Dalla riforma Berlinguer alle iniziative della Moratti, Distrutta ogni probabilità che l'Italia formi un'élite moderna
Data: Martedì, 23 maggio 2006 ore 21:18:03 CEST
Argomento: Recensioni


di PIETRO CITATI 

 Negli ultimi sessanta anni, in Italia, sono accadute molte catastrofi: alluvioni, terremoti, inondazioni. Ma la catastrofe di gran lunga più grave è stata la cosiddetta Riforma Berlinguer, immaginata otto anni fa dal governo presieduto da Romano Prodi. Gli italiani, che hanno la memoria brevissima, se ne sono dimenticati: ma gli studenti, i professori, il paese ne subiscono il terribile effetto, che andrà moltiplicandosi nei prossimi anni. Mi riferisco alle facoltà di tipo umanistico: non a quelle a carattere sopratutto tecnico.

La Riforma Berlinguer ha distrutto e sta continuando a distruggere la probabilità che in Italia si formi quella che chiamiamo un'élite moderna. Non voglio ripetere cose notissime: ma senza un'élite colta e intelligente un paese non vive, non si sviluppa, non si arricchisce.  

Senza un'élite, un paese è votato alla rovina: specialmente nei nostri anni, quando l'attività industriale si è in buona parte trasferita in Cina o in India, dove si sta diffondendo una cultura specializzata già superiore, per certi versi, a quella italiana. Ma all'onorevole Berlinguer, circondato dal suo radiosissimo alone di gloria, non importa nulla della nostra classe dirigente.  

La catastrofe si preparava da anni. Ricordo un mediocre studioso di diritto romano lamentarsi dolorosamente, in qualche raduno televisivo, della mortalità universitaria. Non riuscivo a capire. Pensai che la Peste, o il Colera, o il Tifo, o l'Aids, o Ebola, avessero spopolato i folti banchi della Sapienza. Lo specialista di diritto romano rassicurò il pubblico: no, Ebola non era arrivato fin qui. Il danno era molto più grave. Gli studenti universitari non terminavano le facoltà che avevano iniziato: innumerevoli fuori-corso languivano nei tristi corridoi delle università italiane. Il professore sbagliava. Che soltanto il venti o il trenta per cento degli studenti di lettere giungessero alla laurea era un fatto positivo. Se si fossero laureati tutti, l'Italia avrebbe conosciuto una disastrosa disoccupazione scolastica. Così, invece, decine di migliaia di giovani ritornavano a Barletta o a Fabriano o a Alba o a Sanremo: vi aprivano un negozio di verdure o di formaggi o di tartufi o una piantagione di garofani, e trascorrevano volentieri il resto della vita, con nella memoria un vago ricordo di Omero, di Saffo e di Erodoto.  

Mi chiedo se, alcuni anni dopo l'applicazione della Riforma Berlinguer, si possa fare qualcosa per diminuirne le conseguenze negative. Il primo fatto, generalmente riconosciuto, è che il corso minor di tre anni non serve a niente: dopo tre anni, lo studente non sa quasi nulla: non può insegnare nelle medie e nei licei; non gli resta (se ha imparato una lingua) che fare la guida turistica o lavorare in un'agenzia di viaggi, eventualmente aggiungendo ai tre anni universitari un master privato inutile e costoso.

 Intanto, il complicato meccanismo di crediti e moduli, che regge l'insegnamento secondo il modello americano, ha dimostrato la propria inefficienza. Gli esami si sono triplicati: il lavoro dello studente è aumentato; salvo che egli impara pochissimo, perché non si può insegnare qualcosa di decoroso su Shakespeare o Petrarca nel corso di poche settimane. Non è possibile che La Sapienza di Roma stabilisca che, durante un modulo, uno studente non debba leggere più di 200 pagine (testi compresi), per evitare che le sue energie psico-cerebrali e quelle dei genitori e della fidanzata vengano irreparabilmente logorate ed esaurite. Il sistema dei moduli va limitato o reimmesso nel vecchio equilibrio degli esami annuali, che era molto più efficace. Forse andrebbe ricordato che l'uggioso edificio universitario, con le grandi aule squallide, i melanconici corridoi, le scale sbrecciate, ha un solo aspetto positivo: che vi si studi.  

