Draghi, nuovo governatore della Banca d'Italia,:"Sistema scuola inefficiente, bisogna premiare il merito"
Data: Giovedì, 01 giugno 2006 ore 20:11:04 CEST
Argomento: Opinioni


di Reginaldo Palermo

"Negli ultimi dieci anni – ha ricordato Draghi - l’Italia ha ridotto il divario rispetto ai paesi avanzati nella diffusione dell’istruzione tra i giovani, ma il ritardo accumulato peserà ancora a lungo sul livello medio del capitale di istruzione degli italiani. Nel 2003 le quote di diplomati e laureati nella fascia d’età tra 25 e 64 anni erano in Italia rispettivamente pari al 34 e al 10 per cento del totale, contro medie del 41 e del 24 nei paesi dell’OCSE".

D’altronde i numeri parlano chiaro; tra il 2001 e il 2006 la spesa complessiva per l’istruzione è aumentata in modo consistente:
2001 35.787 milioni
2002 37.734 milioni
2003 39.736 milioni
2004 40.269 milioni
2005 40.271 milioni (somma indicata nel pre-consuntivo)
2006 45.513 milioni (previsione di spesa, comprensiva di 3.233 milioni di euro destinati al pagamento degli arretrati contrattuali)

Il fatto è che le maggiori risorse sono state destitnate quasi esclusivamente alle spese di personale: gli investimenti (che già nel 2001 arrivavano appena a 240milioni di euro) sono progressivamente calate fino a toccare nel 2006 la cifra pressochè simbolica di 24milioni di euro (una media di 2.400 euro per ciascuna istituzione scolastica !)
Né sono andate meglio le spese per gli "interventi" (innovazione, formazione, aggiornamento, ecc..) che sono passate dai 700milioni di euro del 2001 ai 535 del 2006).
Forse anche per questo "la qualità dei risultati presenta aspetti critici", come ha osservato Draghi che ha aggiunto: "A quindici anni gli studenti italiani hanno accumulato un ritardo nell’apprendimento della matematica equivalente a un anno di scuola"
Non solo, ma è ormai assodato che "A questo difetto di efficacia se ne aggiunge uno di equità: il successo scolastico nella scuola superiore e all’università è fortemente correlato alle condizioni della famiglia di provenienza".
Ma c’è una soluzione ?
"Bisogna guardare all’esperienza di altri paesi europei, quali Svezia, Finlandia, Regno Unito, che hanno sperimentato strumenti per migliorare il rendimento del sistema di istruzione e di ricerca, rafforzando la competizione fra scuole e fra università – ha sottolineato Mario Draghi - Prima ancora che maggiori spese, occorrono nuove regole che premino il merito di docenti e ricercatori".
La ricetta troverà d’accordo il mondo della scuola ?
I sindacati accetteranno che le carriere non siano legate esclusivamente all'anzianitò ? I politici avranno il coraggio di fare propri i suggerimenti del Governatore ?
A parole tutti sono d’accordo che bisogna premiare il merito, ma finora questa strada non è ancora stata neppure tentata.

01/06/2006
 

ASSEMBLEAGENERALE ORDINARIADEI PARTECIPANTI

TENUTA IN ROMA IL GIORNO 31 MAGGIO 2006

ANNO 2005
CENTODODICESIMO ESERCIZIO

BOZZE DI STAMPA

CONSIDERAZIONI FINALI

Signori Partecipanti, Autorità, Signore, Signori,

nel prendere per la prima volta la parola di fronte a questa Assemblea, desidero innanzitutto rivolgere un pensiero augurale al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al quale confermo la continuità dell’impegno istituzionale della Banca d’Italia al servizio del Paese. Nel medesimo spirito, di una continuità istituzionale preziosa, rendo l’omaggio dovuto al Governo che ha retto l’Italia per una legislatura, ed esprimo un fervido augurio di buon lavoro al Governo che gli
è appena succeduto.

Nel dicembre dello scorso anno il dottor Antonio Fazio rassegnava le proprie dimissioni da Governatore della Banca d’Italia. Vi era entrato nel 1965; era stato Capo del Servizio Studi, Direttore Centrale per la Ricerca Economica; Governatore dal maggio del 1993, fece la politica monetaria che accompagnò l’Italia nell’Unione monetaria europea.

Il giudizio sul suo operato nello scorcio del suo ufficio è aperto. Gli rivolgo
un riconoscimento non formale, per aver speso l’intera sua vita professionale al servizio di questa istituzione.

Con la fine dello scorso anno volgeva al termine un periodo convulso di scandali, di speculazioni, durante il quale era parso che il mercato, i risparmi degli italiani, il destino di società in settori rilevanti per l’economia nazionale fossero preda dell’arbitrio, dell’interesse, delle trame di pochi individui.

L’iniziativa della magistratura impediva il compiersi di queste trame.
Si attende l’esito dei procedimenti giudiziari in corso. La Banca d’Italia, pur
salva nell’integrità istituzionale della sua struttura di vigilanza, ne usciva ferita.
A me, cui il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, su proposta
del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, faceva l’onore di conferire
la carica di Governatore, stava, sta la responsabilità di accompagnarla nel
ritorno al prestigio di cui ha sempre goduto; di guidarne il cambiamento in un
contesto nazionale e internazionale profondamente diverso da quello che ha
caratterizzato la sua storia.

Il campo d’azione è vasto: contribuire in maniera sostanziale al disegno e all’attuazione della politica monetaria nell’area dell’euro; adeguare la vigilanza
ai nuovi principi internazionali, espandendone e rafforzandone l’azione; tornare
a proporre la Banca d’Italia quale consigliere autonomo, fidato del Parlamento, del Governo, dell’opinione pubblica. Sul piano interno, riconfigurare la struttura centrale e quella periferica, ripensando i compiti e l’articolazione delle filiali; riconsiderare il ruolo dell’Ufficio italiano dei cambi. Sono queste le linee d’azione
da intraprendere. Nel porre mano all’evoluzione della Banca nel nuovo contesto,
è essenziale l’apporto del personale e delle rappresentanze sindacali, a cui, tra qualche giorno, illustrerò in concreto questi orientamenti strategici, certo che ne condividano la necessità.

Il Consiglio superiore dell’Istituto esaminerà in occasione della prossima riunione le ipotesi di modifica dello Statuto della Banca, in conformità con
le nuove disposizioni di legge. Inizierà così l’iter previsto, che terminerà con l’esame da parte del Governo e con l’emanazione del decreto del Capo dello Stato.

