Il male non è mai banale. Appunti per la comprensione del 'male assoluto'
Data: Domenica, 09 febbraio 2020 ore 07:00:00 CET
Argomento: Redazione


Pubblicato nel 1963, il famoso saggio “La banalità del male (Eichmann a Gerusalemme)”, di Hannah Arendt, è il resoconto del processo a cui fu sottoposto, a Gerusalemme, l’ufficiale delle SS Adolf Eichmann ad opera delle autorità israeliane, dal 1960 al 1962, e che si concluse con la condanna a morte mediante impiccagione, la cui sentenza venne eseguita la notte tra il 31 maggio e il 1 giugno 1962.
Da allora il termine “banalità del male” è diventato un “giudizio” condiviso universalmente, accettato da tutti per comprendere e spiegare il “male assoluto”. L’autrice, dopo aver seguito le 120 sedute del processo, arrivò alla deduzione che il “male assoluto” commesso dai nazisti non fosse dovuto ad una innata indole malvagia, connaturata nell’uomo, quanto invece frutto della inconsapevolezza, del senso di impersonalità, della frammentarietà delle azioni, dell’incapacità di comprendere pienamente e fino in fondo il significato dei singoli fatti commessi da una moltitudine indefinita e non correlata di persone.

Per l’autrice, Eichmann “era un uomo comune, caratterizzato dalla sua superficialità e mediocrità, anzi qualcosa in più, dalla “incapacità di pensare”; sosteneva che “le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso”.
Dietro questa “terribile normalità” della massa burocratica, che era capace di commettere le più grandi atrocità che il mondo avesse mai visto, la Arendt rintracciava la questione della “banalità del male”. Questa “normalità” fa sì che alcuni atteggiamenti comunemente ripudiati dalla società del tempo, si manifestino nel cittadino comune, che non riflette sul contenuto delle regole ma le applica incondizionatamente.

Eichmann incarnava il “pericolo estremo della irriflessività”. Ma il guaio del “caso Eichmann” era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che quei tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. E questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme”. E ancora, Arendt sosteneva che solo “l’uso del pensiero previene il male”, perché la capacità di riflettere, la manifestazione del pensiero è capace di provocare perplessità e obbliga l’uomo a riflettere e a pronunciare un giudizio”. Quindi, “banalità significa “senza radici”, non radicato, il male non è mai radicale, ma soltanto estremo, non possiede né la profondità né una dimensione demoniaca. Il male può invadere e devastare il mondo perché cresce in superficie, come un fungo. Solo il bene ha profondità e può essere integrale”.

Mettendo per un attimo da parte la storia e la personalità di Eichmann, e la vicenda del suo “prelevamento” a Buenos Aires ad opera degli agenti del Mossad israeliano (ufficialmente Eichmann non venne mai arrestato ed estradato dall’Argentina in Israele), io ritengo, invece, che per dovere di giustizia e per rispetto nei confronti dei sei milioni di ebrei vittime dell’Olocausto, oltre che per tentare di comprendere appieno la Shoah, le premesse, le cause, le azioni e le responsabilità dei carnefici, è riduttivo, superficiale, oltreché irriguardoso e ingiusto etichettare “banale” il male, soprattutto quel “tipo” di male che ha prodotto così tanta sofferenza.

E come volerlo sottrarre da un giudizio giusto, rigoroso, imparziale, scientifico, giuridico, e umano. Sembra quasi un voler giustificare quel male, a tratti scagionarlo, pressoché discolparlo (quasi che il male non dipendesse dalla ferma, decisa volontà del carnefice, cioè di chi, in fine dei conti, ha commesso l’azione malvagia), appare quasi come un voler comprendere, e “giustificare”, “la massa di aguzzini” per la mancanza, o comunque per la loro non sufficiente, e non indipendente, volontà e capacità di scelta, vera, mirata, voluta, perseguita (con tutti i mezzi possibili).

