I Catari, l’eresia medievale dei 'buoni cristiani'
Data: Martedì, 12 maggio 2020 ore 09:00:00 CEST
Argomento: Redazione


“Loro non imbrogliano, non opprimono e non fanno male a nessuno, credono nella reincarnazione, e in un dio buono e in un dio cattivo”. Loro, i “buoni uomini” e “buoni cristiani” vestiti di nero, che si aggiravano tra i paesi e le campagne di mezza Europa. Loro, i catari. Il più diffuso, originale e organizzato movimento eretico del Medioevo, sorto ai margini dell’ortodossia cattolica, che riuscì a contrastare lo strapotere della Chiesa di Roma e a destabilizzare, per oltre tre secoli, l’intero assetto sociale e religioso dell’Europa. Temuto e combattuto con spietata energia dalla chiesa cattolica, per la sua capacità di espandersi e di influenzare vasti strati della società dell’epoca, il movimento cataro venne infine annientato e cancellato dalla faccia della terra con una imponente e feroce crociata, organizzata dal papa Innocenzo III. Come per tutti i vinti della storia, le informazioni sul movimento ci sono pervenute dai suoi nemici, che, molto probabilmente, e come sempre succede, hanno “ritoccato” e deformato a loro piacimento la memoria e la storia della dottrina e dell’organizzazione religiosa catara.

Ma chi furono i catari? In che cosa credevano? Perché furono considerati eretici e perseguitati duramente dalla chiesa ufficiale di Roma? E in cosa consisteva la loro dottrina? In cosa credevano? E perché i catari si diffusero così rapidamente in ampi strati della popolazione di molte regioni europee, e soltanto dopo un intervento armato, con una vera e propria crociata (la prima contro una popolazione cristiana), si riuscì ad “estirparli” definitivamente dalla storia? Per molti secoli il loro movimento è stato occultato e immerso nell’oblio del tempo, perché?

I catari si sono diffusi tra il XII e il XIV secolo, soprattutto, in alcune regioni dell’Europa, in Linguadoca e in Occitania (Francia del sud), nell’Italia del nord, in Bosnia, in Bulgaria e in molte aree dell’Impero bizantino. L’appellativo “catari” (dal greco antico “puri”) gli venne dato a partire dal 1163 dall’abate Ecberto di Schoönau (c. 1132-1184), che scrisse contro di loro. Venivano chiamati anche Albigesi, dalla città di Albi, una delle roccaforti catare nella Francia meridionale, o pubblicani o pobliciani o populiciani in riferimento all’eresia pauliciana, come anche bulgari, in riferimento alle presunte origini bogomile della loro dottrina. In Italia gli appartenenti alla Chiesa di Desenzano era conosciuti anche come albanesi, dal nome del loro primo vescovo Albano; i seguaci della chiesa di Concorrezzo si chiamavano garattisti dal nome del loro primo vescovo Garatto; quelli di Bagnolo San Vito erano bagnolenso o coloianni, dal nome del loro primo vescovo Giovanni il Bello.

L’origine della dottrina dei catari si perde nella notte dei tempi, si dice che sia stata un’unione tra le idee neomanichee, pauliciani (metà VII sec.) e bogomili (inizio X sec.), cioè il vecchio manicheismo, presente soprattutto nei Balcani, nel sud della Francia e in Italia del nord, e gli ideali, diffusi tra molti cristiani, della necessità di una reale riforma religiosa e morale della Chiesa di Roma. Nonostante nel 1163 il Concilio di Tours avesse condannato la dottrina catara e stabilito la prigione e la confisca dei beni per gli aderenti, la diffusione degli ideali del catarismo fu così veloce che nel 1167, a Saint-Félix-de-Caraman, presso Tolosa, si tenne il loro primo concilio, in cui si posero le basi organizzative del movimento, in vescovati e diocesi. A questo incontro parteciparono il vescovo bogomila Niceta, il vescovo cataro della Chiesa di Francia, Robert d’Espernon, il vescovo cataro della Chiesa d’Italia, Marco di Lombardia, Siccardo Cellerier di Albi e Bernard Cathala di Carcassonne.