So, mutuando l’espressione di Guido Carli, che le mie forze sono impari agli obiettivi; dubiterei di poterli raggiungere, se non potessi far conto sull’in- tegrità, sulla competenza professionale, sul senso di responsabilità istituzionale
di tutto il personale della Banca. Ma è anche su altro che sono certo di poter contare: sull’orgoglio di questa istituzione, che delle difficoltà ha sempre fatto motivo di crescita. Nella Banca d’Italia, che da Einaudi a Ciampi ha dato al Paese Presidenti della Repubblica, Presidenti del Consiglio, Ministri, ho trovato un luo-
go di eccellenza, dove profondamente è sentita la nobiltà del servire l’interesse pubblico.

È a questo servizio che, come altri Governatori prima di me, intendo ispirare
la mia azione. È da questo sentire collettivo che trarrò la mia forza.

Tornare alla crescita
La ripresa ciclica che si sta avviando in Italia non può da sola risolvere il pro- blema di crescita che affligge il Paese da oltre un decennio, ma facilita il necessario mutamento strutturale.

Una crescita stenta alla lunga spegne il talento innovativo di un’economia;
deprime le aspirazioni dei giovani; prelude al regresso; preoccupa particolarmente
in un paese come il nostro, su cui pesano un’evoluzione demografica sfavorevole
e un alto debito pubblico.
La stabilità finanziaria è condizione necessaria per lo sviluppo economico: ma in Italia questo è a sua volta un requisito per la stabilità finanziaria. Occorre, preservando l’una, riavviare l’altro.

Lo scenario internazionale

Negli ultimi due anni l’economia mondiale è cresciuta a un tasso medio del 5 per cento, quella dell’area dell’euro dell’1,7. L’espansione del commercio internazionale ha sfiorato il 9 per cento. L’incremento della domanda, strozzature dell’offerta e tensioni geopolitiche hanno sospinto i prezzi delle materie prime e dell’energia. Questi ultimi sono più che raddoppiati in termini reali in un triennio.

Le politiche monetarie stanno ovunque divenendo meno accomodanti, con tempi e intensità che riflettono differenze nelle condizioni cicliche e nei rischi d’inflazione. Le politiche di bilancio non hanno finora colto l’occasione della crescita globale per apportare ai conti pubblici le correzioni necessarie a ridurre gli squilibri esistenti e a fronteggiare l’invecchiamento della popolazione. L’aumento dei tassi d’interesse tende a gravare sul servizio del debito pubblico. L’effetto è maggiore dove il debito è più elevato; l’Italia è particolarmente esposta.

Gli squilibri delle bilance dei pagamenti si sono ampliati: mentre gli avanzi correnti sono diffusi, il disavanzo è concentrato negli Stati Uniti, dove ha quasi raggiunto il 2 per cento del prodotto mondiale, un massimo storico. Un aumento del tasso di risparmio nell’economia americana, una ripresa della crescita in Europa e
in Giappone, un’accelerazione della domanda interna in Cina e nei paesi produttori
di petrolio possono ridurre il rischio che l’inevitabile correzione degli squilibri avvenga attraverso variazioni disordinate dei cambi.

L’espansione della liquidità internazionale e i bassi tassi di interesse hanno con- tribuito a innalzare i prezzi delle attività finanziarie e delle abitazioni. I differenziali nei tassi, la volatilità delle variabili finanziarie sono scesi a livelli minimi: la pos- sibilità di una sottovalutazione del rischio da parte degli investitori costituisce una fonte potenziale d’instabilità. Nelle ultime settimane la volatilità dei cambi e dei titoli si è accresciuta, generando un rapido rientro di carry trades che ha influenza-
to, a sua volta, i movimenti dei cambi.

A questi elementi di fragilità si contrappone la credibilità delle politiche mo- netarie, che ha piegato le aspettative d’inflazione. Il recente rincaro dell’energia non ha inciso sulla dinamica di fondo dei prezzi, moderata anche dalla concorrenza internazionale. Il talento, i capitali, la tecnologia oggi disponibili nei mercati finan- ziari ne hanno accresciuto la capacità di riallocare il rischio, ne hanno rafforzato
la resistenza a eventuali shock. La stessa rapida diffusione dei contratti derivati potrebbe tuttavia amplificarne la trasmissione, con implicazioni sistemiche ancora non pienamente valutabili.

I persistenti squilibri, l’alto prezzo del petrolio, la forte e prolungata espansione della liquidità preoccupano le autorità monetarie per le ripercussioni potenziali sull’inflazione, sui prezzi delle attività finanziarie, sui tassi di cambio.

Lo sviluppo e la diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione, la rapida crescita di grandi economie emergenti sono i tratti distintivi dell’attuale scenario internazionale.
La rivoluzione digitale di fine secolo apre una gara di efficienza fra sistemi produttivi; adeguarsi è decisivo.

La quota delle economie emergenti sulle esportazioni mondiali di manufatti
è salita al 30 per cento, con un peso crescente dei prodotti a medio-alta intensità
di capitale e tecnologia. Nei paesi avanzati i consumatori ne hanno tratto grande
e immediato beneficio. I produttori vincono l’aspra sfida di concorrenti dai bassi costi del lavoro se colgono le opportunità offerte dall’internazionalizzazione della produzione e dai nuovi mercati di sbocco.

Nel quadro di un’economia e di un commercio mondiali che continuano a crescere a tassi elevati, è all’ottimismo dell’iniziativa che bisogna ispirarsi, non al malinconico rimpianto di un protezionismo che fu.

La crisi italiana di produttività

In Italia dalla metà degli anni novanta il prodotto ottenibile da un’ora di lavoro è cresciuto assai meno che altrove: oltre un punto percentuale in meno ogni anno, in media, rispetto ai paesi dell’OCSE. A causa del ritardo nell’adeguamento della capacità tecnologico-organizzativa delle imprese e del sistema, la produttività totale dei fattori si è ridotta, caso unico fra i paesi industrializzati.

Il progresso dell’efficienza è ostacolato da una struttura sbilanciata nella dimensione d’impresa, poco compatibile con i nuovi paradigmi tecnologici e compe- titivi. Vi si associa una specializzazione settoriale ancora eccessivamente orientata alle produzioni più tradizionali. Rimuovere gli ostacoli alla crescita delle imprese
è condizione necessaria per cogliere le occasioni offerte dalla globalizzazione dei mercati e per stimolare una diffusione ampia e sistematica di innovazioni nell’orga- nizzazione aziendale, nei processi produttivi, nella gamma dei prodotti. È questa la via per recuperare competitività internazionale e rilanciare lo sviluppo.

La difesa della competitività attraverso la svalutazione del cambio, che peraltro alleviava solo temporaneamente gli effetti di un differenziale di produttività, è divenuta impossibile. Non vi è alternativa se non tra l’incremento del prodotto per ora lavorata e il contenimento dei redditi nominali. Alla lunga solo il progresso della produttività genera benessere economico.