Dopo i tre anni di insegnamento minore, gli studenti dovrebbero affrontare i due anni di insegnamento specialistico: dico dovrebbero, perché coloro che li hanno abbracciati sono, per ora, pochi. Dopo i due anni di specialistica, può avvenire un concorso. Chi lo vince, diventa dottorando per tre anni, e riceve un piccolo stipendio. Ma dopo i tre due tre = otto anni di studio, la sua carriera è bloccata. Il dottorando è costretto a diventare, attraverso vari gradini, professore universitario. Ma se, all'Università, non ci sono posti liberi? O se egli preferisce insegnare nei licei? Questo gli è severamente proibito: i dottorandi, vale a dire i più colti e intelligenti tra gli studenti italiani, non devono insegnare nei licei, che pure avrebbero bisogno di loro.  

C'è soltanto una possibilità. Seguire altri due anni di corsi di didattica: cosa assolutamente idiota, perché per imparare a insegnare basta un corso di due mesi, congiunto con la disposizione naturale per l'insegnamento, senza la quale nessuno diventerà mai professore. Non voglio nascondere che questo è un discorso puramente fantastico, perché per il dottorando non esistono, oggi, né posti nell'università né nei licei. Egli non troverà lavoro. Non farà niente. A meno che una vasta moria (la quale pare prevista dal nostro profetico Ministero) renda libere migliaia di cattedre.  

Mi piacerebbe raccontare quali nuove cattedre l'onorevole Berlinguer e i successori e i funzionari ministeriali e i rettori di università e i presidi di facoltà e i direttori di dipartimento hanno inventato. Sappiamo che nelle università americane c'è la cattedra di gelato artigianale, di cappellini per signore, di jeans per ragazzi e ragazze, di sandali per i tropici, di computer applicati all'analisi letteraria, di retto uso dei pannolini, di bella conversazione e di corteggiamento erotico. Va benissimo. Quella non è università. Ma non sarebbe inutile ridurre radicalmente il numero delle cattedre insensate, che oggi vengono aperte nelle università italiane.  

Una recente circolare del Ministro Moratti prescrive che i professori universitari devono fare almeno centoventi ore annue di lezioni frontali. C'è di nuovo, almeno per me, la difficoltà di capire. Cos'è una lezione frontale? Secondo i dizionari, frontale vuol dire: relativo alla fronte come parte anatomica: con la fronte rivolta verso chi osserva: visto di fronte: che avviene nella parte anteriore di uno schieramento militare: sezione realizzata secondo piani perpendicolari all'asse dorso-ventrale: facciata di una chiesa: mensola di un caminetto: piastra di ferro che chiude il fondo di un camino: parte della briglia che passa sulla fronte di un cavallo: antico ornamento femminile (cerchietto o nastro o filo di perle): parte dell'elmo; parte di metallo o di cuoio che copre la fronte del cavallo. Infine, quasi spossato dalla fatica ermeneutica, trovai nel Dizionario della lingua italiana di Tullio De Mauro (Paravia) la spiegazione giusta: frontale è un metodo di insegnamento, nel quale il professore siede in cattedra, di fronte ai suoi allievi. Non amo molto l'insegnamento frontale: può essere agevolmente sostituito dalla lettura di un buon libro.  

La vera lezione, sebbene rivolta a non più di trenta studenti, è il cosiddetto seminario: soltanto nel seminario, compiuto in comune, il professore insegna agli studenti a leggere un testo, cercando insieme a loro le fonti e le allusioni e interpretandone le superfici e i segreti. Ma centoventi ore annuali di insegnamento frontale sono troppe: un vero professore deve leggere e studiare per conto proprio; ciò che esige infinito tempo e pazienza. Un ministro o un funzionario ministeriale o un preside pensano che questo sia inutile. È bene, invece, che un professore passi mattine e pomeriggi espletando del lavoro burocratico completamente assurdo, che il Ministero (visionario come tutti i Ministeri) gli impone.  

