco il 2%, mentre il Pri oltrepassò il 4%. Sulla destra, monarchici e qualunquisti si assestarono intorno all'8% dei voti, raccolti in gran parte nel Mezzogiorno e nelle Isole, non sconvolti da due anni di occupazione tedesca e di guerra di liberazione. E furono i soli a svolgere un ruolo marginale nella scrittura della Costituzione, affidata a una commissione di 75 costituenti presieduta da Meuccio Ruini, esponente del radicalismo politico già ministro con Nitti nel prefascismo. Il lavoro dei 75 si suddivise in tre sottocommissioni. La prima si occupò dei diritti e doveri dei cittadini, la seconda dell'organizzazione dello Stato, la terza dei diritti e doveri dei cittadini nel campo sociale. A conclusione dei lavori, venne istituito un comitato ristretto di 18 deputati, che armonizzarono il lavoro precedente, stilando materialmente il progetto di Costituzione.

Il dibattito in aula sul progetto di Costituzione
Il 4 marzo 1947, con l'intervento di Ruini che definì il progetto di Costituzione risultato di "compromessi storici che si delineano da se stessi", si aprì il dibattito generale. Gli esponenti dei principali partiti avvertirono l'esigenza di qualificare il modello di democrazia delineato dal progetto. Così, per il cattolico Giorgio La Pira la Costituzione era una casa costruita secondo il principio cristiano, per il comunista Renzo Laconi delineava un regime «progressivo, orientato verso forme nuove», per il socialista Pietro Nenni dava origine a una «repubblica democratica di lavoratori», prefigurando in tal modo una società che superava il «mostruoso egoismo di classe complicato da una mostruosa borghesia».
 Tutte le forze della Costituente, a eccezione della destra qualunquista e di qualche monarchico liberale (Roberto Lucifero), concordarono su un punto fondamentale: il suo carattere antifascista, secondo una visione che, traendo alimento dall'alleanza internazionale tra le potenze democratiche dell'Occidente e l'Unione Sovietica, poneva in evidenza la convergenza intorno ai valori dell'umanesimo pluralista che era stato minacciato dai fascismi. In questo senso, si stabiliva un nesso tra Resistenza e nuova legge fondamentale dello Stato: come affermò Palmiro Togliatti, «la Costituzione ci deve garantire […] che ciò che è accaduto una volta non possa più accadere, che gli ideali di libertà non possano essere più calpestati, che non possa essere più distrutto l'ordinamento giuridico e costituzionale democratico».

La proposta azionista
Se era in certo senso scontata la riserva dei liberali nei riguardi di un testo che preludeva alla compiutezza del processo democratico, le obiezioni dell'area raccolta intorno al Partito d'azione riflettevano per contro un'insofferenza nei riguardi di un approccio rigidamente e ideologicamente ancorato alla logica dei partiti di massa. Piero Calamandrei sostenne che si profilava «una Costituzione tripartitica, di compromesso, molto aderente alle contingenze politiche dell'oggi e del prossimo domani: e quindi poco lungimirante». La proposta degli azionisti caratterizzata dal presidenzialismo e dalla presenza di forti pesi e contrappesi, a cominciare dalla Corte costituzionale, preludeva a un modello di democrazia conflittuale, o se si preferisce, dell'alternanza che, in un paese nel quale risultarono egemoni culture politiche inflessibilmente definite, era inattuale. Del resto, fu Ugo La Malfa a suggerire una dizione dell'articolo 1 – «L'Italia è una repubblica democratica fondata sui diritti di libertà e sui diritti del lavoro» – più comprensiva e articolata di quella approvata, presentata da Amintore Fanfani e sostenuta da comunisti e socialisti dopo che vennero sconfitti nell'intento di definire l'Italia una repubblica democratica di lavoratori. Ma, una volta approvata la Costituzione, la cultura azionista, da Calamandrei ad Achille Battaglia, si schierò nel primo decennio della Repubblica a difesa strenua dell'attuazione della legge fondamentale dello Stato, che dopo il 1948 risentì dei contraccolpi dei conflitti che dividevano profondamente la società italiana.