Quest’anno il tasso d’incremento del prodotto potrebbe avvicinarsi all’1,5 per cento, grazie a un recupero delle esportazioni e degli investimenti. La ripresa congiunturale può facilitare le azioni volte a favorire l’adeguamento della struttura produttiva.

La stabilità: condizione necessaria per lo sviluppo

Le politiche macroeconomiche contribuiscono al rilancio dello sviluppo economico garantendo un quadro di stabilità.

La politica monetaria comune ha assicurato nell’area dell’euro stabilità dei prezzi e protezione dall’erraticità dei mercati finanziari. Tra il 1999 e oggi l’in- flazione al consumo, effettiva e attesa, è stata nell’area appena superiore al 2 per cento, pur se con significativi rincari di alcune voci soprattutto nei settori meno esposti alla concorrenza. L’obiettivo di stabilità dei prezzi fissato dall’Eurosistema
è l’àncora delle aspettative di produttori, consumatori, parti sociali. A testimonian-
za della credibilità che la Banca centrale europea ha conquistato, i tassi d’interesse

a breve termine nell’area dell’euro hanno raggiunto i livelli minimi degli ultimi cinquant’anni.

La convergenza verso la stabilità dei prezzi è stata, ed è, nell’interesse di tutti i partecipanti all’unione monetaria. I benefici dell’euro sono specialmente preziosi in Italia. La flessione dei tassi d’interesse ha consentito alle imprese di mantenere bassa l’incidenza degli oneri finanziari in rapporto al valore aggiunto, pur in una fase di congiuntura sfavorevole, durante la quale i debiti delle impre-
se aumentavano. Il differenziale d’interesse sui titoli di Stato a lungo termine rispetto alla Germania tra il 1992 e il 1998 era stato in media di 340 punti base;
tra il 1999 e il 2005 si è ridotto a 25. È crollato l’onere per interessi sul nuovo debito pubblico.

Ma i vantaggi della moneta unica per la finanza pubblica sono stati in gran parte dispersi. La tendenza al rialzo dei tassi rende ora urgente un’azione sulle determinanti strutturali della spesa. Il peso del debito pubblico deve tornare a diminuire. La sua incidenza sul prodotto è aumentata lo scorso anno di 2,5 punti,
al 106,4 per cento, nonostante dismissioni di attività dell’ordine di un punto. L’indebitamento netto delle Amministrazioni pubbliche è salito al 4,1 per cento del prodotto; ha superato per il terzo anno consecutivo il limite fissato dal Trattato
di Maastricht. L’avanzo primario ha continuato a ridursi, dal 6,6 per cento del PIL del 1997 allo 0,4 per cento. Al netto delle dismissioni mobiliari, ed escludendo l’effetto di misure temporanee, il fabbisogno finanziario, dal quale dipende la dinamica del debito pubblico, ha sfiorato il 6 per cento del PIL.

Nel 2006 l’indebitamento netto rischia di superare di nuovo il 4 per cento del prodotto; l’incidenza del debito aumenterebbe ulteriormente.

Per ricondurre i saldi della finanza pubblica su livelli che consentano una flessione prevedibile, continuativa e permanente del peso del debito vanno realizzati interventi strutturali che interessino le principali voci di spesa e tutti i livelli di governo. Alla luce delle attuali tendenze, per conseguire l’obiettivo di indebitamento netto indicato nei programmi governativi per il 2007, pari al 2,8 per cento del PIL, e riavviare il processo di riduzione dell’incidenza del debito sul PIL è necessaria una correzione dell’ordine di due punti percentuali del prodotto. Eventuali interventi di abbassamento della pressione fiscale o di rilancio degli investimenti pubblici richiederebbero il reperimento di risorse aggiuntive.

È necessario frenare la spesa primaria corrente, che nell’ultimo decennio è cresciuta in termini reali del 2,5 per cento l’anno. Vi sono, accanto alla compres- sione delle spese di funzionamento dell’Amministrazione, due priorità ineludibili: affrontare il nodo dell’età media effettiva di pensionamento; responsabilizzare pienamente Regioni ed Enti locali nel controllo della spesa.


La spesa per pensioni è pari al 15,4 per cento del prodotto interno lordo. Quasi un quarto è assorbito da pensioni di vecchiaia e anzianità versate a persone con meno di 65 anni. L’uscita dalle forze di lavoro è massima in corrispondenza dei requisiti minimi di pensione. Negli ultimi anni, dopo che le riforme introdotte
li hanno innalzati, l’età media di uscita è stata in Italia intorno ai 60 anni; è di 61
in Germania, di 62 nel Regno Unito, di oltre 65 negli Stati Uniti. Le donne e gli uomini di 60 anni hanno ora davanti a sé un periodo di vita rispettivamente di 25 e
21 anni. In prospettiva, insieme con lo sviluppo della previdenza complementare, solo un innalzamento significativo dell’età media di pensionamento può conciliare l’erogazione di pensioni di importo adeguato con la sostenibilità finanziaria del sistema contributivo. L’allungamento della vita lavorativa aiuterà anche ad aumen- tare il tasso di partecipazione al mercato del lavoro.


Le Amministrazioni regionali e locali erogano oltre il 40 per cento della spesa per redditi da lavoro della pubblica Amministrazione; effettuano quasi l’80 per cento degli investimenti pubblici. La spesa sanitaria, di competenza regionale, rappresenta oltre il 13 per cento della spesa delle Amministrazioni pubbliche.
Il decentramento territoriale di funzioni può migliorare l’efficienza del sistema solo se si realizza uno stretto collegamento tra la spesa e le responsabilità della sua copertura. Al decentramento della spesa non hanno fatto ancora seguito un’autonomia di prelievo sufficientemente ampia, criteri trasparenti e sistematici
di perequazione, vincoli efficaci all’assunzione di debiti.


Per favorire il rilancio dello sviluppo economico, oltre a ritrovare l’equilibrio del bilancio, è necessario agire sulla sua composizione. Risparmi in altre voci libererebbero risorse per migliorare le infrastrutture, rafforzare la sicurezza sociale agevolando il funzionamento del mercato del lavoro, alleggerire il carico fiscale in funzione pro-competitiva. Incidere in modo duraturo sul bilancio pubblico richiede un cambiamento deciso delle norme, delle regole della spesa. Altrimenti, come dimostra l’esperienza, correzioni anche pesanti producono risultati effimeri.

Azioni per il rilancio

L’intensificazione della concorrenza, l’ampliamento dello spazio per l’espli- carsi dei meccanismi di mercato sono necessari al rilancio produttivo e comple- mentari a scelte di equità. La concorrenza costituisce il miglior agente di giustizia sociale in un’economia, in una società, come quella italiana, nella cui storia è ricorrente il privilegio di pochi fondato sulla protezione dello Stato.