Un'altra origine di insensatezza è la distribuzione dei finanziamenti, da parte del Ministero, alle diverse università. I criteri sono molti, e non posso elencarli tutti. Basterà ricordare che la qualità della ricerca è un criterio molto meno importante di criteri esterni, come per esempio il possesso di computer. L'Università Orientale di Napoli è il luogo che, in Italia, dedica più attenzione allo studio delle civiltà orientali. Quale importanza (anche pratica) abbia, oggi, lo studio delle lingue e culture araba e cinese, non è necessario ricordare. Ma l'Università Orientale ha anche una sezione "occidentale": un professore di questa sezione ha da poco espresso la seguente opinione: l'Università deve essere più ancorata ai bisogni del territorio; vale a dire, suppongo, che l'Orientale, invece di studiare il buddismo o il manicheismo, dovrebbe dedicarsi allo studio psico- sociologico della camorra a Caserta e Castellamare di Stabia.  

Come è naturale, gli studenti che imparano la lingua e la letteratura persiana o turca sono meno numerosi di coloro che apprendono la letteratura italiana o inglese. Ma il Ministero provvede. Per il Ministero, non ha alcuna importanza che l'Università Orientale possegga una biblioteca di 200.000 volumi antichi, continuamente aggiornati, e che eccellenti studiosi vengano da Parigi o Tübingen a parlare ai giovani orientalisti. Ciò che è grave è che gli studenti siano relativamente pochi rispetto ai professori. L'Orientale va dunque punita per eccesso di serietà. Infatti, l'anno scorso, il Ministero dell'Istruzione ha tolto quattro milioni di euro al finanziamento dell'Orientale: una catastrofe. Così l'imprecisione, l'inesattezza, la cialtroneria, la demagogia - questo è per molti italiani la cultura moderna - si diffondono. Non saranno né imprecisi né inesatti i cinesi e gli indiani che, un giorno, verranno a colonizzare la cultura universitaria italiana.

(23 maggio 2006)

 

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Pietro Citati   -

Biografia
1930 Pietro Citati nasce a Firenze. Studia a Torino all’Istituto Sociale e in seguito al liceo classico D’Azeglio.
1942 Torino viene bombardata. La sua famiglia si trasferisce in Liguria. Qui comincia a leggere e a studiare da autodidatta
libri di diversi autori tra cui
Shakespeare, Byron, Platone, Stendhal, Omero, Dumas e Poe.
1951 Si laurea alla Scuola Normale Superiore di Pisa in Lettere moderne. Inizia la sua carriera di critico letterario collaborando a riviste come Il Punto (al fianco di
Pier Paolo Pasolini), L’Approdo e Paragone.
1954 Insegna italiano fino al 1959 nelle scuole professionali di Frascati e alla periferia di Roma. Negli anni Sessanta comincia a scrivere su Il Giorno.
1973 Si occupa di articoli di cultura per il Corriere della Sera fino al 1988.
1988 È critico letterario de la Repubblica. Dirige la collana “Scrittori greci e latini” della fondazione Lorenzo Valla per l’editore
Mondadori.
Per la sua opera ha ricevuto numerosi e importanti premi. Fra i più recenti il “Prix de la latinité”, conferitogli dall’Académie francaise e dall’Accademia delle lettere brasiliana nel 2000. Sposato, con un figlio, attualmente vive a Roma.

