La Lingua siciliana. Appunti per una corretta comprensione
Data: Domenica, 23 agosto 2020 ore 09:00:00 CEST Argomento: Redazione
Parleremo del Siciliano, la lingua “addutata” (avuta in dono) dai
nostri padri, ascoltata sin dalla più tenera età, nelle viscere delle
nostre madri, imparata nell’infanzia, a casa, con i compagni di giochi,
ancora prima d’andare a scuola. La lingua Siciliana è l’idioma parlato
dagli abitanti della Sicilia, “considerato” dialetto, forse perché non
ha avuto un esercito che l’abbia sufficientemente difesa, e
un’università che l’ha custodita, studiata e codificata. Ma il
siciliano, a differenza degli altri dialetti in uso in tutt’Italia,
tolte alcune divergenze fonetiche locali e alcune tipiche inflessioni
marginali, conserva una sorprendente uniformità, preserva un’unità
grammaticale, grafica e fonetica, che la rende unica e originale e, per
molte espressioni e modi di dire, intraducibile in altre lingue.
Con il linguaggio comunichiamo, pensiamo, ci esprimiamo, ci orientiamo,
ci facciamo riconoscere e riconosciamo l’altro, e gli altri. La lingua
ci fa “essere”, ci dà identità, ci rende liberi. La lingua dà sostanza
alla vita. E il dialetto siciliano è l’identità di un popolo, crea
l’unità spirituale e culturale della comunità, produce cultura e
sapere, determina condivisione del pensiero, della memoria, della
tradizione, degli usi, dei costumi, delle credenze, della religione.
Perché la lingua, e il dialetto in particolare, manifesta in maniera
evidente e semplice l’identità di una comunità, ne definisce i confini,
le estensioni, le profondità, le attitudini e le abitudini; ne esprime
i pensieri, i sentimenti, i ricordi, il modo di vivere; la lingua, più
di ogni altro “elemento”, rappresenta il pathos d’un popolo; connota
pienamente la comunità nazionale; segna in maniera netta, precisa, la
cultura della società; ne circoscrive la sua origine, l’etnia, la
storia, l’evoluzione sociale. La lingua costituisce la “bandiera”
ideale e culturale di un popolo, il suo segno distintivo e di
riconoscimento, marca i caratteri e ne misura la caratura, la sua
propulsione a guardare al passato e al futuro, per contenere e
comprendere l’evoluzione.
Come dice il linguista Tullio De Mauro, la lingua “apre le vie al
con-sentire con gli altri e le altre che la parlano ed è dunque la
trama della nostra vita sociale e di relazione, la trama, invisibile e
forte, dell’identità di gruppo”. Può a ragione essere definita il
primo, e più forte, elemento della sovranità di un popolo, perché
attraverso esso vengono espressi gli istinti, i sentimenti, le
impressioni, le figurazioni, i turbamenti e i ragionamenti di tutto il
popolo.
I siciliani sono molto attaccati alla loro lingua, rappresentata
soprattutto dalla varietà, ricchezza e bellezza delle sue parole, del
suo lessico, dell’idioma tipico, del suo slang, delle inconfondibili
inflessioni, e poi dalla tradizione millenarie dei suoi canti popolari,
poesie, poemi, ballate, mottetti, modi di dire, miniminagghi. Il
siciliano è poesia e canto, musica e melodia, armonia e musicalità. Il
canto della terra siciliana è l’arte degli umili, dei “poveri di
cuore”, perché impastato di fatica e virtù, di sudore e innocenza, ed
esprime tutt’intero l’anima del suo popolo. Perché la poesia è da
sempre anima e compagna indivisibile della cultura siciliana, ne ha
cantato la vita, gli uomini e le donne, i mari e i miti, le vicende e
le leggende, e gli amori aspri, passionali, sconfinati come la terra
selvaggia e frastagliata di Sicilia.
Nel periodo greco-romana, la popolazione isolana parlava il greco, il
latino e il punico e fino all’inizio dell’età imperiale le monete
siciliane avevano iscrizioni in greco. I successivi periodi storici e
le molteplici dominazioni di diverse civiltà straniere (bizantini,
arabi, normanni, svevi, angioini, aragonesi, francesi, spagnoli,
inglesi), attraverso i secoli, hanno influenzato e trasformato l’isola
dal punto di vista politico, sociale, culturale, economico, modificando
il patrimonio linguistico originario e apportando tutta una serie di
stratificazioni linguistiche che hanno determinato la nascita
dell’attuale dialetto siciliano, dandogli la dignità di lingua. Ma è
con la cultura e la tradizione scritta della poesia della “Scuola
siciliana” di Jacopo da Lentini, Cielo D’Alcamo, Rinaldo D’Aquino, Pier
delle Vigne e di altri poeti, del XIV secolo, che la lingua siciliana
acquisisce un linguaggio “autonomo”, compiuto, codificato, poetico, che
ne ha determinato un forte legame identitario e culturale. Possiamo
dire che il siciliano, prima ancora del toscano e di altri idiomi
italici, ha espresso il primo tentativo compiuto di lingua nazionale
italiana.
