Primo Levi, Auschwitz e il vizio della memoria
Data: Domenica, 27 gennaio 2019 ore 09:00:00 CET Argomento: Redazione
Ci incontrammo nella
penombra di un bar, in una stradina del centro storico di Torino. Lui
già m'aspettava da un po', sorseggiando un caffè, al mio arrivo
m'accolse con fare garbato, m'invitò a sedere, fece portare un
bicchiere d'acqua e un caffè, e mi chiese da dove volevo iniziare. Così
incontrai Primo Levi, in un tardo pomeriggio d'inverno, mentre fuori
infuriava una tormenta di neve e la luce bianca dei lampioni, a tratti,
illuminava i nostri volti e le sue parole. Partigiano, antifascista,
scrittore, chimico, Primo Levi è stato sicuramente una delle
personalità più profonde e fragili della nostra Italia; le sue parole,
i suoi ricordi, la sua stessa vita sono stati semi di speranza e di
riscatto per la sua generazione, e anche per la nostra. Dopo l'otto
settembre del 1943 si rifugiò sulle montagne della Valle d'Aosta,
unendosi ad un gruppo di partigiani, ma alcuni mesi dopo, il 13
dicembre, venne arrestato dalla milizia fascista e inviato nel campo di
raccolta di tutti gli ebrei a Fossoli, in provincia di Modena, poi, nel
febbraio del '44, in quanto ebreo, deportato nel campo di
concentramento di Auschwitz, dove rimase fino alla liberazione, il 27
gennaio 1945. Fu uno dei venti sopravvissuti dei 650 ebrei italiani
arrivati con lui al campo. Quei terribili e lunghissimi undici mesi di
prigionia, trascorsi ad Auschwitz, saranno raccontati nel libro "Se
questo è un uomo", un classico della letteratura mondiale, un libro che
segna l'inizio delle testimonianze autobiografiche dei deportati nei
campi nazisti. La sua voce si fece calma e profonda, mi parse
impaziente di raccontare.
Può raccontare il viaggio per
Auschwitz? «Ricordo tanto freddo, tanta paura, tante lacrime. Ci
stiparono come bestie su di un carro merci, cinquanta o forse più. Un
viaggio lunghissimo, interminabile, incomprensibile. Un vero tormento
fisico e psicologico. Non sapere dove andavamo e perché c'andavamo.
Accanto a me, per tutto il viaggio, c'è stata una donna. Ci conoscevamo
da molti anni, e la sventura ci aveva colti insieme, sapevamo poco uno
dell'altra. Ci dicemmo allora, nell'ora delle decisione, cose che non
si dicono tra i vivi. Patimmo la fame, la sete, il freddo. Ma eravamo
vicino, e non ci sentimmo soli. Arrivammo di notte, accolti da urla
disumane e da latrati dei cani. Sulla banchina della stazione ci
salutammo, ciascuno salutò nell'altro la vita. Non avevamo paura. Non
la vidi mai più. In seguito seppi che morì nel campo, aveva solo
venticinque anni. Il suo ricordo tormenta ancora le mie notti
d'adulto».
Cos'è stato Auschwitz? «Credo
che sia difficile da spiegare, e ancora più difficile da capire. Penso
che nella storia dell'uomo nessuno avrà mai più il "privilegio" di
vedere ciò che abbiamo visto noi. Auschwitz è la bocca dell'inferno,
l'anticamera della morte, il regno dell'assurdo, pensato dall'uomo,
costruito da mani d'uomo! Qualcosa di impensabile, di incomprensibile,
di inaccettabile. Auschwitz è la distruzione dell'uomo. Distruggere
l'uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è
stato breve, però i tedeschi ci sono riusciti benissimo. Siamo stati
docili sotto i loro occhi: da parte nostra, non potevano temere più
nulla: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo
giudice. Questa la nostra più grande tragedia. E la loro più grande
vittoria. Averci annullati come uomini, averci resi muti, docili,
sottomessi. Senza più forza di dire, di urlare, di protestare. Senza
più voce. E poi c'era la "padrona di casa", la morte, che ad Auschwitz
era triviale, burocratica e quotidiana. Era quasi scontata, nessuno ci
faceva più caso, nessuno piangeva per un morto in più o in meno,
c'eravamo abituati alla morte, tanto che nessuno pensava al "se
morire", cosa scontata, ma piuttosto al come morire».