Opere
Nel panorama letterario italiano Citati si afferma come saggista e critico, eccellente nel genere della biografia. Il grande impegno narrativo gli ha permesso di conseguire il Premio Viareggio per il suo libro
Goethe, edito nel 1970 da Mondadori e ristampato nel 1990 da Adelphi.
Tra le altre biografie si trovano Immagini di
Alessandro Manzoni (Mondadori 1973; col titolo La collina di Brusuglio, Oscar Mondadori 1977), Alessandro (Rizzoli 1974, Oscar Mondadori 1985), Vita breve di Katherine Mansfield (Rizzoli 1980, Oscar Mondadori 2001), Tolstoj (Longanesi 1983, premio Strega 1984, Adelphi 1996), Kafka (Rizzoli 1987, Oscar Mondadori 2000), Ritratti di donne (Rizzoli 1992), La colomba pugnalata (Mondadori 1995). Pur essendo una documentazione storica, lo scrittore cerca di ricostruire in queste opere, in base alla sua sensibilità e al suo stile raffinato, la personalità dei protagonisti, approfondendo il loro profilo psicologico.
Il resto della sua produzione letteraria è vario: comprende anche favole per bambini in I racconti dei gatti e delle scimmie (Rizzoli 1981) e opere in cui lo scrittore tratta temi cruciali della cultura moderna. Di questi scritti si ricordano Il tè del cappellaio matto (Mondadori 1972), La primavera di Cosroe (Rizzoli 1977, Oscar Mondadori 2000), I frantumi del mondo (Rizzoli 1978), Il migliore dei mondi impossibili (Rizzoli 1972), Il sogno della camera rossa (Rizzoli 1986), Storia prima felice, poi dolentissima e funesta (Rizzoli 1989, Oscar Mondatori 2002), La luce della notte (Mondadori 1996), L’armonia del mondo. Miti d’oggi (Rizzoli 1998), Il male assoluto (Mondadori 2000), La mente colorata (Mondadori 2002) fino al più recente Israele e L’Islam. Le scintille di Dio (Mondadori 2003).
fonte: www.tracce.it

 

22 Marzo 2006

15/3 IL MANIFESTO Frammenti dalla società della conoscenza

Intervista di Gigi Roggero a Roberto Moscati e a seguire un commento di Alessandro Dal Lago  

Un'intervista con Roberto Moscati sugli atenei italiani dopo la riforma voluta da Luigi Berlinguer entrata in vigore nel 2001 e gli interventi legislativi della ministra Letizia Moratti

Diffuso precariato, parcellizzazione del sapere e divisione della formazione superiore tra pochi centri d'eccellenza e molte università di serie b incentrate su una offerta didattica di bassa qualità 

