
Auto da fé di Elias Canetti
Data: Giovedì, 14 luglio 2016 ore 07:00:00 CEST Argomento: Redazione
Metus hostilis.
In un racconto di Elias Canetti, Auto da fé, il protagonista Peter
Kien, aggredito da sconosciuti malfattori si preoccupa - prima di ogni
cosa, prima ancora di difendersi - di sapere chi sono costoro: vuole
individuarli, classificarli. Ed a un certo punto ha un'intuizione:
"Lanzichenecchi!". Pur continuando a subire legnate, sa finalmente "con
chi ha a che fare", e si sente sicuro. La sua ossessione nei confronti
dello sconosciuto, del disordine, dell'alieno è così forte da indurlo a
"creare" - come scrive Marco Aime - la categoria in cui inserire i suoi
nemici. Fuor di metafora, credo che le categorie assolvano a questa
funzione di sterile difesa: esprimono la volontà di far esistere
gruppi, impongono l'identificazione, annullano la dimensione
individuale e trasformano gli uomini in "non persone". E questo vale
soprattutto con gli "stranieri", oggetto di una smania classificatrice
puntuale e indefettibile: extracomunitari, immigrati, clandestini.
Ora, se guardiamo all'Italia in questi giorni, a certe sue malinconiche
esternazioni politiche, è fin troppo facile constatare che per qualcuno
"i clandestini" sono necessari come l'aria. Se non ci fossero
bisognerebbe inventarli; senza i clandestini il risentimento sociale si
attenuerebbe, la rabbia e il livore delle guerre tra poveri
scemerebbero, si abbasserebbe la soglia di minaccia, di allerta, di
attenzione politica, di opportunità elettoralistica. Si porrebbe cioè
il nodo di governare un problema sociale e politico per il quale non si
è culturalmente attrezzati, che è dunque più utile evocare come
spauracchio, non risolvere.
Il metus hostilis, la paura del nemico potenziale (vero o presunto) è,
come ben sapevano i Romani, argomento più convincente della tolleranza
e del buonsenso. Ed è più comodo esorcizzare un pericolo piuttosto che
governare un problema reale. Il "metus clandestinus" è materia
ideologica, puro cascame ideologico da riporre nel carnet
dell'opportunismo e della demagogia più retriva, dell'incultura e
dell'inciviltà politica più smaccate. Ed è deriva e limite di
linguaggio, che come Wittgenstein ci ha insegnato, è soprattutto limite
del nostro mondo.
"Il clandestino" per qualcuno è ontologicamente indispensabile; nè più
né meno come per Robespierre erano necessari, a qualunque costo, i
nemici della Repubblica. Li scovava con tale zelo e acrimonia, con tale
compiacimento, con tale appassionato trasporto da lasciare basiti gli
stessi sanculotti parigini, tanto che una volta qualcuno, in berretto
frigio, gli gridò dalla folla: "Cittadino Maximilien, ti dispiacerebbe
se non ce ne fossero più?".
Filippo Martorana
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