Molte sono le aree d’intervento emerse in questi anni all’attenzione degli osservatori e dei responsabili della politica economica come cruciali per rilanciare
la crescita del Paese; lavoro, istruzione, servizi, ambiente giuridico-amministrativo sono temi di particolare rilievo.

Il costo del lavoro è influenzato, direttamente o indirettamente, dal livello delle retribuzioni, dagli oneri fiscali e previdenziali, dalle rigidità normative.

Strumenti di coordinamento nazionale della contrattazione salariale fra le parti sociali, oltre a costituire un presidio di equità, contribuiscono a evitare che
le dinamiche retributive assumano, nei settori con poca concorrenza e nelle aree con poca disoccupazione, andamenti incompatibili con la stabilità dei prezzi. Gli accordi tra le parti sociali del 1993 demandavano la distribuzione dei guadagni
di produttività al livello di contrattazione decentrato. La diffusione di schemi retributivi esplicitamente legati alla produttività aziendale è però ancora scarsa e concentrata nelle grandi imprese industriali.

Nel 2005 il fisco ha prelevato, tra imposte e contributi e senza contare l’Irap,
il 45,4 per cento del costo del lavoro di un lavoratore tipo dell’industria. Il va- lore medio dei paesi dell’OCSE è 37,3. Un livello eccessivo del cuneo fiscale e previdenziale distorce l’allocazione delle risorse, frena lo sviluppo.

Le compatibilità di bilancio lasciano margini stretti per il finanziamento di una riduzione. Uno spostamento dell’imposizione dal lavoro ai consumi offre benefici allocativi e una copertura certa, ma induce effetti macroeconomici e distributivi da valutare attentamente, anche con le parti sociali.

La rigidità nell’impiego del lavoro impone costi impliciti alle aziende. Essa può annidarsi nelle modalità di ingresso, nell’utilizzo delle risorse in azienda, nelle modalità di uscita; su queste ultime pesano soprattutto tempi e costi di eventuali controversie giudiziarie, incerti e di frequente assai elevati. Margini di flessibilità sono stati recuperati in questi anni con la diffusione dei contratti atipici. Se il mercato del lavoro è ben regolato, senza eccessi di rigidità nella componente tipica,
i contratti atipici offrono un utile ventaglio di opzioni alle imprese e ai lavoratori.
Se divengono un surrogato dell’ordinaria flessibilità dell’impiego, impediscono a molti giovani di pianificare il futuro, riducono gli incentivi dell’impresa a investire nella loro formazione, frenano la produttività del sistema.

Motivi di efficienza e di equità richiedono che sia ridotta la segmentazione del mercato, stabilendo regole più uniformi, in base a cui il rapporto di lavoro acquisisca stabilità con il passare del tempo. In un’epoca in cui il sistema economico

deve compiere rapide riallocazioni nel mutato scenario competitivo, si deve tutelare il lavoratore piuttosto che il posto di lavoro, assicurandogli – nel rispetto delle compatibilità di bilancio – una indennità di disoccupazione dignitosa e non distorsiva e concrete opportunità di formazione e riorientamento.

Ma questo non basta. Perché la produttività torni a crescere occorrono innovazione e investimenti in ricerca e in tecnologia; imprenditori che abbiano il coraggio e la lungimiranza di non essere passivi di fronte alle difficoltà e di cogliere
il momento per cambiare il modo di operare delle proprie imprese.

La stasi della produttività è connessa anche con la carenza di capitale umano.
È grave lo spreco causato dal basso impiego del segmento più vitale, più promet- tente della popolazione: tra i venti e i trent’anni il tasso di occupazione italiano è inferiore di dieci punti rispetto alla media dell’Unione europea.

Negli ultimi dieci anni l’Italia ha ridotto il divario rispetto ai paesi avanzati nella diffusione dell’istruzione tra i giovani, ma il ritardo accumulato peserà ancora a lungo sul livello medio del capitale di istruzione degli italiani. Nel 2003
le quote di diplomati e laureati nella fascia d’età tra 25 e 64 anni erano in Italia rispettivamente pari al 34 e al 10 per cento del totale, contro medie del 41 e del 24 nei paesi dell’OCSE.

Anche la qualità dei risultati presenta aspetti critici. A quindici anni gli studenti italiani hanno accumulato un ritardo nell’apprendimento della matematica equivalente a un anno di scuola: secondo un’indagine dell’OCSE, l’Italia figura al ventiseiesimo posto su ventinove paesi. A questo difetto di efficacia se ne aggiunge uno di equità: la variabilità nei livelli di apprendimento dei quindicenni colloca il nostro paese al ventitreesimo posto dell’OCSE; il successo scolastico nella scuola superiore e all’università è fortemente correlato alle condizioni della famiglia di provenienza.

La gravità del ritardo ci impone di guardare all’esperienza di altri paesi europei, quali Svezia, Finlandia, Regno Unito, che hanno sperimentato strumenti per migliorare il rendimento del sistema di istruzione e di ricerca, rafforzando
la competizione fra scuole e fra università; prima ancora che maggiori spese, occorrono nuove regole che premino il merito di docenti e ricercatori.

La produttività dei servizi è essenziale per la crescita dell’economia. Essi rappresentano nei paesi dell’OCSE oltre il 70 per cento del valore aggiunto; sono

utilizzati nella produzione di tutti gli altri settori. Sono più diffuse nel terziario rendite monopolistiche che mantengono alti i prezzi, ostacolano l’innovazione e la produttività, deprimono la competitività del sistema.

Le imprese di produzione e distribuzione dei servizi di pubblica utilità erano
in Italia interamente di proprietà pubblica ancora alla metà degli anni novanta. L’ampia privatizzazione che le ha coinvolte ha contribuito a ridurre il debito pubblico in rapporto al prodotto. La liberalizzazione di questi mercati non ha progredito in ugual misura. La gestione delle reti, l’ampliamento del novero dei fornitori sono problemi ancora largamente irrisolti. Nei servizi pubblici locali la stessa privatizzazione ha fatto pochi passi avanti; la liberalizzazione manca quasi del tutto, tanto che la gestione può essere affidata senza gara a società pubbliche o miste. Le Amministrazioni locali detengono ancora il controllo di molte imprese operanti nella fornitura di servizi pubblici. In taluni casi ambiscono ad ampliare la gamma dei servizi offerti, innescando fenomeni di ripubblicizzazione.

Ostacoli alla concorrenza derivano anche da normative restrittive che, in più settori, danneggiano la generalità dei consumatori e dei lavoratori.