GIGI ROGGERO

Sull'università esiste una reale anomalia italiana. Ma non si tratta della sua «arretratezza», come potrebbero arguire i critici dell'attuale ministra - salvo poi plaudire a un probabile venturo morattismo senza Moratti. Dal punto di vista istituzionale, anzi, la riforma disegnata da Berlinguer, puntellata da Zecchino e ripresa dal centro-destra è una punta «avanzata » (in quanto imposta dall'alto) del Bologna process, ossia della costruzione di uno spazio europeo dell'istruzione superiore incardinato sul cosiddetto «3+2» (laurea triennale, e due anni per la specialistica) e sui crediti formativi. La reale anomalia è invece rappresentata dai movimenti degli studenti e dei ricercatori precari che hanno messo radicalmente in discussione non solo l'architettura formale dell'università riformata, ma anche i nodi dirimenti della didattica, della produzione dei saperi, della crescente precarietà nel rapporto di lavoro e del mercato della formazione. Riluttanti, cioè, ad essere considerati stakeholder, cioè protagonisti e al tempo stesso oggetti passivi della governance formativa. E tuttavia nulla si può capire delle trasformazioni dell'università italiana se non collocandole all'interno delle tendenze europee che riguardano il ruolo dei saperi nella cosiddetta knowledge society. Da qui inizia l'intervista con RobertoMoscati, docente di Sociologia all'Università Bicocca di Milano, a suo tempo membro della commissione Martinotti, che elaborò le linee guida della riforma Berlinguer. «I maggiori punti di contatto tra i vari sistemi europei di formazione universitaria risiedono nel malumore dei docenti, dei ricercatori e degli studenti. per quanto riguarda i docenti e i ricercatori, lo scontento risiede nel disequilibrio tra responsabilità, incarichi didattici e non, retribuzioni e aspettative. A livello europeo, è in atto una riduzione degli spazi della ricerca, mentre il carico didattico aumenta (in Italia siamo ancora a livelli bassi rispetto alle medie europee). Sta inoltre cambiando la figura del docente universitario. Per quanto riguarda l'Italia, la legge 382 del 1980 sul riordinamento della docenza universitaria stabiliva che i ricercatori non dovevano fare didattica, se non occasionalmente. Era poi introdotta la figura del professore a contratto, ma erano pochi, di prestigio, ben pagati. Adesso sono diventati molti, malpagati, e non sempre di prestigio. Ordinari e associati scaricano la didattica su altri, mettendo in difficoltà l'anello debole della catena, cioè i ricercatori, che talvolta ritengono l'attività didattica un'occasione di prestigio. La cosa si sta allargando ai dottorandi e al post-dottorato. Tutto questo è avvenuto e avviene senza una regolamentazione. Si riproduce cioè la prevaricazione dei docenti più forti su quelli più giovani e deboli. Infine, molte delle figure «atipiche» nella ricerca e nell'insegnamento sono pagate pochissimo o nulla, mentre è pesante il carico di lavoro. È possibile ipotizzare che la frammentazione dei corsi e i saperi a rapida obsolescenza favoriti dalla riforma Berlinguer richiedano strutturalmente una forza-lavoro «usa e getta»? La diffusione dell'uso del precariato è cominciata prima della riforma Berlinguer. È un fenomeno generalizzato, indotto da molti aspetti combinati e riassumibile nello slogan della knowledge society. La «società della conoscenza» ha infatti bisogno di uomini e donne con un'istruzione superiore, anche se divisi in strati sequenziali: molti al primo livello, una parte minore al secondo, una parte ancora minore al terzo. Cosa che peraltro esiste da almeno cinquant'anni negli Stati Uniti. Tutto ciò ha però determinato un cambiamento sia qualitativo che quantitativo nell'« utenza». Anche se molti docenti faticano ad accettarlo, l'università di élite che esisteva fino al '68 non esiste più. D'altra parte, i rettori sostengono che obiettivo dell'università è avere il maggior numero di studenti, alimentando così la competizione tra atenei attraverso la diversificazione dell'offerta formativa o attivando corsi «alla moda», come Scienze della comunicazione. L'obiettivo dell'università non è infatti la formazione di una élite, bensì la formazione del cittadino. Da qui la necessità di modificare il rapporto con gli studenti, che hanno provenienze sociali, bagagli culturali e capitali sociali tra loro molto differenziati. Di fronte a questa situazione c'è stata una proliferazione dell'offerta didattica, ma di bassa qualità. Bisognerebbe, invece, aumentare drasticamente il numero e la qualità del personale docente, senza però alimentare la crescita di figure precarie. La legge voluta da LetiziaMoratti non fa altro che formalizzare il precariato già presente nell'università. Sono convinto che una delle priorità dell'università sia la continuità nell'attività di ricerca, attraverso una trasparenza dell'accesso alla carriera università. Potremmo dire che è avvenuto un passaggio da criteri selettivi di esclusione a criteri di inclusione differenziale. Nel mercato della formazione, ogni singolo compone il proprio portfolio biografico accumulando crediti attraverso i differenti livelli dei sistemi di istruzione superiore. Nell'applicazione della riforma, quanto questo processo di inclusione differenziale si è accompagnato ed ha prodotto una dequalificazione dei saperi? Il precariato universitario che fa didattica è diviso in personale giovane che mira a fare la carriera e ricercatori appena entrati da un lato, e dall'altro «personale avventizi»o, i famosi esperti che ora vengono reclutati in quantità rilevante. Il tipo di insegnamento che gli «esperti» forniscono è di qualità spesso discutibile. Chi è un buon giornalista o un buon manager non è detto che sappia insegnare. Diverso è il discorso relativo ai giovani ricercatori. In molti casi la voglia e la disponibilità di insegnare da parte loro si traduce in un'efficacia ed efficienza maggiori della media. La riforma ha però evidenziato un problema latente. Tra la necessità di una formazione diffusa e la formazione di ricercatori di alta qualificazione, sta infatti emergendo una proposta: fare due tipi di università, come già accade negli Stati Uniti, dove sono presenti research university e università che fanno solo didattica. Quest'ultime forniscono una formazione di