La Costituzione democratica degli italiani
Approvata il 22 dicembre 1947 con 453 voti favorevoli e 62 contrari (l'estrema destra), la Costituzione entrò in vigore il 1° gennaio 1948. L'approdo a una Costituzione condivisa non fu quindi intralciato dagli effetti internazionali e nazionali della rottura dell'alleanza antifascista e dall'emergere di riferimenti assai differenti dell'organizzazione sociale e politica. Era frutto di un accordo tra diverse sensibilità – liberale, democratica, cattolica e marxista, tanto che Bobbio l'ha definita l'unico vero compromesso storico della storia repubblicana. La prima parte, relativa ai principi fondamentali e ai diritti e ai doveri dei cittadini, configura un regime pienamente liberale, democratico e sociale, che significa, come ha osservato Silvio Lanaro, più diritti civili e sociali per tutti. L'articolo 3 afferma l'uguaglianza dei cittadini, l'articolo 4 il diritto al lavoro, gli articoli 13 e 20 la libertà personale e la libertà di manifestazione del pensiero, l'articolo 18 la libertà di associazione, gli articoli 39 e 40 la libertà sindacale e il diritto di sciopero, l'articolo 49 il diritto dei cittadini di associarsi in partiti. Sui diritti e sulle libertà politiche e civili, la Costituzione costituisce una netta soluzione di continuità rispetto allo Statuto albertino. Infatti, a differenza di quest'ultimo, prevede esplicitamente precise garanzie, che costituiscono un vincolo non oltrepassabile dal legislatore.
 Nell'affermazione dei diritti sociali è evidente un carattere finalistico, come mostra l'affermazione del diritto al lavoro. Sicché essi hanno assunto un carattere di obiettivo da conseguire anziché di norma da realizzare compiutamente.
 Tra le diverse culture politiche si registrarono alcuni contrasti non componibili. I cattolici vennero sconfitti nell'intento di definire indissolubile il matrimonio, di salvaguardare l'impianto tradizionale della famiglia con l'esclusione dei figli illegittimi e di garantire finanziamenti pubblici alle scuole private. Ma registrarono, con l'apporto dei comunisti e di numerosi liberali, una fondamentale vittoria con l'approvazione dell'articolo 7 in base al quale i rapporti tra Stato e Chiesa «sono regolati dai Patti Lateranensi», firmati l'11 febbraio 1929 da Benito Mussolini e dal segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Gasparri.

Una repubblica parlamentare
L'organizzazione dei poteri dello Stato ha delineato, sulla base dell'ordine del giorno presentato dal repubblicano Tommaso Perassi, una democrazia di tipo parlamentare, che riprende le esperienze affermatesi tra le due guerre in Europa: separazione dei poteri, bicameralismo perfetto, funzione equilibratrice del capo dello Stato, organo di garanzia costituzionale, indipendenza e autogoverno della magistratura, decentramento regionale, referendum abrogativo, rigidità delle norme tese al mutamento delle norme in essa contenute. La soluzione, ispirata dalla cultura democratica, frenò il giacobinismo delle sinistre, insofferenti delle limitazioni poste al pieno svolgimento della sovranità popolare e superò gli echi di rappresentanza corporativa presenti nell'universo cattolico.

Gli sviluppi successivi
La 'fortuna' della Costituzione ha seguito l'evoluzione del sistema politico. In larga parte accantonata durante la prima legislatura, a partire dal 1955 venne progressivamente attuata fino a realizzare negli anni Settanta tutti gli istituti da essa previsti. Dopo il drammatico insuccesso del tentativo consensuale, avviato alla metà di quel decennio da Aldo Moro, Enrico Berlinguer e Ugo La Malfa, emerse la proposta dei socialisti di una «grande riforma» tesa a mutare la Costituzione per favorire una democrazia dell'alternanza. Il tema della revisione costituzionale è stato da allora a oggi al centro della vita politica italiana. Esperite diverse commissioni bicamerali che non approdarono ad alcuno risultato, la seconda parte della Costituzione è stata integralmente rivisitata dalla sola maggioranza nel corso della XIII legislatura, a conclusione della quale è stato approvato un testo che individua nella figura del primo ministro l'attore principe delle istituzioni e devolve nel contempo molti poteri dello Stato alle Regioni. Eppure, proprio la XIII legislatura, governata da una maggioranza coesa con un riconosciuto leader, ha mostrato la efficace funzionalità dei meccanismi costituzionali: dietro la retorica della sua revisione, si sono nascosti in verità progetti politici tesi a modificare la forma di governo scelta dai costituenti.

 *Insegna Storia contemporanea alla Facoltà di Musicologia, sede di Cremona, dell'Università degli studi di Pavia. Collabora all'attività della Fondazione Luigi Einaudi di Torino e sta ultimando una biografia di Ugo La Malfa.






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