Nel commercio al dettaglio, il numero medio di dipendenti delle imprese è circa la metà di quello dell’area dell’euro. La frammentazione pesa sull’efficienza; rallenta l’adozione delle nuove tecnologie, fonte importante di crescita della pro- duttività del settore in altri paesi. La legge di riforma del 1998, nel liberalizzare l’apertura dei piccoli esercizi, ha demandato alle Regioni il potere di regolamen- tare l’apertura sul territorio di quelli più grandi. Non tutte hanno colto l’occasione per liberalizzare. Nelle regioni dove si sono adottati criteri più restrittivi, efficienza produttiva e diffusione delle nuove tecnologie ne sono risultate frenate, a scapito dei consumatori e della stessa crescita dell’occupazione nel settore.

La direttiva europea sui servizi, in corso di approvazione, potrà dare solo
un impulso modesto alla concorrenza. L’onere di intraprendere politiche di liberalizzazione più decise rimane affidato principalmente alle scelte discrezionali dei governi nazionali. L’Italia ha tutto da guadagnare dall’avviarsi con decisione lungo questa strada.

Il sistema giuridico e amministrativo influenza significativamente i costi e la competitività delle imprese. In Italia esso è stato a lungo indifferente alle ragioni del mercato. In una graduatoria della Banca Mondiale relativa alle procedure burocratiche e amministrative connesse con l’attività di impresa, l’Italia occupa la settantesima posizione, penultima fra i paesi dell’OCSE.

Dalla metà degli anni novanta sono stati realizzati interventi di semplificazione amministrativa e di miglioramento della regolamentazione. I risultati conseguiti sono stati parziali. Lo scostamento tra definizione formale delle misure e loro concreta applicazione resta un problema generale dell’ordinamento italiano.

La recente riforma del diritto fallimentare ha introdotto strumenti volti a favorire una più precoce emersione dello stato di crisi e una rapida ristrutturazione
di imprese in temporanea difficoltà; ha snellito e ammodernato le procedure
di liquidazione. Essa si applica tuttavia solo a una metà circa delle imprese; in particolare, è ampia la fascia esclusa dalla possibilità di beneficiare della liberazione dei debiti residui al termine della procedura. Non è stata modificata la disciplina penale, ispirata a una concezione punitiva del fallimento.

Molto resta da fare sul versante generale dell’applicazione del diritto, né questa
è la sede per indicare correttivi, che possono essere cercati nell’esperienza di altri paesi. Le riforme attuate negli ultimi quindici anni per accelerare i tempi della giu- stizia civile non hanno prodotto i risultati attesi. La lunghezza dei procedimenti civili
è ancora assai maggiore che negli altri paesi europei; la durata di una procedura di recupero crediti è in Italia cinque volte quella media dell’OCSE. Confronti interna- zionali mostrano che in Italia il numero di magistrati e funzionari amministrativi e
la spesa pubblica per la giustizia sono paragonabili, in rapporto alla popolazione, a quelli di paesi simili al nostro per dimensione e tradizione giuridica.

Nel campo fiscale interventi sulla chiarezza della normativa e delle sue modalità di applicazione riducono il contenzioso e garantiscono alle imprese
un quadro più certo entro cui operare. L’adempimento degli obblighi fiscali e contributivi risente negativamente del frequente ricorso a condoni e sanatorie; dal 1970 al 2004 soltanto due esercizi finanziari non sono stati coperti da simili provvedimenti.

Rilancio dello sviluppo dell’economia nazionale e riduzione dei divari territoriali sono obiettivi complementari. Azioni che incidano sulla struttura produttiva, in particolare sui processi di crescita dimensionale delle imprese e di riorientamento della loro specializzazione produttiva, servono a entrambi i fini; apportano anzi un beneficio maggiore all’economia del Mezzogiorno, che soffre dei mali nazionali in misura accentuata, segnatamente nei servizi pubblici, nelle infrastrutture, ma anche nella tutela della legalità, nell’ordine pubblico.

Politiche specifiche di incentivazione delle imprese possono essere d’aiuto, ma la loro utilità non va sopravvalutata. Esse comportano costi di gestione, possibili distorsioni allocative, rischi di usi impropri, soprattutto se basate su meccanismi

non automatici. Lo stesso beneficio di stimolo degli investimenti, pur maggiore per
le imprese meridionali, è modesto in rapporto alle risorse impiegate. Secondo le indagini della Banca d’Italia un quinto delle imprese industriali del Mezzogiorno
ha ricevuto nel 2005 incentivi pubblici; quasi un quarto nel resto d’Italia; per le imprese meridionali i maggiori investimenti attivati non raggiungono il 30 per cento dei fondi distribuiti; sono circa il 10 per cento per quelle del Centro-Nord.

Un ridimensionamento del sistema dei trasferimenti alle imprese libererebbe risorse per altre priorità di spesa e per il contenimento della pressione fiscale. Di contro, pensare di forzare finanziariamente la crescita del Sud assegnando alle banche compiti impropri rischia di riproporre esperienze che si sono già dimostrate dannose in passato, sia per l’economia del Mezzogiorno, sia per la stabilità e l’efficienza del sistema bancario.

Il sistema finanziario meridionale ha compiuto importanti progressi nell’ultimo decennio, soprattutto nella qualità e nell’efficienza dell’offerta bancaria, anche grazie all’intervento degli intermediari del Centro-Nord. Al netto del rischio, il divario nel costo del credito fra Sud e Centro-Nord si è quasi annullato. Restano ritardi nella diffusione tra le famiglie meridionali degli strumenti finanziari più avanzati, nello stesso utilizzo dei servizi bancari. Banche e istituzioni finanziarie hanno nel Mezzogiorno un forte potenziale di crescita.

Una finanza per lo sviluppo

I mercati dei capitali

I fondi raccolti dalle imprese direttamente sul mercato, sotto forma di obbli- gazioni o azioni quotate, rappresentano in Italia solo il 17 per cento delle loro fonti
di finanziamento, circa un quarto in meno rispetto a Francia e Germania; la quota supera il 40 per cento negli Stati Uniti, sfiora il 50 nel Regno Unito. La dimensione della borsa, in rapporto a quella dell’economia, è nettamente inferiore alla media dei paesi avanzati.

Lo sviluppo dei mercati è necessario per la crescita delle imprese, così come quest’ultima è la base su cui il primo si fonda. I mercati svolgono un ruolo cruciale nella mobilizzazione delle risorse finanziarie. Le famiglie italiane dispongono nel complesso di una ricchezza finanziaria elevata in rapporto al prodotto interno lordo, anche rispetto agli altri maggiori paesi europei. Pur se il comportamento dei risparmiatori è cambiato negli ultimi anni, la diversificazione del portafoglio delle

famiglie è ancora limitata, con un sacrificio in termini di equilibrio tra rendimento dei risparmi e protezione dal rischio. Mercati finanziari più ampi, efficienti, ben regolati consentiranno di favorire l’evoluzione in corso, a beneficio delle famiglie, delle imprese, degli stessi intermediari.

