''LA PUNIZIONE'' di S. SCALIA OVVERO LA PUDICIZIA DEL DOLORE
Data: Luned́, 03 luglio 2006 ore 00:25:00 CEST
Argomento: Rassegna stampa


LA PUDICIZIA DEL DOLORE



Quando ho avuto tra le mani il romanzo di Salvatore Scalia La punizione, ne ho aperto avidamente la prima pagina, presa da una amara curiositas, strana indubbiamente, ma profondamente umana. Ne conoscevo per sommi capi la storia, quella di una vicenda terribile avvenuta nell’ormai lontano 1976, l’assurdo barbaro assassinio di quattro adolescenti, uccisi dalla mafia perché rei di aver scippato nel mercato di San Cristoforo nientemeno che la madre di Nitto Santapaola.
Trama spietatamente truce, pietosamente atroce, amaramente violenta quanto basta per suscitare in me e, mi auguro, in tanti futuri estimatori, una lettura avida, che si snoda veloce, pagina dopo pagina, lungo una scrittura godibile e appassionata, che mai viaggia sopra le righe, semplicemente materiata com’è di un sano equilibrio tra tono aulico e quotidiano. Così questo romanzo ti prende, ti invita a procedere spedito, ma la meta, lo sai, lo senti dentro di te, è solo una: che fine faranno quei quattro giovani innocenti, quale sorte li attenderà, attenderà loro, ignari, inconsapevoli vittime dell’orgoglio e della pazzia mafiosa? In quale spietato modo verranno sottratti alla luce del sole e consegnati al profondo buio delle tenebre e della morte? 
Chiusi lì, in quella stalla in attesa di esecuzione, morti di fame e di sete, attendono una liberazione che non arriverà. O meglio sì, arriverà, ma sarà solo illusoria: un amico del loro quartiere li rifocillerà con un enorme vassoio di pizzette e arancini, triste appagamento del ventre prima della barbara esecuzione.
Una barbara esecuzione. Se l’aspetta il lettore a questo punto, lui che ormai è divenuto, in preda a un’ansia forsennata, un accanito divoratore di parole. E capisce che il problema riguarda la rappresentazione del dolore e dell’atrocità. E sente nascere dentro di sé tutta la più becera anima dell’uomo moderno. «Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te», scriveva Nietzsche. Dall’abiezione conviene voltare lo sguardo il più in fretta possibile, eppure la brutalità è la sola retorica della nostra epoca. Da tutti i canali televisivi straripa il filone orrorifico mascherato: ma è giusto o non è giusto mostrare le pene che alcuni uomini si sentono di affliggere ad altri uomini? Non lo sappiamo, eppure le attendiamo quelle scene crude, ormai. Abituati come siamo a una rappresentazione continua e incessante del dolore, cerchiamo ansiosamente la conclusione della vicenda.
E d’altronde, se lo fanno i media con immagini vere, perché non può permetterselo un romanzo che gode dell’alibi della creazione fantastica? Tutto questo ti freme dentro, mentre i quattro inconsapevoli ragazzini escono dalla stalla in una splendida notte di stelle e i mafiosi li accarezzano paternamente sui capelli, prendendoli sottobraccio per una mesta processione che fa pensare a “coppie di padri e figli abbracciati teneramente”.
Poi è un attimo. Vedi che la scrittura si contrae, non indulge all’eclatante descrizione, si ferma a una gelida, agghiacciante frase: Cominciarono a gridare, ma uscirono solo sibili soffocati perché mani d’acciaio li stringevano alla gola.”
Il dramma si è consumato, senza echi, senza roboanti e dettagliati particolari. Ed è trionfo di una parola essenziale, scavata nella vita come in un abisso.
E’ tutto qui, in questa delicata pudicizia del dolore e della tragedia, il bello di questo romanzo. Uno scrittore, vivamente turbato da una triste vicenda, ha raccontato i morti come nutrimento della memoria, come rito e come catarsi. Così, con disarmante semplicità, con evidente schiva sincerità, senza spettacolarizzazione. E ti resta dentro un dolore sordo, senza lacrime, un grumo di rabbia per tanta crudeltà. E l’invito a una composta, misurata, profonda riflessione sulla smisurata disumanità dell’uomo.

Silvana La Porta






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