serie B, mentre l'accesso ai cosiddetti «centri d'eccellenza» è prerogativa della futura classe dirigente. Etuttavia credo vada pensata un'alternativa sia all'idea gentiliana dell'istruzione umanistica universale che all'attuale dequalificazione e frammentazione dei saperi. Le che ne pensa? La riforma universitaria è stata interpretata da un punto di vista che potremmo definire ingegneristico. Tutti gli atenei si sono affannati a costruire i cosiddetti percorsi formativi, alimentando la frammentazione dei saperi. C'è stato un ottimismo della volontà assolutamente esagerato. Non sono state cioè discusse le ragioni per cui si faceva una riforma che stabiliva che dopo tre anni di università lo studente era pronto per entrare nel mercato del lavoro, ma che poteva poi ritornare all'università per completare la sua specializzazione. Se l'obiettivo è la formazione permanente, uno studente deve accettare che l'apprendimento di una disciplina posso avvenire in fasi diverse della sua vita. Inoltre, la riforma aveva bisogno di una sperimentazione e di una verifica della sua efficacia. La Germania, ad esempio, ha stabilito che valuterà in 10 anni l'efficacia della riforma basata sulla cosiddetta «Carta di Bologna». All'oggi si aggirano intorno al 30% le università riformate in Germania.... La commissione Martinotti aveva avvertito Berlinguer che non si poteva realizzare la riforma in qualche mese. La risposta è stata: o facciamo questa riforma subito, o non passerà mai. Infatti, non è stata nemmeno discussa in parlamento, è passata di soppiatto nelle maglie della finanziaria del '98, con un lavoro sotterraneo di Guerzoni con i parlamentari affinché accettassero qualcosa che la maggior parte non aveva nemmeno capito. Questo è uno dei limiti politici del nostro paese: le riforme (di destra, di centro o di sinistra) non vengono mai pensate in prospettiva, ma sempre all'interno dello spazio della legislatura. Non c'è stata dunque l'occasione per riflettere su come cambiare i contenuti dei processi formativi. Tra l'altro era una riforma a costo zero e le facoltà, non potendo reclutare i docenti che le servivano, hanno ritagliato i percorsi in base alle risorse interne esistenti. Io non dico di ritornare alla situazione precedente, ma un ripensamento di fondo è tuttavia necessario. Il nodo di fondo della riforma sembra articolarsi intorno alla cosiddetta «mission» dell'università. Nel momento in cui assistiamo alla moltiplicazione delle agenzie che compongono il mercato della formazione, il problema del sistema universitario è come accreditarsi al suo interno in quanto attore competitivo. In questa chiave si possono leggere le diverse «visioni» di alcuni dei soggetti della governance dell'istruzione superiore (Crui, Cun, ministeri passati e presenti). Visioni differenti, certo, ma accumunate dal sostegno verso un processo di aziendalizzazione dell'università. Non crede? La Moratti non aveva un'idea alternativa per buttare amare la riforma; la tentazione l'ha avuta, ma c'è stata una sollevazione del mondo accademico. La Crui (la conferenza dei rettori, n.d.r.) sta cercando di elaborare una proposta sulla mission dell'università, che le consenta di giocare un ruolo di mediatore nei confronti del Ministero in sostituzione del Cun (il consiglio universitario nazionale, n.d.r.). L'università deve aprirsi al mondo esterno assumendo ruoli non tradizionali, come ad esempio nel rapporto con il territorio e con i committenti. Io sono del parere, maturato nella mia esperienza negli Stati Uniti, che un'università tanto più è forte come istituzione tanto più potere contrattuale può esprimere. Chi sono i cosiddetti «stakeholders» della governance universitaria? Gli stakeholders possono essere tutti. Sono gli studenti, di cui comprendere le caratteristiche e le richieste. Sono gli gli enti pubblici locali, gli organismi spontanei, i comitati di quartiere, le aggregazioni territoriali. Credo che l'università possa mettersi sul mercato offrendo certi servizi. Ad esempio, se ben pagate, può offrire alla tal azienda farmaceutica alcune conoscenze di ricerca di base, a patto però che i risultati di una ricerca possano essere pubblicati anche quando i committenti privati vogliono mettere sotto copyright o brevettarli. Quanto i cambiamenti che lei ritiene necessari della riforma sono legati al processo di Bologna? In previsione di un possibile cambio di governo, qual è l'università che sarà proposta e in cosa si differenzierà da quella attuale? Credo che non avremo grandi cambiamenti, bensì un insieme di aggiustamenti. Uno riguarda lo stato giuridico della docenza, un nodo molto sentito dal corpo docente. Sarà inoltre affrontato il problema dell'aumento dei finanziamenti alla ricerca scientifica, ma è una questione che riguarderà il Cnr. Se vincerà il centrosinistra, il futuro governo cercherà infine di sviluppare una visione europea dell'università. Va anche detto che gli accordi della Sorbona, propedeutici alla conferenza di Bologna, sono stati utilizzati da Berlinguer come legittimazione della sua riforma. Secondo me sono stati - nonostante altri errori - una trovata furbissima. Visto che sono stati firmati da quattro paesi «forti» (Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna), gli altri hanno capito che conveniva aggregarsi. In Italia sono stati poi usati come giustificazione della riforma stessa. Non avremo mai un sistema unico di istruzione superiore in Europa, però esistono delle possibilità di cooperazione maggiori, che passano ad esempio per la diffusione del diploma supplement per avere carte di identità in un futuro mercato del lavoro intellettuale europeo. È molto più facile tenersi fuori dalla Tav che dal processo di Bologna. D'altro canto lo spazio europeo, prima che dai disegni istituzionali, è già stato aperto dalla circolazione degli studenti e dei ricercatori... Infatti. E tuttavia, non credo che cambierà molto sul piano strutturale, anche perché ormai il processo è avviato. Il problema sarà di avere un vero sistema di valutazione, con una entità autonoma non dipendente dal Ministero che collabori con le università. D'altra parte, se non c'è più un sistema napoleonico e c'è l'autonomia degli atenei, qualcosa bisogna fare, a meno che ci si voglia affidare al mercato totale e allo sbando.