La quotazione in borsa segna nella vita di un’impresa l’avvio di un percorso verso una struttura finanziaria più salda, anche in vista di un salto dimensionale: con una quota più elevata di debito obbligazionario, spesso con un minor costo dello stesso credito bancario. Ma il timore di perdere il controllo dell’impresa e gli oneri connessi con gli obblighi di trasparenza delle società quotate, anche nei riflessi di natura fiscale, costituiscono per molti imprenditori una remora alla quotazione.
La regolamentazione deve perseguire un equilibrio tra la tutela dell’investitore e
la minimizzazione dei costi per le imprese. All’imprenditore spetta apprezzare le opportunità offerte dalla quotazione in borsa, che nulla toglie alla sua passione, alla sua creatività; che può anzi rappresentare, in alcuni delicati momenti di transizione,
un compromesso tra mantenere l’intero capitale nelle proprie mani, sacrificando le opportunità di crescita, e rinunciare totalmente al controllo.

Per lo sviluppo dei mercati è necessaria una tutela rapida ed efficace degli azionisti di minoranza nei confronti di comportamenti opportunistici o non trasparenti. Oltre che sulle norme, di rango primario e secondario, e sulla loro applicazione da parte delle autorità di vigilanza, la prevenzione deve poter contare sull’iniziativa autonoma degli operatori del mercato: banche, società di rating, investitori. È ampio lo spazio per l’autoregolamentazione e per l’attivismo degli azionisti.

Se tale spazio è sfruttato in Italia solo in parte, questo si deve anche allo scarso peso degli investitori istituzionali. La loro voce, altrove forte e pressante, è da noi flebile. La loro presenza contribuisce al vaglio della qualità della conduzione delle imprese, alla tutela delle minoranze, alla corretta gestione dei conflitti d’interesse; accresce lo spessore del mercato e la sua efficienza allocativa; favorisce il collocamento del capitale di rischio e la diffusione di passività finanziarie a lungo termine. Dove il loro ruolo è maggiore, la dimensione media delle aziende che fanno ingresso in borsa è più contenuta.

I fondi pensione, in particolare, hanno in Italia grandi potenzialità di espansione. Nei sistemi finanziari più avanzati essi costituiscono uno dei principali investitori in azioni quotate. Negli Stati Uniti detengono circa un quinto del capitale
di borsa, corrispondente a circa un terzo del prodotto lordo; in Italia la quota è prossima a zero. Le attività finanziarie gestite dai fondi pensione ammontano al 2,1 per cento del PIL; quelle dei fondi di nuova istituzione allo 0,8.

Un’accelerazione è necessaria. Il grado di copertura fornito dalla previdenza pubblica scenderà nei prossimi decenni per effetto delle riforme introdotte negli anni scorsi; il rapido sviluppo della previdenza complementare è essenziale per fornire redditi adeguati alle future generazioni di pensionati.

Alle contribuzioni dei lavoratori si dovrà aggiungere l’utilizzo del flusso di risorse ora accantonate per il trattamento di fine rapporto (TFR), che per il settore privato ammonta a circa 1,5 punti percentuali del PIL all’anno. I vantaggi per i lavoratori possono essere rilevanti. Un maggiore investimento in azioni innalzerebbe
il frutto del risparmio previdenziale: nel periodo lungo il rendimento delle azioni
ha largamente superato quello delle obbligazioni e la crescita del reddito nominale;
è stato molto maggiore, in media, del rendimento del TFR.

Per i lavoratori il TFR ha fino a oggi rappresentato una forma di risparmio precauzionale, dal rendimento modesto ma certo, che si affiancava in caso di perdita del lavoro alla tutela offerta dagli ammortizzatori sociali, spesso carente. Vanno ricercate le modalità con cui assicurare ai lavoratori adeguati margini di flessibilità nell’utilizzo delle risorse accantonate e un appropriato contenimento del rischio.

Quanto alle imprese, sgravi contributivi quali quelli annunciati compense- rebbero ampiamente la perdita di un canale di finanziamento a costi inferiori a quelli di mercato.

Lo sviluppo della previdenza integrativa richiede che sia promossa la piena concorrenza fra tutte le istituzioni finanziarie e sia garantita la libertà di scelta da parte dei lavoratori. Dimensioni idonee dei fondi e maggiore trasparenza delle condizioni devono contribuire al contenimento dei costi.

Allo stesso tempo è necessario fornire ai lavoratori chiare informazioni circa
la pensione pubblica di cui disporranno in futuro. Secondo dati dell’indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie, un terzo degli occupati non è in grado di valutare l’adeguatezza della propria pensione.

L’esperienza di altri paesi indica che l’espansione dei fondi pensione è cruciale anche per lo sviluppo degli intermediari specializzati nel favorire la crescita delle imprese piccole e innovative. Negli anni fra il 2000 e il 2003 negli Stati Uniti i fondi pensione hanno rappresentato il 42 per cento dei flussi di finanziamento delle società di venture capital, contro il 20 dell’area dell’euro e il 3 dell’Italia.

Un mercato di borsa spesso ed efficiente consente agli operatori di private equity di cedere le proprie partecipazioni attraverso la quotazione delle imprese, con una modalità di dismissione che, oltre a tutelare maggiormente l’imprenditore

dal rischio di perdere il controllo, conferisce trasparenza al processo di valutazione. Crescita degli intermediari specializzati, maggior peso degli investitori istituzionali
e irrobustimento della borsa si rafforzano a vicenda.

L’ulteriore diffusione dei fondi comuni consentirebbe una maggiore diversi- ficazione dei rischi nei portafogli delle famiglie, migliorerebbe il funzionamento dei mercati finanziari. La competitività dei fondi italiani risente di svantaggi fiscali rispetto a operatori esteri; è nell’interesse dello sviluppo della nostra industria fi- nanziaria rimuoverli.

La Banca d’Italia semplificherà la normativa di vigilanza. Si abbrevieranno
i tempi di accesso al mercato, ampliando le ipotesi di approvazione rapida o auto- matica dei regolamenti dei fondi. Sarà assicurata la massima autonomia operativa dei fondi speculativi e riservati a investitori qualificati, caratterizzati da elevati importi minimi delle quote.