A mio parere, il contenuto del saggio della Arendt sembra quasi voler delegittimare il male stesso, sminuire il suo profondo carico di colpevolezza, depotenziare e indebolire le responsabilità personali; l’autrice, secondo me, emette una “condanna sommaria”, approssimativa, pur approfondendo le origini, le cause, il contesto dell’antisemitismo, pur analizzando in maniera “scientifica” il processo che portò alla “soluzione finale” degli ebrei, pur esaminando attentamente il periodo storico in questione, anche per spiegare da dove nasce e perché nasce e come si sviluppa il male. Ma si vuole dare, a tutti i costi, la responsabilità alla irresponsabilità delle persone che invece hanno deliberatamente commesso i fatti.

Il male dipinto come banale, nelle pagine della Arendt, diventa quasi un assioma, una regola immutabile, una legge universale, un’opinione collettivo, quasi un luogo comune. E invece no! Non sono d’accordo: il male non è mai banale. Il male è lucido, deciso, astuto, intelligente, sottile, furbo. Il male sa quel che vuole, e come realizzarlo, sa come raggiungere il suo obiettivo, cerca i mezzi adatti, il contesto idoneo, il tempo utile, le situazioni favorevoli, soprattutto cammina con la testa e con le gambe degli uomini, cioè sa trovare gli uomini “giusti”, utili, adeguati, efficaci, sa come sceglierli, selezionarli, sedurli, convincerli.

Il male sa mimetizzarsi, nascondersi, cambiare pelle, all’occorrenza inabissarsi, sa uscire allo scoperto al momento opportuno, quando meno te l’aspetti, quando non l’immagini, quando non ci pensi nemmeno. Il male può anche essere “buono”, o può anche travestirsi da agnello per colpire come un lupo famelico. Il male conosce gli uomini, il loro “ventre molle”, il loro carattere, le loro debolezze, i loro punti sensibili, li sa tentare, li sa abbindolare, riesce a traviarli, sa come corromperli, come conquistarli, come dominarli. Ma il male, soprattutto, non è e non deve essere visto come una “entità” metafisica astratta, indefinita, esterna e autonoma che non dipende dall’uomo, o come una categoria dello spirito, vaga, eterna, immutabile.

No! Il male, come il bene, è connaturato con l’uomo, nell’uomo, è insito nel suo pensiero, è un derivato delle sue idee, è un prodotto delle sue azioni,. Ecco! La “idea” produce il male, come può produrre il bene. In ultima analisi, il male è il risultato della libertà e del libero arbitrio dell’uomo. Questa è la più grande responsabilità dell’uomo. E tutto questo può produrre il “male assoluto”.

Quindi, a mio parere, non è possibile, come ha tentato di fare la Arendt, o altri, cercare il male assoluto nelle azioni di un semplice esecutore, in un militare (Adolf Eichmann non andò mai oltre il grado di tenente-colonnello) che era addetto solo a coordinare l’organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i vari campi di concentramento e di sterminio, perché se no si rischia di “perdere il filo”, di “banalizzare” il male (in questo caso si) e di non rendere un buon servizio alla conoscenza e alla consapevolezza del male e alla ricerca delle responsabilità.

Eichmann era inserito nella struttura militare della RSHA (Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich), intruppato in un ingranaggio che probabilmente andava oltre la sua comprensione, sicuramente al di là della sua effettiva capacità di controllo e analisi, non dico di conoscenza, cioè probabilmente sapeva il “risultato” del suo lavoro, la “soluzione finale”, ma non era protagonista, non poteva determinare il corso degli eventi, non aveva gli strumenti e la capacità giuridica, professionale, oltre che morale e umana di “cambiare la storia”. Lui faceva solamente parte di una catena di comando, era un esecutore di ordini decisi da altri, con regole ferree, indiscutibili e incontrovertibili.

I comandi che lui eseguiva erano il prodotto (quelli si) di una “idea” voluta, studiata, pianificata e organizzata dai livelli più alti del potere nazista, “ideata” da e in un regime totalitario, in cui era impensabile, e impossibile, disobbedire e contravvenire agli ordini dati. Ecco perché il male non può essere banale, non è mai banale.

Angelo Battiato





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