L'OCSE ha veramente disapprovato la scuola Morattiana?
Data: Luned́, 09 gennaio 2006 ore 15:25:38 CET
Argomento: Recensioni


Lo sguardo di disapprovazione dell’Ocse sulla scuola italiana

I dati comparativi contenuti nell’edizione 2005 di "Education at a glance" ("Uno sguardo all’educazione"), raccolti dall’OCSE tra i 32 Paesi aderenti, con riferimento prevalente all’anno 2003, sono, come al solito, molto negativi per l’Italia.
Nel 2003 in Italia era laureata il 10% della popolazione di età compresa tra i 25 e i 64 anni e possedeva un diploma di istruzione superiore il 44%, rispetto al 24% e al 66% della media dei paesi OCSE.
Inefficienze si annidano nel livello superiore dell’istruzione. Nonostante gli insegnanti italiani siano tra i meno pagati, la spesa annuale per studente è superiore alla media OCSE, rispettivamente 7.474 e 6.081 dollari. Le ragioni di questa discrepanza risiedono sia nel basso numero di alunni per insegnante (10,9 nella scuola primaria), il più basso in assoluto dei paesi OCSE, sia nel relativamente basso numero di alunni per classe (18 alunni per la scuola elementare a fronte di 21,4 media Ocse).
La scuola dell’infanzia continua ad essere il fiore all’occhiello del nostro sistemo educativo, almeno sotto il profilo quantitativo. L’Italia mantiene infatti una delle più alte percentuali di partecipazione all’istruzione nella fascia 3-4 anni.

Dall’Ocse all’IEA, il risultato è lo stesso
Sono tanti anni, praticamente da quando si è sviluppata la ricerca internazionale comparata, a partire dai primi anni settanta dello scorso secolo, che l’Italia inghiotte bocconi amari.
Cominciò la IEA (International Association for the Evaluation of Educational Achievement), un circuito di enti e istituzioni non governative, al quale partecipavano per l’Italia l’università di Roma e il Centro Europeo dell’Educazione (CEDE, ora INVALSI), che mise in luce la debolezza della scuola italiana nelle competenze di base (lingua materna, matematica), soprattutto nella fascia secondaria superiore.
Successivamente, dalla metà degli anni ottanta, con l’avvio del progetto OCSE sugli indicatori internazionali, le attività comparative hanno investito più direttamente la responsabilità dei governi (l’OCSE è un’agenzia intergovernativa), ma per l’Italia la musica non è cambiata. Il CEDE ha continuato ad essere il terminale italiano di queste ricerche, che ha potuto svolgere in modo autonomo sul piano tecnico-scientifico, ma con gli scarsissimi mezzi assegnatigli da governi e ministri spesso assai poco interessati alla tematica della ricerca valutativa, e senza alcuna interazione preventiva con la scuola. Quanto ai dati di sistema, è da poco tempo che il MIUR sta cercando di acquisirli avvalendosi di aggiornate metodologie e competenze di tipo informatico e statistico.

Dal CEDE all’INVALSI: che cosa non cambia
Solo in anni recenti, a partire dalla fine dello scorso decennio, il budget del CEDE, nel frattempo diventato INVALSI (Istituto Nazionale di Valutazione del Sistema di Istruzione e, con la legge n. 53/2003, anche di Formazione), è cresciuto in modo significativo, anche se sempre del tutto inadeguato, se confrontato con quello che gli altri Paesi dell’OCSE riservano ai rispettivi sistemi valutativi.
Ma i risultati, almeno quelli riferiti ai livelli di apprendimento degli allievi, non sono cambiati. Un po’ perché gli ultimi dati raccolti dall’OCSE, quelli rilanciati dalla grande stampa di informazione nei giorni scorsi, si riferiscono al 2003 o addirittura ad anni precedenti, e molto perché la scuola italiana non ha alcuna consuetudine con le metodologie e gli strumenti con i quali vengono effettuate le rilevazioni, soprattutto i test elaborati a livello internazionale.
Bisognerebbe verificare con precisione se e quanto questo fattore abbia inciso sui risultati conseguiti dagli allievi: non è senza significato che essi siano migliori dove, come nel Trentino, esiste una maggiore attenzione per tali metodologie e strumenti. E si dovrebbe tener conto del fatto che altri sistemi educativi considerano titoli di studio anche quelli che da noi non sono considerati tali perché acquisiti al di fuori del sistema scolastico: per esempio le qualifiche professionali.