Lo sviluppo dei fondi comuni potrebbe avvantaggiarsi anche di un’evoluzione della struttura del settore. L’attuale assetto di governance delle società di gestione del risparmio è basato sull’integrazione tra produzione e distribuzione dei prodotti finanziari e sul ruolo centrale dei gruppi bancari e assicurativi. Tale modello ha consentito al settore, in una fase iniziale, di crescere rapidamente. Oggi rischia di segmentare di fatto il mercato; ne riduce l’efficienza; ne frena l’ulteriore crescita qualitativa e dimensionale, impedendo il pieno sfruttamento delle forti economie
di scala nell’asset management.

Per volumi di scambi e costi di transazione la piazza finanziaria italiana ha fatto registrare negli ultimi anni rilevanti progressi. La liquidità del mercato e il suo spessore potranno ulteriormente aumentare se verrà accelerata la realizzazione dei programmi di federazione con altri sistemi europei, salvaguardando i vantaggi informativi del mercato nazionale.

La direttiva europea sui mercati finanziari ha posto le basi perché il processo
di integrazione rafforzi la concorrenza fra mercati regolamentati e sistemi gestiti
da intermediari. Questi benefici rischiano però di essere vanificati se permangono barriere all’accesso ai servizi di compensazione e regolamento, e difformità normative e tecniche. La definizione di ulteriori norme comuni potrebbe mirare a evitare discriminazioni nell’accesso degli operatori e a creare un quadro armonizzato
di regolamentazione e supervisione, che assicuri parità concorrenziale, tutela degli investitori, stabilità sistemica.

Le banche

Il sistema bancario italiano è solido. Negli ultimi anni la qualità dei crediti è rimasta elevata, nonostante la debolezza dell’economia reale; ha tratto beneficio dagli affinamenti nelle tecniche di selezione della clientela, ma anche dal trasferi- mento al di fuori dei bilanci bancari di parte dei rischi di credito. La redditività dei gruppi bancari è migliorata: il rendimento del capitale ha raggiunto il 12 per cento, due punti in più rispetto al 2004; nei principali gruppi è salito di cinque punti, al
16,2 per cento.

L’ulteriore sviluppo, anche dimensionale, delle banche, giova alla competi- tività del sistema finanziario, rafforza l’economia. Le banche minori conservano un ruolo insostituibile nel finanziamento dei sistemi produttivi locali; la presenza di intermediari di dimensione adeguata è necessaria per assicurare ampia disponibilità
e basso costo dei servizi più avanzati. La crescita, l’internazionalizzazione delle imprese sono favorite dalla crescita e dall’internazionalizzazione delle banche.

Alle attività tradizionali le banche affiancano oggi in misura crescente quella di distribuzione di una molteplicità di prodotti finanziari. Questo incide sulla composizione dei rischi. Il buon nome della banca, legato alla correttezza dei comportamenti e alla qualità dei prodotti venduti, anche se di terzi, diventa
un elemento cruciale per la competitività e la stessa stabilità degli intermediari.
Ai tradizionali rischi di credito e di mercato, in parte trasferiti ad altri operatori,
si affiancano rischi di reputazione, legali, operativi.

In questo contesto la puntuale osservanza delle norme, di adeguati standard operativi, dei principi deontologici ed etici costituisce un prerequisito per la sana e prudente gestione degli intermediari. Vanno rafforzati i presidi volti a orientare la cultura aziendale al rigoroso rispetto delle regole, alla corretta gestione dei conflitti
di interesse, alla conservazione del rapporto fiduciario con la clientela. La Banca d’Italia emanerà istruzioni perché le banche istituiscano una specifica funzione
di verifica della compliance, cioè della conformità dei propri comportamenti alle prescrizioni normative e di autoregolamentazione.

Il codice etico che il Consiglio superiore della Banca d’Italia ha stamani approvato contiene una previsione in tal senso per il nostro Istituto.

Altrettanto importante è il presidio costituito da una governance efficace. Soprattutto in presenza di assetti proprietari frammentati, è necessario prevenire l’insorgere di modalità di governo autoreferenziali. Chiarezza nella ripartizione dei ruoli, effettivo esercizio delle prerogative degli organi, presenza di adeguati

controlli, dialettica interna, trasparenza dei comportamenti assicurano la corretta gestione, con una consapevole assunzione dei rischi d’impresa.

La maggiore efficienza delle banche, l’innalzamento del grado di concorrenza non si sono ancora riflessi a sufficienza sui prezzi e sulla qualità di alcuni servizi bancari.

I costi applicati dalle banche per la chiusura dei conti hanno particolare rilievo perché possono limitare la mobilità della clientela ostacolando la concorrenza. Alla fine del 2004, in coordinamento con l’Autorità garante della concorrenza
e del mercato, la Banca d’Italia aveva avviato un’indagine diretta ad accertare modalità operative e costi per la chiusura dei principali servizi bancari e finanziari
al dettaglio. Negli ultimi due anni alcune banche hanno abolito le spese di chiusura dei conti. Nella maggior parte dei paesi europei le banche non possono richiedere commissioni per l’estinzione del rapporto; in alcuni, come Regno Unito e Francia, codici di autoregolamentazione definiscono anche standard per assicurare l’effettiva trasferibilità, in tempi certi, del rapporto e dei servizi ad esso associati. Gli ampi dati raccolti nel corso dell’indagine sono illustrati nel corpo della Relazione; il seguito è ora di competenza dell’Autorità antitrust.

Il nuovo Accordo di Basilea introduce principi fortemente innovativi nella regolamentazione bancaria. Il suo recepimento richiede una profonda revisione del corpo normativo. Ne deriveranno semplificazione della disciplina prudenziale, maggiore libertà per gli intermediari, accresciuta flessibilità del sistema bancario.

Criterio fondamentale diviene la valutazione di tutte le forme di rischio con metodi quantitativi comuni, nonché una più precisa correlazione dei requisiti patrimoniali con l’entità dei rischi assunti. Le nuove regole per la valutazione dell’adeguatezza patrimoniale e organizzativa delle banche sono basate sulle metodologie aziendali degli stessi intermediari. Alla Vigilanza spetta verificare l’attendibilità e il rigore dei metodi adottati; richiedere, all’occorrenza, correzioni
e miglioramenti. Si avrà un’interazione più articolata fra la Vigilanza e le banche, ma saranno ridotti gli adempimenti richiesti per fini regolamentari.

La diffusione su vasta scala di sistemi di calcolo dei requisiti patrimoniali, sviluppati all’inizio individualmente dalle maggiori banche, ha reso accessibili
a un’ampia gamma di intermediari tecniche adeguate, anche attraverso forme consortili. I metodi di calcolo più avanzati saranno peraltro utilizzati inizialmente

solo da alcuni tra i maggiori gruppi. Nel mercato si troveranno a operare banche con metodologie di valutazione del credito di diversa complessità. La Vigilanza
è impegnata a verificare che da metodi diversi di selezione della clientela non scaturiscano arbitraggi normativi e fenomeni di selezione avversa.

