Il partigiano siciliano Alfio Anastasi e l’attuale riflessione storiografica sulla Resistenza
Data: Lunedì, 25 aprile 2016 ore 07:30:00 CEST
Argomento: Redazione


Nel settantunesimo anniversario della Liberazione il passaggio dalla cronaca alla storia e dalla memoria soggettiva e monumentale alla severa ricostruzione. Il flusso delle stagioni ideologiche, culturali e politiche non è stato vano. Il tempo è una categoria dello spirito che chiede distanza di ripensamenti e abbandono dei caldi ideologismi Ho dovuto rompere con gli amici più cari, quelli che "venivano" dalla Resistenza, per affermare il sacrosanto dovere della libera ricerca della verità storica contro ogni mistificazione per ragioni le più svariate e non sempre miserevoli e volgari. Perciò ho rifiutato per quanto mi è stato possibile la falsa narrazione dello storico valdostano Federico Chabod di un Sud tagliato fuori dalla lotta di liberazione nazionale e sottoposto ai peggiori condizionamenti sociali e culturali, perché su di esso non soffiava prepotente da nessuna fessura "il vento del Nord", che rappresentava il progresso intellettuale e morale, la modernità democratica e costituzionale ed il più autentico antifascismo, quello che si sarebbe invece fermato ai confini meridionali della Toscana. Nel Regno del Sud la Resistenza taceva poiché sarebbe avvenuta troppo presto l'invasione anglo-americana nella notte del 9-10 luglio 1943 e non vi potevano germogliare le condizioni ideali e materiali di una opposizione armata e disarmata contro i nazifascisti: "Questo è il regno del Sud. Qui non troviamo, non possiamo trovare la Resistenza. Si costituiscono, è vero, dei Comitati di liberazione nazionale, ma essi sono ben diversi da quelli delle altre regioni; qui i comitati si formano quando ormai non c'è più nessuna lotta da condurre. Quelli del Nord invece combattono per due anni, molti dei loro membri rischiano continuamente la vita, e parecchi infatti la perdono; le popolazioni sanno che fra loro c'è un gruppo di uomini cui spetta il durissimo compito di guidare la lotta. In altre parole, ciò significa che sia dal punto di vista politico, sia da quello militare la popolazione del Mezzogiorno non può conoscere il fenomeno partigiano(le grandi giornate di Napoli sono un'eccezione che non muta la situazione generale). La lotta fra i partiti si svolge in modo, direi, pressoché normale, in condizioni relativamente favorevoli... Ma è lotta di partiti, non guerra di resistenza" ( Federico Chabod, L'Italia contemporanea, Einaudi, Torino 1961, p.120).

Chabod è grandissimo storico dell'età moderna, e nessuno gli potrà togliere i meriti altissimi nella ricerca storica, ma sulla Resistenza dimostra un mostruoso settarismo al quale sfuggono diversi elementi di giudizio ed in primo luogo il fatto che il Sud non poteva stare a guardare per evidenti ed inoppugnabili ragioni. Aveva visto bene, il Croce che riteneva la contemporaneità una funzione da trattare con molta prudenza e possibilmente con una certa distanza logica e psicologica per evitare l'approccio meramente cronachistico e monumentale. La storia possiede infatti una maggiore credibilità rispetto alla cronaca, per la completezza quantitativa delle informazioni ben consolidate e la migliore qualità dell'interpretazione e della ricostruzione degli avvenimenti, che devono essere fortemente e chiaramente documentati da una intellezione depositata in attestazioni certe e verificabili. Non deve scandalizzare perciò se da un punto di vista della metodologia e della completezza narratologica l'opera attualmente meglio riuscita sulla Resistenza, nonostante la sua caratterizzazione antologica, sia da considerare quella del giornalista Aldo Cazzullo Possa il mio sangue servire. Uomini e donne della Resistenza, Rizzoli 2015, nella quale si attua con chiara intelligenza il superamento dell'approccio ideologicamente settario per fare assumere alla narrazione una prospettiva concretamente imparziale e concettualmente più aperta e accettabile nel senso crociano, anche se rimane non risolto il problema della partecipazione meridionale alla guerra di liberazione pur nella nuova visione decisamente unitaria e nazionale. Né si può ignorare, da un punto di vista metodologico, il solidissimo saggio di Santo Peli La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi 2004, per la seria proposta di ricostruzione complessiva dei fatti resistenziali e di una storiografia problematica e desiderosa di ulteriori avanzamenti cognitivi, senza abusi ideologici e falsificazioni monumentali e senza distrazioni e distorsioni partitiche e suggestioni regionalistiche.