Le ferite antiche della scuola italiana
Il metodo sarà stato autocratico e decisionista, l’atteggiamento nei rapporti umani, specialmente con i sindacati, freddo e distante, l’approccio ai problemi fin troppo managerial-tecnocratico, ma non si può dire che Letizia Moratti non abbia provato ad affrontare alcuni dei nodi strutturali che da sempre (da quando si fanno le valutazioni comparative internazionali) caratterizzano il nostro sistema scolastico. Soprattutto uno viene evidenziato da tutti gli organismi di valutazione: il doppio squilibrio derivante dalla sovrabbondanza di personale docente e non docente, a parità di allievi, da una parte, e dall’appiattimento verso il basso della condizione professionale e retributiva dello stesso personale dall’altra.
Questa situazione perdura da tempo in Italia, e finora nessun governo è riuscito ad affrontarla con successo, come ha dovuto constatare a sue spese l’ex ministro Berlinguer, che pure si era procurato un vasto, anche se labile, consenso preventivo dei sindacati alla effettuazione di un concorso meritocratico che avrebbe premiato il 20% dei docenti.
Non ha torto quindi in questo caso Letizia Moratti a protestare con quei giornali - soprattutto la "Repubblica", alla quale ha inviato una lettera di puntigliose precisazioni - che hanno riproposto dati recenti (ma riferiti al 2003) e anche meno recenti, parlando di bocciatura della scuola della Moratti. Presa, apparentemente, dall’impeto, il ministro Moratti ha anche replicato seccamente all’editorialista del "Corriere della sera" Barbiellini Amidei, che pure in questi anni ha sostenuto (tra i pochi) con continuità sulle colonne del quotidiano milanese la sua azione (con disappunto del giornalista, che ha ribattuto parlando di "deficit mnemonico").
Nei suoi interventi il ministro dell’istruzione ha citato vari dati a difesa del suo operato: dal miglioramento della percentuale dei giovani diplomati (80% nella fascia 18-24 anni: cinque anni fa era il 70%) all’incremento della spesa per la scuola statale (+13%, con aumenti di 274 euro mensili per gli stipendi negli ultimi 4 anni), dall’ingresso in ruolo di 130.000 nuovi insegnanti ("abbiamo ‘svecchiato’ notevolmente l’età media degli insegnanti"), all’incremento del rapporto docenti allievi rispetto alla situazione di 1 a 10 del 2001 (ultimo dato OCSE), derivante dagli "interventi di razionalizzazione" tanto criticati a livello politico e sindacale (ma su questo dato la Moratti non entra in dettagli).
Certo è che nessun futuro governo, qualunque sia l’esito delle prossime elezioni, potrà permettersi di eludere le molte sfide che attendono la scuola italiana sul piano della sua efficacia-efficienza e su quello della qualità dei risultati.

I mali sono figli di nessuno, i meriti...
Il ministro Moratti non ha dunque tutti i torti quando sottolinea che i mali della scuola italiana hanno una origine antica. Convincono meno le dichiarazioni del ministro quando, viceversa, tenta di ricondurre alla sua azione meriti che anch’essi hanno una origine remota.
Le dichiarazioni della Moratti, infatti, non tengono conto del fatto che il Consiglio dei Ministri del 17 novembre 2000 aveva varato un piano triennale di immissione in ruolo per oltre 103 mila unità e che oltre 40 mila nomine erano state già autorizzate per l’anno scolastico 2000/2001 ed in corso di predisposizione al momento di insediamento del nuovo Governo. Le nomine effettuate successivamente non presentano alcun elemento di straordinarietà perché sono state disposte nel limite del 50% dallo scorrimento di graduatorie di merito, già definite dall’estate del 2001 e non toccate dalle modifiche dei punteggi.
Stesso discorso per l’università perché i sottolineati miglioramenti si sono realizzati per effetto di provvedimenti di riforma degli ordinamenti dei precedenti governi. E’ mancato un intervento iniziale che avrebbe dovuto investire le questioni di ordine generale di carattere didattico e culturale.

Basta con la misera operetta
Al di là dell’ultimo botta e risposta tra "Repubblica" e ministro dell’istruzione, lo spettacolo al quale stiamo assistendo nel dibattito di politica scolastica - ma il discorso si potrebbe estendere alla politica in generale - è avvilente.
Si litiga su tutto. Ognuno ha in mente la "sua" verità. Più che un dibattito, è un dialogo tra sordi. Alle critiche si risponde sempre "non è vero". I dati, che pure dovrebbero essere uguali per tutti, conducono costantemente a posizioni distanti. Tutto ciò porta solo a coprire un ritardo irresponsabilmente colpevole su un terreno cruciale per lo sviluppo del paese come la scuola.
Per quale ragione ci si contrappone in modo così duro? Oggi più di ieri la responsabilità politica impone rigore e richiede un disegno di qualità. Non si può continuare a mischiare le carte, sarebbe gravissimo.
Abbiamo una scuola che non cresce, a dispetto degli slogan del Ministro, che presenta un alto tasso di dispersione, performance scadenti, che ha meno risorse e meno autonomia, che risulta poco efficiente e non "adeguata alla settima potenza industriale del mondo".
Abbiamo necessità di darci un modello di sviluppo il più possibile condiviso, e non inseguire un modello elettorale. Dobbiamo darci una scuola e una università in grado di incidere sulle organizzazioni, sugli strumenti, sui comportamenti, sui processi, sulla cultura e di trasformare l’Italia in un protagonista di innovazione e di competitività reale.
Questa è la sfida da assumere per uscire dalla operetta quotidiana in cui si è caduti.







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