Il sistema della ponderazione dei rischi e il trattamento particolare accordato
ai prestiti di importo contenuto fanno sì che la nuova normativa non comporti restrizioni del credito o aggravi di costo per le imprese di minore dimensione.

Le nuove regole, accrescendo il ruolo di strumenti di supervisione flessibili e orientati al mercato e riducendo quello di minuziose prescrizioni amministrative, accentuano e rendono ancora più incisivo il ruolo della vigilanza ispettiva e cartolare.

Sempre con l’obiettivo di orientare la finanza alla ripresa della crescita dell’economia, è intenzione della Banca d’Italia proporre al Comitato intermini- steriale per il credito e il risparmio una revisione della disciplina delle parteci- pazioni di banche nelle imprese non finanziarie. La regolamentazione verrebbe allineata a quella comunitaria, superando i vincoli ora stringenti e prevedendo altresì rigorosi presidi in materia di governance per assicurare la stabilità degli intermediari nonché una gestione trasparente e corretta dei conflitti di interesse.

Riguardo all’autorizzazione all’acquisto di partecipazioni di controllo nelle banche, sarà abolito l’obbligo di comunicare il progetto all’organo di vigilanza prima che esso venga proposto al consiglio di amministrazione.

Trainata dalla moneta unica e dalla progressiva armonizzazione regolamen- tare, l’integrazione dei mercati bancari europei riceve impulso dall’evoluzione dell’ambiente competitivo. Vi contribuisce lo sviluppo del credito al consumo e più in generale dei prodotti per le famiglie, caratterizzati da una progressiva standardizzazione nel disegno e nella tecnologia. La loro distribuzione su larga scala ne risulta incentivata; il valore delle reti distributive esistenti ne è accresciuto. L’Italia, dove le famiglie hanno un livello contenuto di indebitamento e attività finanziarie ancora non molto diversificate, costituisce un mercato attraente.

Nell’ultimo decennio, anche in seguito alle ristrutturazioni avvenute all’in- terno dei mercati nazionali, i principali gruppi bancari europei hanno raggiunto livelli di profitto elevati. Dispongono ora delle risorse per estendere in misura significativa la propria attività oltre i confini nazionali. La crescita delle principali

banche italiane ha ridotto la distanza che le separa dalle altre grandi banche europee. Ma il divario non è scomparso; il processo deve continuare.

Nel 2005 hanno avuto luogo, come è noto, importanti acquisizioni di due banche italiane da parte di gruppi esteri, e di banche estere da parte di un gruppo italiano. Il grado di internazionalizzazione del nostro sistema bancario si è così fortemente innalzato, allineandosi a quello tipico dei maggiori paesi dell’area dell’euro. Il peso degli istituti di proprietà estera sul totale dell’attività delle banche con sede in Italia è salito dall’8 al 14 per cento; l’analoga quota assume valori compresi fra il 10 e l’11 per cento in Francia, Germania, Spagna; è il 14 per cento in Olanda. Per il complesso dei primi cinque gruppi bancari italiani,
le attività estere sono passate dall’11 al 41 per cento dell’attivo, valore simile
a quello corrispondente degli altri paesi citati. L’incremento è tutto dovuto a un’unica acquisizione.

La diffusione di gruppi bancari multinazionali in Europa richiede una vigilanza esercitata congiuntamente da organismi di paesi diversi, secondo principi fissati a livello europeo che assegnano una funzione di coordinamento all’autorità
di vigilanza della capogruppo. Sono state create strutture permanenti, i collegi di supervisione, per raccordare l’attività di vigilanza sui gruppi multinazionali. La Banca d’Italia ha sottoscritto specifici accordi con le autorità tedesche e ha assunto contatti con quelle di numerosi altri paesi europei, allo scopo di organizzare forme
di cooperazione concernenti gruppi italiani con presenza di rilevanza sistemica in altri paesi, o viceversa. La cooperazione riguarda anche la convergenza delle prassi
di vigilanza, per assicurare omogeneità di applicazione alle unità di un gruppo dislocate in diversi paesi.

La legge per la tutela del risparmio approvata nel dicembre 2005 persegue l’obiettivo di rafforzare la protezione dei risparmiatori e di innalzare il grado di tra- sparenza dei mercati, con norme che incidono sulla disciplina degli operatori, sulle relazioni tra gli intermediari e la clientela, sull’assetto delle autorità di controllo.

Per quest’ultimo aspetto, la riforma si ispira al principio di ripartire le competenze in base alle finalità. Si inscrivono in tale orientamento il trasferimento delle funzioni antitrust nel settore bancario all’Autorità garante della concorrenza
e del mercato, e l’attribuzione alla Consob di nuovi compiti di regolamentazione
e controllo sull’offerta dei prodotti finanziari di banche e assicurazioni. Il modello della vigilanza per finalità offre benefici in termini di specializzazione dei controlli, speditezza del processo decisionale, trasparente identificazione delle responsabilità delle autorità rispetto alle finalità assegnate e all’esercizio dei poteri attribuiti.

La Banca d’Italia aveva già raggiunto accordi con Isvap e Consob per la vigilanza sui conglomerati finanziari. È ora pronta a tutte le intese che si renderanno necessarie nel nuovo quadro normativo. Per le materie che interessano le competenze di più autorità, è auspicabile che si ponga mano alla semplificazione di alcune soluzioni tecniche individuate dalla legge, in particolare per quanto riguarda l’artificiosa riconduzione a un atto unico dei distinti provvedimenti autorizzativi
in materia di concentrazioni bancarie. La collaborazione tra autorità è essenziale per il migliore esercizio della discrezionalità amministrativa e per contenere i costi della supervisione a carico dei soggetti vigilati.


Queste mie considerazioni finali si sono aperte con le parole “tornare alla crescita”. Oggi è questa la priorità assoluta della politica economica italiana: proprio come l’entrata nell’Unione monetaria lo fu dieci anni fa. Preservando la stabilità a duro prezzo acquisita, si deve ritrovare la via dello sviluppo. Le azioni da intraprendere, incluse le misure per il risanamento della finanza pubblica, divenuto imperativo, devono essere vagliate in primo luogo sotto questo profilo.

Il raggiungimento di questo obiettivo richiede consenso sul disegno del futuro, concordia sull’azione nel presente. Ci sia di incoraggiamento la consapevolezza che
il Paese nella sua storia ha saputo rispondere a sfide ben più drammatiche.
 







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