Hegel diceva che "tutto ciò che è
reale è razionale". Ma c'è una logica, una spiegazione per Auschwitz?
«Noi siamo solo testimoni, non storici, non filosofi. Ma semplicemente
testimoni oculari, spesso lo dimentichiamo e ci sostituiamo agli
storici, a chi, cioè, è chiamato, per competenza, conoscenza, studio,
intuito, a dare delle risposte, a capire cosa è successo e perché è
successo. Noi non possiamo e non sappiamo dire perché c'è stato
Auschwitz. Non possiamo rispondere a ciò. Il nostro compito - ed è un
grande compito - è solamente di dire e di raccontare tutto ciò che
abbiamo visto e vissuto, con verità, lucidità, rigore scientifico,
quasi maniacale, se mi concedi il termine, "con distacco", senza
rancore, senza emozione, senza aggiungere e levare nulla. E più siamo
rigorosi e fedeli nel racconto, più siamo "impersonali", più "ci
nascondiamo dietro il racconto" e più facciamo il nostro dovere e più
aiutiamo gli storici a capire e la storia a giudicare. Per questo,
subito dopo il mio rientro a casa, nel 1947, ho voluto scrivere, quasi
di getto, il libro "Se questo è un uomo", per raccontare la verità, in
maniera lucida e imparziale, prima che veniva "deformata" dal tempo,
dagli anni, dalla percezione, dalle sensazioni».
Ma come è stato possibile Auschwitz?
E' possibile che allora nessuno sapeva, nessuno ha visto nulla?
«Molti adesso dicono di non aver saputo, di non aver conosciuto, di non
aver visto. Non può essere, non ci credo, sono tutte fandonie! Troppi,
purtroppo, sono gli indizi che mi inducono a credere e a dire che non
si poteva non sapere, o meglio, solo chi non voleva sapere, chi faceva
finta di non sapere, chi si voltava dall'altra parte, "non sapeva": ma
costoro sono maggiormente responsabili! Primo indizio: il veleno, lo
Zyklon B, chi lo produceva, chi lo confezionava, chi lo
commercializzava, chi lo trasportava!? Quanti operai lavoravano in
illustre fabbriche chimiche tedesche di produzione del veleno!? E i
capelli delle donne massacrate che finivano nelle fabbriche!? E l'oro
dei denti estratti dai cadaveri che finivano nelle banche!? Possibile
che nessuno si poneva la minima domanda a cosa serviva, che utilizzo
aveva così tanto veleno!? E poi i forni crematori, le strutture di
costruzioni di tali strumenti di morte. E poi le ferrovie, le linee
ferrate, possibile che nessuno vedeva passare dalle stazioni, così
tanti vagoni piombati e blindati, carichi di brandelli d'uomini che
gridavano, che chiedevano aiuto, che chiedevano acqua, di giorno e di
notte!? Possibile che nessuno sapesse o capisse!? Io non ci credo!
Molti sapevano, molti, forse anche "dall'altra parte", e non hanno
mosso un dito!».
Perché ha raccontato Auschwitz?
«Tutti coloro chi hanno "vissuto" i lager nazisti, così come chiunque
abbia sperimentato la prigionia, si possono dividere in due tipi: chi
tace e chi racconta. Tace chi prova più profondamente quel disagio che
io chiamo "vergogna", chi non si sente in pace con se stesso, o le cui
ferite bruciano ancora. Gli altri parlano perché considerano
l'esperienza del lager, di quel tipo di lager, una "ferita" profonda,
assoluta, quasi identitaria, indelebile, cucita sulla pelle, come un
marchio, come il numero che i nazisti ci stampavano sull'avambraccio,
che ti segna la vita per sempre, perché si ha la netta convinzione, la
piena consapevolezza di aver vissuto una situazione unica,
straordinaria, storica. Auschwitz non è un evento, ma l'evento,
mostruoso, epocale, irripetibile della storia umana».