E il siciliano può essere considerata una vera e propria lingua
poetica, elegante, raffinata, di grande impatto artistico e di grande
musicalità, che può “narrare” anche con singoli termini interi
ragionamenti e pensieri di grande profondità. Il siciliano è poesia,
perché anche con un solo vocabolo può esprimere sentimenti e passioni,
può far parlare il cuore e l’anima, la ragione e gli affetti. Inoltre
la stessa parola utilizzata in diversi contesti linguistici o in
relazione a differenti frase, alla circostanza, o addirittura con
differente pronuncia, inflessione, intonazione, può assumere
significati contrastanti, a secondo del caso, con valenza positiva o
negativa, sia dal punto di vista personale, psicologico, morale,
caratteriale, che pubblico, sociale (esempio: matelica, tintu, o lo
stesso termine mafiusu). Perfino parole colorite, “intercalari” (famosi
in tutto il mondo) o vocaboli sconci d’uso corrente nella parlata
siciliana, in base all’intonazione possono prendere significati
completamente differenti, e non sempre negativi o offensivi, legati
agli stati d’animi, alla morale, all’ambiente.
Le innumerevoli influenze linguistiche e culturale derivate dalle
diversi dominazioni, evidenti anche ai giorni nostri, hanno originato
ben cinque stratificazioni linguistiche, le più importanti delle quali
possono essere classificate: la greco-classica, la greco-bizantina,
l’araba, la franco-latina del periodo normanno, e la
catalano-castigliana del periodo aragonese-spagnolo; inoltre, talune
stratificazioni minori, come il francese moderno e l’anglosassone, fino
ad arrivare agli americanismi, importati in Sicilia dalle truppe di
occupazione nel periodo 1943-1945. Inoltre, i dialetti siciliani si
possono dividere in tre macrozone: siciliano occidentale (diviso tra
area palermitana, trapanese e agrigentina); siciliano centrale (diviso
tra le aree nisseno-ennese, agrigentina orientale e delle Madonie); e
siciliano orientale (diviso in tre macroaree: catanese, siracusano,
messinese).
Alcune influenze del greco-classico sono ancora evidente nel linguaggio
attuale, per esempio nell’uso che i siciliani fanno del passato remoto
invece che del passato prossimo, per indicare un fatto recentemente
accaduto (glielo dissi, invece di gliel’ho detto), o per alcuni
vocaboli come naca (naka, culla), cannata (anfora), taddarita
(pipistrello). Inoltre, nel corso della sua millenaria storia la
Sicilia è stata anche oggetto di immigrazione di alcune popolazioni per
disparati motivi: economici, lavorativi, politici, così, in determinate
aree della Trinacria si giustificano le isole linguistiche, come
Aidone, Nicosia, Piazza Armerina che conservano il loro tipico dialetto
gallo-italico, o quelle che conservano forti tracce di linguaggio
settentrionale, come Bronte e Randazzo, dovuto alle immigrazioni di
notevoli masse di persone che dall’Italia settentrionale si spostarono
in Sicilia nei secoli XI-XIII, sia come soldati con le loro famiglie,
sia come coloni, che desideravano abbandonare le terre del Nord,
travagliate dalle lotte comunali, per lavorare in tutta tranquillità
nei campi fertili della Sicilia. Altre piccole isole linguistiche si
formarono in Sicilia nel Quindicesimo secolo, quando gli albanesi
abbandonarono la patria per non sottostare alla dominazione dei turchi,
come a Biancavilla (CT) o a Piana degli Albanesi (PA).
L’influenza greco-bizantina è soprattutto notevole nei toponimi, come
nel caso di Adrano che per secoli è stato Adernò. L’influsso arabo è
chiarissimo anche in un numero notevole di toponimi, come: sciarra,
modificato in alcune aree in scerra (rissa) da “sciarrah”; favara
(sorgente) da “favarah”; giarra (giara) da “giarrah”; mischìnu (miskin)
e tanti altri. Numerosi sono gli influssi castigliano-catalani del
periodo aragonese e spagnolo. Per influsso catalano si hanno i termini
abbuccari (versare), attrassari (attardarsi), accanzari (conseguire), e
tanti altri. L’influenza del castigliano porta le espressioni
truppicari (inciampare), scupetta (fucile), taccia (bulletta). Quanto
agli influssi più recenti, i mercenari tedeschi delle truppe spagnole e
borboniche che imperversarono in Sicilia dal XVI al XIX secolo hanno
lasciato la loro tipica negazione nixi (da “nichts”). Il francese
moderno ha dato al linguaggio siciliano molte parole d’uso comune, tra
le quali, lammuarru (armadio), buffetta (tavolino), tabbaré (vassoio),
sciaffurru (chauffeur - autista), tirabusciò (cavatappi), tutti termini
legati al confort della società abbiente, dal Settecento in poi. Gli
inglesi hanno lasciato un ricordo della loro permanenza in Sicilia nel
periodo napoleonico, influenzando anche la formazione del superlativo
degli aggettivi (in sicilia bellissimo si dice veru bellu); fino ad
arrivare ai recentissimi influssi americani, come giobba (posto di
lavoro), importati dai siciliani emigrati e poi tornati in patria.
