COME IMPARARE LA FISICA...GIOCANDO
Data: Domenica, 15 gennaio 2006 ore 00:20:00 CET
Argomento: Associazioni


COINVOLGIMENTO EMOTIVO E APPRENDIMENTO

Elemento indispensabile per l'apprendimento è il coinvolgimento emotivo del discente e il desiderio di impegnarsi per raggiungere un obiettivo personale. È noto che una forte motivazione a impegnarsi si ha nel gioco, che è possibile utilizzare per stimolare un impegno che porti a un apprendimento a lungo termine e, quindi, a una reale formazione culturale. Questa consapevolezza si riflette anche nell'allestimento di mostre e musei, dove il ruolo del visitatore non è più quello di 'bersaglio' della comunicazione, ma di attore consapevole.
COINVOLGIMENTO EMOTIVO E APPRENDIMENTO

Imparare giocando il gioco della fisica
Umberto Buontempo*

 

 Avevo cinque o sei anni e avevo a lungo giocato a immergere nella vasca dei pesci rossi legnetti, sassi e materiali vari. Pensavo, quindi, di sapere tutto sul galleggiamento dei corpi. Perciò quando il mio prozio, abile nel bricolage, mi disse che mi avrebbe costruito una nave di ferro provai a spiegargli che non sarebbe rimasta a galla. Mi rispose solamente: 'proviamo'...

Il varo della nave di ferro
Al momento del varo ero molto emozionato ma anche dispiaciuto per la delusione che mio zio avrebbe provato nel vedere affondare la splendida barchetta che aveva con gran cura preparato sotto ai miei occhi partendo da una lamiera di ferro.
 E invece… galleggiava alla grande! E tutto il mio sapere era andato in pezzi… ma non per molto. Giocandoci, dopo pochi minuti, capii che in fin dei conti mio zio mi aveva imbrogliato, non era il ferro che galleggiava ma…
 Ovviamente non avrei saputo 'spiegare a parole' perché uno scafo in ferro galleggiava e tanto meno recitare la classica filastrocca: 'un corpo immerso in un fluido…', mi era evidente, però, che non era il ferro che galleggiava, ma lo scafo, l'aria che c'era dentro.

Come si costruisce un arco
Questa mia emozionante scoperta, uno dei miei primi ricordi infantili, mi è tornata in mente circa quindici anni fa vedendo un gruppo di tre bambini meno che decenni che giocavano con una semplicissima ma geniale installazione al "Launch Pad", una sezione del Museo della scienza di Londra dedicata ai bambini. Consisteva di cinque leggeri scatoloni di compensato, sagomati a forma di cuneo, che con l'aiuto di una centina, potevano essere incastrati tra due supporti fissati al pavimento a formare un piccolo arco. Le istruzioni suggerivano di rimuovere la centina dopo aver posizionato i pezzi e poi di provare a salire sull'arco e a percorrere "il ponte". Costruire il ponte non creò ai ragazzi alcun problema – la difficoltà stava nel trovare il coraggio di salirci sopra sapendo che erano cubi di legno leggerissimi e solo appoggiati l'uno all'altro. Dopo molta esitazione il più coraggioso provò, con estrema cautela a salirci e, con grande prudenza, si spinse fino al centro dell'arco e l'arco… reggeva! In un baleno furono tutti sopra a saltare e agitarsi ma il ponte resisteva, solido come una roccia. Si stufarono in fretta del gioco e scesero dall'arco, ma prima di andarsene uno provò a muovere il blocco centrale, forse per vedere se ci fosse qualche strano congegno che bloccava i pezzi tra loro; lo sollevò con facilità di qualche centimetro e il ponte crollò rovinosamente. Restarono ancora un po' a giocare con i pezzi del ponte cercando di montarli in diversi modi e notando la forma un po' inusuale per delle scatole e, a un certo punto, uno di loro prese un blocco e lo incastrò con decisione e con un lampo di trionfo negli occhi. Nessuno mi toglierà mai dalla testa che in quel momento quel bambino aveva capito come sta su un arco, pur senza saper nulla della statica e del complesso schema di forze di compressione e spinte che si fanno equilibrio in un arco.
 Ovviamente, non ho potuto intervistare questo bambino dopo anni per sapere cosa gli era rimasto di quella esperienza, ma un gruppo di ricerca in didattica delle scienze ha fatto un studio di questo genere sui giovani visitatori per l'appunto del "Launch Pad". Hanno verificato che anche dopo cinque anni dalla visita conservavano un vivo ricordo di molti degli exhibit e del loro funzionamento.

