«Salviamo Dante e Ariosto, traduciamoli in italiano moderno»
Data: Domenica, 17 luglio 2005 ore 06:00:00 CEST
Argomento: Rassegna stampa


«Salviamo Dante e Ariosto, traduciamoli in italiano moderno» Non se n'è accorto ufficialmente quasi nessuno: ma è nata una nuova lingua. Bisognerà preparare le grammatiche e i vocabolari, inserirla nei programmi di studio per le scuole e le università, lanciare i concorsi per i primi professori. Qual'è questa lingua? L'Italiano antico, da distinguere («finalmente!» dicono in molti) dall'Italiano moderno. Sono due realtà distinte: pur essendo l'uno la continuazione dell'altro, hanno statuti espressivi assai diversi: non tutti quelli che conoscono l'uno intendono l'altro. Bisogna avere il coraggio di fare quello che hanno fatto in Inghilterra dove la lingua di Chaucer (1343-1400) si chiama Medio-Inglese ed è fornita di vocabolari e grammatiche speciali (e la conoscono solo gli specialisti: nei licei i «Canterbury Tales» circolano in traduzione moderna). E' quello che si fa da secoli in Francia, dove il poema di Perceval (concluso prima del 1190) viene appreso sui banchi di scuola in traduzione con solo qualche riga in originale come esempio del suono antico. L'Italia invece fino all'altro ieri menava vanto di avere una lingua unica dal Medio Evo ad oggi. Che il lettore del Novecento potesse leggere e intendere senza sussidi filologici la «Vita Nova» (1292) di Dante e il «Cantico delle Creature» di San Francesco scritto nei primi decenni del Duecento. «Primato inconsistente, dice il prof. Nicolò Mineo, dantista di chiara fama internazionale e preside della facoltà di Lettere di Catania -: le strutture linguistiche dell'italiano antico sono assai diverse dalle forme assunte dalla lingua moderna. Anche gli specialisti, talora, restano perplessi davanti alle finezze arcaiche. Oggi non basta illustrare al lettore comune la sublime visione di Dante. Bisogna spiegare; diciamo pure bisogna tradurre la parola antica e le sue strutture sintattiche». Un passo concreto in questo senso lo ha fatto lui stesso che, pubblicando un commento scolastico alla Commedia ha abbondato sulle note esegetiche («la traduzione») piuttosto che sulle considerazioni di natura storica o estetica: senza le prime sono del tutto inutili le seconde. Dunque, se vogliamo salvare la letteratura classica italiana, quella di Dante e Petrarca, di Ariosto e Machiavelli, dall'oblio crescente in cui viene condotta, bisognerà riservarne lo studio letterale agli specialisti e fornire agli altri, cioè a tutti gli Italiani di cultura media, una traduzione corrente. Solo così potremo riparare allo squilibrio che oggi distingue il nostro Paese dove le persone di media cultura hanno letto almeno qualche tragedia di Shakespeare e qualche cosa di Dostoewskij, ma assai di rado leggono i libri dei classici italiani, considerati troppo difficili. Perché si può leggere Tolstoj in traduzione e non Masuccio Salernitano? E' più saggio considerare l'Italiano antico come la stessa lingua dell'Italiano moderno e quindi escluderne praticamente la conoscenza? «Chi ha pratica della scuola sa che nelle nostre aule i classici sono frequentati sempre meno e con fatica crescente. Fuori dalla scuola anche le persone di solide conoscenze si arrendono davanti alle difficoltà dei testi (italiani) in versione originale». Dunque facciamo come i tedeschi, che hanno tradotto in parlata moderna il «Nibelungenlied» (scritto verso il 1200) perché tutti potessero avere conoscenza delle proprie radici culturali. Certo la traduzione in prosa non è lo stesso delle sonorità originali, ma è meglio di niente. Ma dove porre lo stacco tra Italiano antico e Italiano moderno? Il prof. Mineo non ha esitazione: «Dopo il Rinascimento. Con il Seicento iniziò il rinnovamento della cultura italiana che sempre più consapevolmente si allontanò dalle forme classiche. Del resto alcuni anni fa un tentativo in questo senso fu fatto in sede ministeriale con la proposta di iniziare lo studio della letteratura italiana, nei licei, con il Cinquecento, con l'Ariosto, lasciando i capolavori precedenti (anche il Decamerone!) confinati al ruolo di preambolo da sbrigare rapidamente. Ci fu una insurrezione generale. Vittore Branca - uno tra i massimi conoscitori del Trecento - protestò autorevolmente e non se ne fece nulla. Nei giorni scorsi però, quando il ministero ha proposto un testo di Dante tra i temi di maturità, la prospettiva si è ripetuta. Da una parte la scelta appare contraddittoria in una scuola che dedica sempre meno tempo alla «Divina Commedia», ma dall'altra parte potrebbe valere come indicazione per ricominciare un recupero storico che è irrinuncibile per la cultura generale del Paese». La formula più sicura per conservare uno spazio ai nostri classici nella memoria nazionale è quella di riconoscere per decreto ministeriale l'Italiano antico. Se ancora non ci sentiamo maturi per il gran passo, possiamo indulgere più generosamente alle traduzioni che sono state fatte, e in modo eccellente anche per il Tasso e l'Ariosto. Ci sentiremo un po' meno eredi dei Grandi che insegnarono la cultura a tutta l'Europa: ma almeno li faremo conoscere meglio ai tardivi nipoti. Forse non c'è altro rimedio per cessare la mala ventura dei nostri maggiori e pacificarli coi minori. Sergio Sciacca





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