Il siciliano non parla al futuro, cioè non coniuga i verbi al futuro
che sarà. Nel dialetto siciliano manca il tempo futuro dei verbi e ogni
espressione riguardante un’azione futura viene costruita al passato o
al presente e il verbo si fa precedere da un avverbio di tempo
(esempio: dumani vegnu, appoi ni videmu). Questa peculiarità del
siciliano può essere compresa e spiegata solamente con la cultura e il
modo di essere, di pensare e di vivere dei siciliani. E’ la
consapevolezza storica dell’esserci sempre, di esserci da sempre, di
vivere e di amare l’eternità della vita, ora per ieri, per domani e per
sempre, “hic et nunc”. I siciliani sono padroni del tempo, “sono dei”,
come diceva il principe Salina, nel Gattopardo. “Ma essere (o ritenere
di essere) padroni del tempo può voler dire dominare mentalmente la
vita e la morte, avere la certezza della propria intangibilità solo nel
presente, un presente che si appropria del tempo futuro per scongiurare
la morte, ombra ineliminabile dell’esserci”. Essere e divenire,
evoluzione e trasformazione si fondono e si confondono.
Per il siciliano ciò che conta è ora, ciò che dà senso alla vita è il
presente.
Un’altra caratteristica significativa del siciliano è la ripetizione di
sostantivi (esempio: casi casi, strati strati) e di verbo (esempio: cu
veni veni, unni vaju vaju, comu sugnu sugnu); strati strati, indica
un’idea generale d’estensione nello spazio, un’idea di movimento in un
luogo indeterminato, non precisato, indefinito. L’idea di “estensione”
viene espressa dalla ripetizione del sostantivo, così originando un
caso particolare di complemento di luogo mediante il raddoppiamento di
una parola. La ripetizione del verbo si ha con la pura e semplice forma
del pronome relativo seguita dal verbo raddoppiato. “Cui veni veni”
intende chiunque venga, tutti quelli che vengono: il raddoppiamento del
verbo, quindi, rafforza un’idea, estendendola dal meno al più, la
ingrandisce al massimo grado, anzi indefinitamente. Significativo nella
lingua parlata è anche l’uso di raddoppiare o di ripetere un avverbio
(esempio: ora ora, rantu rantu), o di un aggettivo (nudu nudu, sulu
sulu, picca picca, sicca sicca, ranni ranni) comporta di fatto due tipi
di superlativo: “ora ora” è più forte di ora e significa nel momento,
nell’istante in cui si parla, “nudu nudu” è tutto nudo, assolutamente
nudo.
Altra regola è per il verbo ausiliario: Come del resto è avvenuto in
altre lingue, il verbo Essiri ha perduto, in favore del verbo Aviri, le
funzioni di verbo ausiliare. Per cui diciamo “aju statu, aviti statu”.
O per il superlativo: Diversamente a quanto accade nell’Italiano, la
forma più frequente in Siciliano per rendere il superlativo è quella di
far precedere l’aggettivo dall’avverbio “veru”. Sono altresì usati gli
avverbi “assai” “troppu”: veru tintu, troppu beddu, troppu ‘ranni, ecc.
Da sottolineare, un’ulteriore peculiarità della lingua siciliana,
legata al Latino, è costituita dalla perifrastica passiva (giro di
parole, circonlocuzione ), cambiando il verbo Essere in Avere (esempio:
in Italiano, io debbo fare, diventa “aju a fari”). E inoltre, il
ripiegamento il tempo della coniugazione del verbo dal Passato Prossimo
in favore del passato remoto (ad esempio, chi dicisti?, mi manciai ‘na
persica), e del modo, dal condizionale al congiuntivo (ad esempio, si
lu putissi fari lu facissi, ci vulissi jiri). Tutto questo è un po’
della nostra lingua siciliana. Solo un po’.
Angelo Battiato
“Lu sai pirchì iu l’amu lu dialettu
la matri lingua d”u me paisi?
Pirchì mi la nzignaru senza spisi
e senza sforzu d”u me ntillettu;
pirchì non ci nni levu e non ci nni mettu,
ca lu so meli, cu’ fu, ci lu misi;
pirchì è onesta, tennira e curtisi
e quannu canta attenta a lu me pettu.
L’amu pirchì ci sentu dintra la vuci
di tutti li me’ nanni e li nannavi
di tutti li me’ vivi e li me’ morti;
l’amu pirchi’ mi fa gridari forti:
"Biddizzi chiù di tia non c’e’ cu’ nn’avi,
terra fistanti mia, cori me duci!"
(Vincenzo De Simone, poeta siciliano dell’Ottocento)
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