La fisica può essere un gioco?
Mi pare che valga la pena di confrontare questo risultato con le numerose ricerche che hanno ampiamente provato che la maggior parte degli studenti che prendono la licenza di scuola superiore non ricordano quasi nulla della fisica studiata nella scuola già sei mesi dopo l'esame finale e che quel poco che ricordano sono, sostanzialmente, definizioni e formule prive - per loro - di un qualsivoglia contenuto reale, puri nomi o filastrocche di termini senza significato alcuno.
 Probabilmente, sfondo una porta aperta sostenendo che giocando si impara; è quasi un luogo comune; il problema è se la scienza, in particolare la fisica, può essere presentata ai giovani come un gioco al quale applicarsi con lo stesso impegno che essi mettono nei giochi propriamente detti. Spesso mi sento dire che la scienza è una cosa seria che richiede studio, applicazione, pazienza, memorizzazione, riflessione; ovviamente sono d'accordo ma questo è vero anche per qualsiasi gioco appena un po' impegnativo, dai più complessi, come gli scacchi, ai più semplici, come il dilagante sudoku.

I ricercatori risolvono i rompicapi
Un famoso fisico ha definito i ricercatori 'solutori di problemi'; sono assolutamente d'accordo, anzi, dopo quarant'anni di attività di ricerca, posso dire che i ricercatori che si dedicano a ricerche non finalizzate, la così detta scienza libera o pura, potrebbero ancor meglio essere definiti 'solutori di rompicapi'.
 Ci si imbatte, spesso casualmente, in qualcosa 'che non torna', cioè non si capisce perché un certo fenomeno vada come va e non come ci saremmo aspettati che dovesse andare, oppure ci si chiede cosa succede se si cambia qualche condizione di un certo processo o altro ancora. In altre parole, ci si pone un problema al quale vorremmo trovare risposta. E qui comincia il gioco, seriosamente si chiama ricerca. Si studiano le regole e si adattano al caso in questione, si incontrano ostacoli tecnici o formali che, a seconda dei casi, si aggirano o si superano. Talvolta, aprendo una nuova via, per usare un gergo alpinistico, si provano diverse strade molte delle quali risultano vicoli ciechi e allora si torna indietro e si riparte in un'altra direzione, si costruiscono o si adattano via via gli strumenti necessari per aprire le porte che ci sbarrano il cammino, finché si comincia a vedere la luce e il percorso arriva alla sua conclusione. Talvolta si trova la risposta, talvolta si capisce che il problema era mal posto e non ammette risposta, ma nella maggior parte dei casi si trova una risposta che pone però nuovi, impensati problemi. E allora si raccolgono le forze e si inizia una nuova partita.
 La cosa più significativa di questo gioco non è la risposta finale, ma il percorso fatto giocando. La risposta può essere più o meno importante per il progresso della scienza, un nuovo tassello dell'illimitato puzzle della conoscenza scientifica, ma - a livello personale - quel che vale sono abilità, conoscenze, esperienza, tutti gli strumenti e le capacità sviluppate e messe alla prova durante il gioco.
 L'analogia tra percorso di ricerca e un qualsiasi gioco mi pare evidente.

Risultati oggettivi e arricchimento personale
Nella precedente descrizione di un percorso di ricerca ho usato una terminologia che potrebbe ricordare i giochi di ruolo ma, adattando opportunamente i termini, ci si potrebbe riconoscere un qualsiasi gioco singolo o di squadra. Vorrei in particolare sottolineare l'analogia tra risultati oggettivi e arricchimento personale. Il risultato oggettivo del gioco, o ricerca che sia, è la sua conclusione, il tassello di conoscenza, la vittoria, la conquista del tesoro per tornare ai giochi di ruolo, ma quel che coinvolge di più il giocatore, lo stimola, lo migliora, sviluppa le sue capacità, aumenta la sua esperienza, è giocare il gioco e non concluderlo, indipendentemente dalla vittoria.
 Cosa si ritrova di questo gioco della scienza nella scuola? Purtroppo credo si possa dire, senza tema di smentita, quasi nulla. La maggior parte dei libri di testo, e purtroppo anche degli insegnanti, presenta la fisica come una serie di definizioni, regole, talvolta anche fenomeni - ma pochi e stilizzatissimi - da imparare e ripetere. L'uso di quel che si è appreso è solitamente limitato alla risoluzione di esercizi che, per la loro collocazione e la terminologia, rimandano più o meno esplicitamente alla formula appena studiata e per la loro schematizzazione risultano assai distanti da situazioni o fenomeni del mondo reale.