Questo concilio fu molto importante perché stabilì che la Francia del sud doveva essere suddivisa in quattro chiese catare: Agen, Tolosa, Albi e Carcassonne; una quinta, quella del Razés, fu istituita nel 1226. Il concilio, inoltre, decise un irrigidimento della dottrina, la divisione dei membri, tra “perfecti” e simpatizzanti, detti “credentes”, e venne dato maggiore peso alla gerarchia e alla liturgia. In tale processo di “ecclesiasticizzazione” solo il gruppo della Francia meridionale, gli Albigesi, rimase compatto, sotto l’aspetto dottrinale ed organizzativo. Nella penisola italiana il movimento si suddivise in sei chiese: Desenzano, (degli “Albanesi”, il cui principale maestro era Giovanni di Lugio, la più radicale), Concorrezzo, Bagnolo San Vito, Vicenza o Marca di Treviso, Firenze, Spoleto e Orvieto. I primi due vescovi catari italiani furono Marco di Lombardia e Giovanni Giudeo.

La loro dottrina si basava su un “dualismo”, due principi che reggono la terra: il mondo visibile, la materia, opera del dio cattivo, e il cielo, opera del dio buono; il Re del Male (Rex mundi) e il Re d’amore (Dio), che si rivaleggiano alla pari per il dominio delle anime umane. Essi svilupparono così alcune opposizioni irriducibili, tra Spirito e Materia, tra Luce e Tenebra, tra Bene e Male, all’interno delle quali tutto il creato diventava una sorta di grande “campo d’azione” di Satana (una sorta di Anti-Dio diverso dalla concezione cristiana), dove il Maligno circuiva lo spirito umano contro le sue inclinazioni giuste verso Dio. Inoltre, credevano che le anime umane preesistevano alla nascita, essendo anime di angeli decaduti, imprigionate da Lucifero in corpi materiali, e destinate a reincarnarsi fino alla liberazione; tale idea ha molte analogie con la dottrina “origenista” da cui in qualche modo deriverebbe il loro credo.

Sulla base di questi principi, i catari seguivano alcune rigide norme di comportamento sociale e individuale: si rifiutavano di mangiare ogni alimento originato da un atto sessuale, come carne di animali a sangue caldo, uova, latte, formaggi, ad eccezione del pesce, di cui in epoca medievale non era ancora conosciuta la riproduzione sessuale; dovevano astenersi dalle relazioni sessuali, in quanto responsabili della nascita di persone considerate prigioni per lo spirito e potenziali “schiavi di Satana”, perfino il matrimonio era considerato peccaminoso. I catari, inoltre, abiuravano l’uso della forza, il servizio militare e ogni giuramento, il che li poneva in antitesi con le leggi degli Stati. La proprietà privata era rifiutata come elemento del mondo materiale, i “perfecti”, infatti, non potevano possedere nessun bene individuale. Ai Catari, quindi, era proibito collaborare in qualsiasi modo alla realizzazione di quelli che essi ritenevano i “piani di Satana”.

Per essi la salvezza consisteva in una rigida “costrizione morale” che permetteva di liberarsi dalla materia e ritornare con una serie di reincarnazioni successive alla propria “origine spirituale”. Tale “ritorno” era determinato con il battesimo o “consolamentum”, un rito di accoglienza che, conferito dai continentes, con l’imposizione delle mani, determinava la remissione di tutti i peccati. Questo era uno dei pochi sacramenti della loro dottrina, insieme ad una sorta di confessione collettiva periodica, che vincolava i “perfetti”, distinguendoli dai semplici credenti, “elevandoli” ad una vita di povertà, penitenza e castità, che impressionava molto le popolazioni, in un’epoca in cui i sacerdoti non praticavano affatto queste virtù. Ogni caduta era irreparabile e doveva essere “impedita”, perfino col suicidio, la cosiddetta “endura”, ottenuto lasciandosi morire di fame o tagliandosi le vene per lasciarne uscire il sangue.

