UNA ILLUSA COMUNISTA SENZA PIU' COMUNISMO
Data: Mercoledì, 10 maggio 2006 ore 00:10:00 CEST
Argomento: Rassegna stampa


UNA COMUNISTA DEL SECOLO SCORSO

Ogni tanto qualcuno la blocca per strada e le dice. “Lei è stata un mito!”. Ma Rossana Rossanda, ex dirigente del Pci e fondatrice del quotidiano Il Manifesto, questo non vuole e non può esserlo: un mito è una proiezione altrui, lei ha desiderato solo essere sé stessa, con tutto quello che tale coraggioso obiettivo comporta. 
E dunque un’insolita storia di vita ci racconta nel suo ultimo libro, (La ragazza del secolo scorso, Einaudi, pp.385, € 18), dominata da un unico grande filo conduttore: che cosa ha significato essere comunista in Italia dal 1943 in poi? E, badiamo bene, non un comunismo qualunque, privato, inteso come momento di coscienza interiore, è stato quello della scrittrice; bensì un impegno attivo, militante, il diventare membro di un partito, che si è poi svelato più autoritario dell’autoritarismo che contestava.
Inizia così, alla luce di questo inquietante interrogativo, un faticoso viaggio dell’autrice nella sua memoria, in un mirabile equilibrio tra pubblico e privato, tra storia personale e grandi vicende collettive: dall’infanzia, trascorsa tra Pola e Venezia, agli anni duri della guerra, vissuti a Milano, dove gli italiani vengono visti come “un collage di fragilità e servaggi” e dunque Mussolini come l’agitatore di “un rancore di straccioni”.
E’ in questo momento che la Rossanda conosce, grazie al suo maestro Banfi, la causa degli operai e il comunismo: prima è quello dei libri, poi lo tocca con mano, una sera in tram, mentre torna a casa: “Avevo davanti tre operai sfiniti, forse muratori. Sfiniti di fatica e , mi parve, di vino, malmessi, le mani ruvide, le unghie nere, le teste penzolanti sul petto. Non li avevo mai guardati, il mio mondo era altrove, loro erano altro, che cosa? Erano la fatica senza luce, le cose del mondo che evitavo, sulle quali nulla si poteva. Come nulla potevo ai poveri, un’elemosina e via.” E’ “un addio alla sua intangibilità, un addio al sobrio e tepido futuro, alle lodevoli ambizioni, un addio all’innocenza”: è l’inizio di una militanza che la condurrà a capire, anno dopo anno tutte le contraddizioni del regime comunista sovietico, dalla creazione di una potente armatura oppressiva, divenuta metodo di governo, fino alla celebrazione di Stalin, considerato sì un grande malvagio, ma anche una necessità storica ineliminabile per il bene del popolo.
Insomma alla fine degli anni Cinquanta la Rossanda si accorge con suo grande dolore e inevitabile crisi di coscienza che il comunismo ha seminato dietro di sé solo tante inattese aporie e giunge una tragica quanto onesta domanda: se il liberalismo politico implica la schiavitù sociale, forse che la libertà sociale non implica la schiavitù politica? Ecco perché, capisce, molti operai odiano alcuni dirigenti di partito: perché si sono sentiti, chissà se a torto o ragione, traditi dal comunismo e “se il povero e l’oppresso non hanno sempre torto, i comunisti che si fanno odiare hanno sempre torto.” 
Riflessioni amare che la fanno invecchiare di colpo in quel lontano 1956: “Quei giorni mi vennero i capelli bianchi, è proprio vero che succede, avevo trentadue anni” e che la spingeranno a una revisione critica dell’azione della Sinistra, culminata nella sua espulsione dal Partito nel 1969, in quanto esponente secessionista.
Quel mitico Pci, così insospettatamente popolarista e antioperaista, svela dunque, nell’ultima pagina del libro, il suo volto autoritario, celato da una sana ipocrisia: “Sulla porta della sala Berlinguer mi prese un attimo da parte: Siete ancora in tempo – mi disse. A fare un gesto di obbedienza? – risposi io. No, un gesto di fedeltà.”
Così si infrange il sogno di una illusa ragazza del secolo scorso, oggi imperterrita, triste comunista senza più comunismo.



SILVANA LA PORTA






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