IL CLASSICO DETTA LEGGE
Data: Venerdì, 20 maggio 2005 ore 06:00:00 CEST
Argomento: Opinioni


Parla Ivano Dionigi, che dirige un centro che attualizza gli antichi maestri: necessari per non perdersi nel pensiero unico. Il classico detta legge. Domani un incontro in Università a Bologna, rivolto ai giovani: «Gli autori greci, latini, ebrei e della tradizione cristiana antidoto alla dittatura imposta da Internet» Da Bologna Stefano Andrini «Li citano come status symbol o per piacere personale, ma sostanzialmente li sottovalutano. Se i politici capissero quale forza dirompente di libertà sprigiona dai classici si metterebbero d'accordo, tutti e subito, e non ce li farebbero più studiare. Anche perché, come conferma una straordinaria epigrafe di Massimo Cacciari «Chi abbia letto una sola tragedia greca, una sola invettiva dantesca, un verso de La Ginestra saprà ascoltare, saprà riconoscere i propri limiti e il valore altrui, ma passivamente obbedire mai"». Lo afferma Ivano Dionigi, direttore del Centro studi «la permanenza del classico» che ha vinto una sua particolarissima scommessa iniziata nel 2002. Riempire l'Aula Magna dell'Università (soprattutto grazie ai giovani) proponendo una rilettura a tema dei classici, accompagnata da musiche adeguate e da illustri intellettuali. La rassegna, che quest'anno ha come titolo «Nomos Basileus» (un'espressione mutuata da Pindaro che tradotta significa "la legge sovrana"), prevede per domani alle 21 il suo terzo appuntamento su «La legge e lo spirito». Massimo Cacciari e monsignor Gianfranco Ravasi commenteranno brani tratti da Esodo, Deuteronomio, Isaia, Matteo, Romani, Galati, letti da Warner Bentivegna e Sandra Ceccarelli. Con la colonna sonora di Bach, Mozart e Schönberg. Professor Dionigi, cos'è un «classico»? «È uno che parla per noi, è ciò che ha un rapporto antagonista con il presente. Per questo ci interessa di più: perché risponde al codice della distanza e della differenza. Il classico è qualcosa che resiste all'adesso e alla moda. Non è a difesa del potere, come si credeva nelle contestazioni del '68, ma a difesa dal potere.» La scuola italiana di fronte ai propri gioielli sembra afflitta da quello che Eliot chiama il «provincialismo del tempo»… «"Mai l'America se Roma fosse sorta nel Texas si sarebbe comportata come la scuola italiana", amava ripetere Pontiggia. È drammaticamente vero. Noi ci diamo da fare caparbiamente con le nostre serate per tenere alto il valore dei classici. Ma è la scuola il vero punto di resistenza. Occorre avere un monte ore in alcune aree riservate per il greco e il latino, tradurre i classici o leggerli in originale. È la scuola superiore il laboratorio naturale della battaglia per la permanenza del classico. Soprattutto perché in quella fascia di età gli studenti hanno le antenne per capire. Anche se ho l'impressione che la scuola si regga molto sulla disponibilità e sul volontariato di pochi insegnanti, di alcuni genitori e di molti giovani. Mentre invece la prima rivoluzione culturale sarebbe quella di raddoppiargli lo stipendio e costringerli all'aggiornamento.» Perché studiare i classici? «Questo è il paese che ha il tasso più alto di beni culturali: per capirli, catalogarli, mantenerli bisogna conoscere chi li ha fatti e scritti. Non è solo un fatto culturale ma anche economico perché un investimento in questo campo potrebbe aprire per i giovani diversi sbocchi occupazionali. In secondo luogo per parlare bene. Una delle cause della volgarità attuale deriva dall'incapacità di usare le parole. Platone diceva: "Non parlare bene, oltre ad essere un cosa brutta in sé, fa male anche all'anima". Oggi viviamo in un tempo caratterizzato dal massimo di comunicazione e dal minimo di intesa.» Qual è il ruolo della lingua e della cultura antica nell'era della globalizzazione? «Il rischio che corriamo è quello di andare verso un linguaggio omologato costruito attorno alla mistica dell'inglese e dell'informatica. Tutto è in primo piano ma lo sfondo ci sfugge. I classici sono invece un grande antidoto al pensiero unico e alla schiavitù mentale dei nostri ragazzi. perché sono maestri di pluralità plurale. Ad Atene, per esempio, c'è il dibattito, l'uso della ragione, la tesi e l'antitesi, gli spiritualisti e gli atomisti, gli storici e gli epicurei. Anche la cultura giudaico- cristiana è nel segno del due. La duplice Gerusalemme, celeste-terrestre. In questa prospettiva i classici ci consentono di studiare il diverso senza entrare in conflitto con la contemporaneità.» E nella vecchia Europa? «Certamente non sono più il collante e la sintesi della nostra identità ma se è vero che ci hanno abituato al confronto possono avere una funzione precisa e fondamentale: aiutarci a capire, meglio di altri, il diverso rappresentato dall'invasione di due "nuovi barbari" come internet e la cultura islamica. Con una conseguenza: d'accordo sull'integrazione, l'accoglienza, il centro sociale. Ma se fossimo in grado di gettare nella mischia i fondamentali della nostra cultura non guasterebbe.» I tanti diciottenni che partecipano alle serate di lettura sono gli stessi della generazione del «grande fratello» e degli «Mp3». Come spiega il loro interesse per Tacito piuttosto che per Socrate? «C'è la voglia, non molto diversa dagli ottantamila che si ritrovano al concerto di Vasco Rossi, di far parte di una sorta di meditazione collettiva. Sono mossi dal desiderio di combattere la solitudine e di riempire un vuoto. Ma c'è anche qualcosa di più. Sono ragazzi che chiedono gambe su cui camminare e fratelli maggiori con cui stare. Ed è un'attesa che non possiamo tradire. Già Erasmo ammoniva che se il mondo va male non è colpa delle stelle o della religione ma del politico che non si prende cura dei giovani, il bene più prezioso della comunità.»"





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