 

Commento di Alessandro Dal Lago all'intervista

Sul "Manifesto" del 15 marzo, il collega Roberto Moscati avanza alcune ipotesi relative all'evidente fallimento della riforma "3+2". In sostanza, sarebbe stata la fretta di Berlinguer - nonostante gli avvisi dei suoi consulenti, tra cui Guido Martinotti e Roberto Moscati - ad avere compromesso il funzionamento della riforma. A ciò si aggiunga la volontà dei ministri dei paesi forti d'Europa di mettere tutti davanti al fatto compiuto, ecc. Insomma, manipolazione politica e faciloneria spiegherebbero la confusione e il degrado in cui versa l'università italiana:

moltiplicazione perversa dei corsi di studio, allungamento dei tempi per conseguire le lauree, abbassamento della qualità, mancato assorbimento nel mercato del lavoro e così di seguito.

Questo è sicuramente vero, ma non basta. All'epoca ero preside di facoltà e delegato del rettore per l'orientamento e la formazione e quindi in una posizione favorevole per valutare la riforma mentre ero incaricato, insieme a tanti altri, di applicarla. Ebbene, a mio avviso è stata soprattutto l'impostazione culturale della "3+2", insieme a una serie di meccanismi perversi del tutto prevedibili ad averne causato il fallimento.

In primo luogo, l'idea burocratica che si potesse realizzarla dall'alto, in modo centralistico e con la mediazione dei gruppi di pressione nazionali come le conferenze dei presidi. Mentre le università erano obbligate a rendersi autonome sul piano finanziario (secondo il motto "cavatevela da soli!"), dovevano conformarsi a tabelle valide per tutti, che ignoravano le esigenze locali.