Quali erano i reali rapporti umani
all'interno del campo di prigionia? «Ecco, questo è il nocciolo
della questione, il cuore del problema del lager. E di questo ne ho
parlato ampiamente nel mio libro "ragionato" su Auschwitz, "I sommersi
e i salvati". Noi tutti siamo abituati, per ogni vicenda, a cercare le
differenze, ad individuare i carnefici e le vittime, a cogliere il nero
e il bianco, a distinguere il bene dal male, a dividere il campo tra
noi e loro, qui i giusti, là i reprobi. Ad Auschwitz non c'era niente
di tutto questo! Non era semplice la rete dei rapporti umani
all'interno del campo, non era riconducibile alla semplice, e quasi
banale, constatazione degli oppressori e degli oppressi, dei
persecutori e dei perseguitati, come una sorta di giudizio universale
michelangiolesco. No, assolutamente, non era possibile tutto ciò! Il
mondo del lager era terribile, ma anche indecifrabile, il nemico era
intorno ma anche dentro, il "noi" perdeva i suoi confini; si sperava
nella solidarietà dei compagni di ventura, ma gi alleati sperati, salvo
casi speciali, non c'erano; c'erano invece mille monadi sigillate, e
fra queste una lotta disperata, nascosta e continua. C'era un'infinita
"zona grigia", come la definisco nel libro citato: era "questa" il
nostro vero nemico che bisognava combattere ogni giorno, di cui
bisognava difendersi. E non sono d'accordo neppure con chi ha parlato
di "banalità del male". No! Il male è perfido, astuto, furbo, sottile,
intelligente, sa dove e come colpire, conosce le debolezze e i punti
deboli degli uomini, conosce il cuore dell'uomo. Il male non è mai
banale!».
«Adesso voglio fermarmi. Ricordare è troppo doloroso, almeno per me. Ma
non so se ci rivedremo ancora». Un'ultima
domanda, lei crede in Dio? «C'è stato Auschwitz! Io ho
conosciuto Auschwitz, quindi non può esserci nessun dio. Non trovo una
possibile soluzione al dilemma. La cerco ma non la trovo».
Primo Levi era visibilmente stanco, lo sguardo triste, mentre parlava e
ricordava l'orrore di Auschwitz. Per tutto il tempo della conversazione
non sorrise mai, parlava lentamente, pesava quasi le parole, una ad
una, scavava nella sua memoria fino a farla riaffiorare dalle tenebre
dei lager nazisti, quasi come stesso facendo "un'operazione
psicoanalitica". Su alcuni punti si soffermava maggiormente, sembrava
che volesse scavare di più, che volesse far emergere altri ricordi,
altri fantasmi, su altri si arrestava, accennava qualcosa, ma subito si
fermava. Alla fine mi disse, «non so se ci rivedremo più. Mio caro
amico, la memoria è una responsabilità immensa. La memoria è tormento,
ma è anche liberazione. La memoria può far vivere, ma può anche far
morire». Mi fece dono dei suoi libri, e mi salutò. Io, in cuor mio,
speravo di rivederlo, di ascoltare altre storie della "bocca
dell'inferno". Quasi ogni sera ritornai in quel piccolo caffè, sperando
di rincontrarlo, poi alla fine, sconfortato, ritornai nella mia terra.
La mattina del 12 aprile 1987, da un giornale appresi la notizia che
mai avrei voluto leggere: "Ieri Primo Levi è stato trovato morto alla
base della tromba delle scale di casa sua a Torino". Molti pensarono al
suicidio, altri dissero ch'era stato un tragico fatale incidente.
Durante il suo funerale il rabbino lesse il Salmo 91:
"Non temerai i
terrori della notte
né la freccia che vola il giorno,
la peste che vaga nelle tenebre,
lo sterminio che devasta a mezzogiorno,
Mille cadranno al tuo fianco
e diecimila alla tua destra;
ma nulla ti potrà colpire".
Angelo Battiato
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