Prendendo spunto da alcuni passi del Vangelo, in particolare quelli in cui Gesù sottolinea l’irriducibile opposizione tra il Suo regno celeste e il regno di questo mondo, i catari rifiutavano del tutto i beni materiali. Pur convinti della divinità di Cristo, gli albigesi sostenevano che egli fosse apparso sulla Terra come un “angelo con un corpo in apparenza umano” (docetismo), (di natura angelica era considerata anche Maria). Credendo nella deviazione della Chiesa romana dalla vera fede, perché corrotta e attaccata ai beni materiali, e accusandola di essere al “servizio di Satana”, i catari crearono una propria istituzione ecclesiastica, parallela a quella ufficiale presente sul territorio. La convinzione che tutto il mondo materiale fosse opera del male determinava come conseguenza il rifiuto del battesimo d’acqua, dell’eucarestia e del matrimonio, suggellato dal rapporto carnale.

La massima vittoria del Bene contro il Male era la morte, che liberava lo spirito dalla materia, e la perfezione per i catari era raggiunta quando si lasciavano morire di fame (endura). A seconda del contenuto della fede professata si distinguevano tra catari moderati e radicali. Per i moderati il Diavolo non è creatore del mondo ma solo architetto, con il permesso di Dio. I Catari radicali, invece, sostenevano l’esistenza di due principi opposti, l’uno buono e l’altro cattivo, che hanno dato luogo a mondi distinti. Le comunità catare avevano una struttura gerarchica ben definita: i “perfecti” (uomini o donne), che praticavano la rinuncia ad ogni proprietà e vivevano unicamente di elemosina, gli unici che potevano rivolgersi a Dio con la preghiera e che erano sicuri della salvezza; e i “credentes” (simpatizzanti), non tenuti ad applicare tutte le norme della disciplina, che si definivano “Buoni Uomini”, “Buone Donne”, “Buoni Cristiani”, e che potevano sperare di divenire perfetti dopo un lungo cammino di iniziazione, seguito dalla comunicazione e il consolamentum. Tra i perfecti esisteva una gerarchia facente capo ai vescovi di ogni provincia (assistiti da coloro che venivano detti il “Figlio Maggiore” e il “Figlio Minore”) e ai diaconi delle varie comunità catare.

I catari riuscirono a “sedurre” e a fare molti proseliti tra le popolazioni dell’epoca perché praticavano con assoluta coerenza i principi della loro dottrina e li vivevano in maniera radicale, al punto di “costringere” anche la chiesa cattolica, dopo un lungo e travagliato percorso, ad una profonda revisione del modo di vivere la fede, di approcciarsi con il mondo, e di riscoprire e praticare gli autentici valori evangelici (apostolato dei laici, cura pastorale delle parrocchie, la vita degli ordini mendicanti).
Mentre inizialmente la gerarchia cattolica tollerò il catarismo, cercando di contrastarlo con la cura pastorale, la predicazione e l’educazione catechistica dei fedeli, successivamente, esercitò metodi repressivi, inizialmente esercitati dal potere politico (monarchi e feudatari) che tentarono di bloccare con ogni mezzo la diffusione dell’eresia che scardinava i principi della convivenza civile (famiglia e società), devastando chiese e monasteri e creando gravi disordini sociali.

In seguito, dopo ripetuti e infruttuosi tentativi messi in atto da alcuni legati papali, Domenico di Guzmán adottò nuovi metodi e una più incisiva azione pastorale, utilizzando i loro stessi principi, “predicare e praticare”, in maniera concreta e coerente, i principi evangelici di povertà, umiltà e carità. Questo nuovo modo di “evangelizzazione”, oltre a contenere la loro espansione, determinò, dieci anni più tardi, la fondazione dell’ordine dei domenicani. Ma il papa Innocenzo III già pensava alla loro completa e definitiva “eliminazione”, promuovendo una vera crociata, la prima della storia contro popolazioni cristiane. E fu la loro fine.

Angelo Battiato





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