Chiunque avrebbe capito che in questo modo sarebbero stati disegnati corsi utili soprattutto per "sviluppare le discipline" (cioè, per moltiplicare le cattedre), più che per le esigenze degli studenti. Gli obiettivi "formativi" e le tabelle che ne discendevano - frutto di accordi tra poteri accademici - erano generici, complicati e al tempo stesso vincolanti. Il calcolo dei crediti è un rompicapo che, da una parte, non è stato compreso per molto tempo da un gran numero di colleghi e, dall'altro, uno schema per piazzare dove possibile la propria disciplina, legittimando la richiesta di nuovi posti. Errori tecnici clamorosi hanno fin dall'inizio compromesso il funzionamento della riforma; a nessuno è venuto in mente che gli studenti non potevano ragionevolmente finire il triennio entro la sessione estiva del terzo anno: con la conseguenza che oggi molti si iscrivono alle specialistiche quando non si sono ancora laureati alle triennali. Il risultato è che, per lo più, il ciclo non dura cinque anni, ma almeno sette. Bel risultato per una riforma che voleva combattere la dispersione, gli abbandoni e l'allungamento perverso del tempo necessario per ultimare i corsi!

E non parliamo di insensatezze - frutto evidente di pedagogismi velleitari

- come il calcolo del tempo di studio degli studenti o la quantificazione burocratica delle varie attività. L'impressione generale è che l'importazione molto provinciale e superficiale di un linguaggio formativo all'americana ("debiti", "crediti" ecc.), debitrice di un'ideologia efficientista (a parole) molto diffusa nei governi di centro-sinistra e non solo in quelli di destra, si sia perfettamente sposata con il centralismo che affligge la nostra amministrazione. Peccato che dalla cultura accademica americana non si siano importate la flessibilità, l'efficienza e la semplicità delle procedure. Negli Usa, i crediti sono un mero sistema di quantificazione che permette la circolazione degli studenti nell'intero sistema accademico; da noi un specie di puzzle che ci obbliga a zigzagare tra discipline di "base", "caratterizzanti", "qualificanti", "altre", ecc.

Mi piacerebbe sapere quale mente perversa ha inventato un meccanismo che farebbe disperare il più accanito compilatore di sistemi del totocalcio.

In breve, Moscati rivela solo una parte della verità. L'impostazione Berlinguer è stata velleitaria e manipolatoria, ma è la subcultura che l'anima ad avere fallito. Inoltre, l'università italiana ha subito la riforma senza protestare troppo. Ovviamente, chiunque potesse ha cercato di volgerla a suo favore. Come sempre, baroni e burocrati hanno individuato subito il loro tornaconto. La mobilitazione degli studenti è stata nulla o velleitaria, anche perché non avevano strumenti per orientarsi in un sistema che un gran numero di docenti ha compreso solo con difficoltà. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

 Alessandro Dal Lago

Professore ordinario di Sociologia dei processi culturali, Università di Genova

 

Roberto Moscati  

nato a Milano nel 1937. Si è laureato in Scienze Politiche all’Università Cattolica di Milano nel 1963. Ha studiato negli Stati Uniti alla Northwestern University (Master in Sociologia) e alla Harvard University (Master in Education) negli anni 1968-’70.

Ha lavorato a programmi per lo sviluppo del Mezzogiorno presso il Formez di Roma tra il 1970 e il 1981. Ha insegnato all’Università di Catania (1974-1986), all’Università Statale di Milano (1986-1994), all’Università di Trieste (1994-1997). E’ membro dei comitati editoriali delle riviste “Higher Education”,“European Journal of Education”, “Inchiesta”, “Scuola Democratica”.

 

Ha fatto parte del gruppo di lavoro ministeriale per la riforma dell’Università (1996-1999). E’ membro della Commissione di studio sulle risorse umane per la scienza e la tecnologia – CORUS del CNR.

Insegna Sociologia dell’educazione nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Trieste. Si occupa da diversi anni di temi relativi all’istruzione con particolare attenzione all’analisi comparativa dei sitemi formativi. Ha pubblicato tra l’altro Lavorare nell’università oggi, 1982; Università: fine o trasformazione del mito? 1983; I "cicli brevi" nell’istruzione superiore, 1986; Oltre la laurea, 1992.







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