Esercizi e problemi
 Mi sembra evidente la distanza abissale - sia di impostazione sia psicologica - degli esercizi, rispetto a quel che prima ho chiamato problemi. Un problema parte da una situazione reale, non si sa a quale capitolo del libro si riferisce: l'aspirante solutore deve schematizzarlo, decidere quali sono gli aspetti che contano, per affrontarlo deve mettere in campo tutte le sue conoscenze, applicandole o adattandole al caso in questione, ed esplorare più strade prima di trovare quella che lo porta alla meta.
 Psicologicamente, ed è l'aspetto più importante, chi affronta un problema vuole trovarne la soluzione per se stesso e non per far piacere a qualcuno o ottenere una buona valutazione: l'obiettivo è provare innanzitutto a se stessi di essere capaci di giocare a questo gioco. E, ovviamente, questo gioco innesca facilmente una spirale virtuosa; giocando si impara sempre meglio a giocare e giocando meglio la gratificazione aumenta, e quindi cresce la voglia di impegnarsi a giocare.

Gli studenti si mettono in gioco
È possibile introdurre attività ludiche in questo senso nell'insegnamento della fisica nella scuola? Non ho esperienza diretta, ma penso che si dovrebbe tentare. Ho provato a fare qualcosa del genere come docente universitario. Non ho trovato grandi difficoltà tecniche; lavorandoci un po', non è difficile trovare situazioni coinvolgenti psicologicamente e che presentino difficoltà tecniche adeguate alle conoscenze degli studenti. Le maggiori difficoltà che ho incontrato sono dovute alla resistenza degli studenti ad affrontare un problema in quanto non capiscono cosa si chiede loro. Sono così lontani da un approccio di questo tipo che di fronte a una situazione problematica anche semplice e coinvolgente chiedono alla fine della presentazione: 'ma in definitiva cosa debbo studiare?' o anche: 'ma quale formula posso applicare?'. E molto difficile per gli studenti abbandonare l'atteggiamento passivo che anni di scuola e di università prescrittive hanno profondamente radicato ma, piano piano, almeno una parte degli studenti cambia atteggiamento e 'si mette in gioco'. L'organizzazione estremamente frazionata degli studi universitari non mi ha permesso di verificare sistematicamente se questo atteggiamento cresce e si radica al passar del tempo, ma alcuni episodi dei quali sono casualmente venuto a conoscenza mi fanno ben sperare. Racconto solo l'ultimo che mi pare esemplare. Alcuni anni fa, in un corso di fisica di base, avevo proposto il classico problema del bastone sulle dita. Si appoggi un qualsiasi bastone ragionevolmente levigato (manico di scopa, bastone da passeggio, riga o righello) sugli indici tesi con le mani alla stessa altezza. Si chiede se è possibile, muovendo lentamente le mani mantenendole, però, sempre alla stessa altezza (mantenendo il bastone orizzontale), fare in modo che il bastone cada. Secondo la maggioranza degli studenti è ovvio che sì, purché si muovano opportunamente le mani e solo dopo molti tentativi falliti si convincono che non è possibile. Ci vogliono diversi giorni - e spesso anche qualche piccolo aiuto - per far arrivare gli studenti alla spiegazione del gioco usando le regole della meccanica che hanno studiato e applicato più volte per risolvere gli esercizi.
 Recentemente, uno degli studenti di quel corso mi ha scritto che ora insegna fisica in un liceo e che ricordandosi del gioco del bastone lo ha proposto in classe. Racconta di aver 'perso' un'ora perché tutti gli alunni volevano provare convinti di potercela fare ma, soprattutto, che è rimasto stupefatto per un fatto impensabile: uscendo dalla scuola tre ore dopo ha trovato gli studenti che, con un bastone sulle dita, discutevano animatamente della faccenda: parlavano fuori della scuola di fisica!

 Affrontare i problemi in modo razionale
Vorrei concludere questa chiacchierata con una precisazione che in realtà apre un problema che meriterebbe ben più ampia trattazione.
 Da quanto ho detto si potrebbe trarre la conclusione che, probabilmente, giocando con la fisica si impara meglio e più facilmente questa disciplina, ma la ovvia domanda è: a che serve imparare qualcosa di fisica?
 I contenuti della fisica, definizioni, principi, formule sono sostanzialmente inutili nella vita quotidiana; anche la maggior parte dei professionisti della fisica non usano queste nozioni al di fuori del lavoro. E allora, a maggior ragione, perché un avvocato o un medico dovrebbero ricordare la legge di Ohm o la formula di Boyle? E in effetti, giustamente, le dimenticano senza rimpianti.
 Forse, però, se avessero imparato a giocare con la fisica dimenticherebbero ugualmente le formule e le leggi ma rimarrebbero loro le regole del gioco: come si affronta un problema, quali sono le cose che contano, quali sono i dati e le condizioni al contorno e così via; in altre parole il modo per affrontare scientificamente o, più semplicemente, in modo razionale un problema. E non mi par poco.

 *Professore di Struttura della materia presso il Dipartimento di Fisica dell'Università degli Studi dell'Aquila

 Pubblicato il 10/01/2006






Questo Articolo proviene da AetnaNet
http://www.aetnanet.org

L'URL per questa storia è:
http://www.aetnanet.org/scuola-news-3736.html