La storia non è una disciplina nella quale si possa recitare su copione la medesima lezione monumentale e ripetitiva Vi sono aspetti molto problematici che devono essere affrontati con la necessaria intelligenza critica e vi sono eventi nuovi prima non considerati né adeguatamente studiati. Più volte ho rivelato la presenza della lotta di liberazione in Sicilia, in coincidenza dello sbarco alleato nell'Isola, e delle prime stragi nazifasciste nei paesi dell'Etna, e altrettante volte mi è capitato di esaltare l'indimenticato Giorgio Bocca della Storia dell'Italia partigiana per i primi timidi accenni di grande significato politico volti a delineare la Resistenza nelle città del Sud, da Potenza a Matera e da Napoli a Cajazzo nel casertano. L'insurrezione di Napoli non è stata l'unica nel Meridione, giacché altre ve ne furono in centri minori, come a Matera già il 21 settembre 1943 e in vari paesi dell'Irpinia, della Terra di Lavoro, del Molise e dell'Abruzzo. Giorgio Candeloro lo riferiva con onestà: "In alcuni casi gli insorti, pur con perdite non lievi, riuscirono a cacciare i tedeschi prima dell'arrivo degli alleati; in altri le rivolte fallirono e le repressioni furono durissime , come avvenne a Lanciano tra il 4 e il 6 ottobre" (Giorgio Candeloro, Storia dell'Italia moderna. La Resistenza, Feltrinelli, Milano 2002, p.231). E tante volte anch'io , più modestamente, ho parlato di militari meridionali "sbandati" dopo l'8 settembre che, non potendo ritornare nelle loro case lontane e non volendo aderire alla Repubblica Sociale di Salò, si diedero alla macchia e costruirono le prime postazioni resistenziali sui monti a ridosso delle grandi e piccole città del Centro-Nord, da Genova a Torino, da Milano a Udine, da Montepulciano a Pontremoli sull'Appennino Tosco-Ligure-Emiliano. ecc.

Questo fenomeno di iniziale resistenza spontanea affidata alle armi dei militari "sbandati", e soprattutto di quelli meridionali, non è stato adeguatamente analizzato e valutato, ma esso merita una particolare considerazione storiografica, come la meritano del resto Cefalonia ed i militari italiani massacrati a causa della loro avversione al nazifascismo, quelli dissidenti internati nei campi di concentramento in Germania e tutti quei religiosi che hanno accolto con grave rischio nelle loro parrocchie e nei loro conventi ebrei, antifascisti e partigiani. L'episodio assai singolare dei monaci benedettini dell'abbazia di Farneta presso Lucca, deportati e racchiusi dai nazifascisti nel Castello "Malaspina" di Massa e poi fucilati il 10 settembre 1944 in luoghi periferici di questa città e distribuiti come tanti sacchi di patate lungo il percorso e raccolti da mani pietose, collocati nelle Fosse del Frigido è segnalato oggi da un'altissima colonna commemorativ che non può essere trascurata o minimizzata e che sollecita una diversa visione e ricostruzione storiografica ben lontana dalla pur decorosa Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia. Non è un caso se il vescovo di Massa-Carrara (Apuania) sarà costretto subito dopo la liberazione a dare le dimissioni per aver tradito la fiducia del clero locale e dei religiosi delle due città gemelle e gli ideali resistenziali resi urgenti e pregnanti nei mesi precedenti, quando nella zona infuriavano le stragi nazifasciste di Vinca, San Terenzo, Stazzema, Castelpoggio, ecc., come cerco di raccontare in un mio saggio pubblicato a cura del Comune di Carrara.nel 2003 e titolato Cristoforo Arduino Terzi. Un vescovo apuano tra fascismo, guerra civile e dopoguerra.

Così è stato per il Sud e la sua indiscutibile partecipazione alla guerra di liberazione nazionale. E non si dica nemmeno che questa partecipazione è stata tardiva, giacché la risposta diventa crudele per tutti , e ancora di più per coloro che finora hanno ritenuto di essere i primi della classe nella cospirazione antifascista. E oggi possiamo apprezzare l'onestà del giudizio storico-politico di Giorgio Amendola: "In realtà i partiti antifascisti sono nati o si sono organizzati tardi. Ecco il mio atto di accusa Perché i partiti si sono organizzati soltanto nella seconda metà del 1942 ? Per la ragione che fino alla prima metà del '42 si temeva che Hitler vincesse la guerra...Le energie si sono sviluppate solo quando è apparso chiaro che la svolta della guerra significava la sconfitta di Hitler... Anche noi [comunisti] siamo arrivati tardi all'appuntamento. Un passo più avanti degli altri, ma anche noi tardi" (Giorgio Amendola, Intervista sull'antifascismo, Laterza 2008, p. 147). La verità è che pure la Resistenza italiana ha avuto per tutti un inizio ritardato man mano che si verificavano determinate situazioni o che si veniva ridefinendo la linea del fuoco con la risalita degli Alleati sul territorio italico e la conseguente retrocessione psicologica e territoriale dei nazifascisti. Ma, insomma, l'antifascismo non era di casa dovunque .

Le prime azioni di guerra partigiana nell'Italia del Centro-Nord sono state compiute da giovani militari meridionali "sbandati" dopo l'8 settembre 1943 e nascosti tra i monti ed i boschi dell'Appennino e delle Alpi. Antonino Siligato, Dante Castellucci e Alfio Anastasi sono tre protagonisti della guerra di liberazione dei quali ho potuto conoscere e studiare più da vicino la vicenda biografica .Essi erano dei giovani militari "sbandati".dopo l'8 settembre Erano meridionali Anastasi era nato ad Acireale in provincia di Catania il 2 febbraio 1914 e dopo l'8 settembre salì in montagna, sull'Appennino piacentino, in direzione di Cicogni nel Comune di Pecorara sul Monte Mosso tra le province di Genova, Alessandria, Piacenza e Parma, e divenne un consapevole, attivo ed eroico partigiano del Corpo Volontari della Libertà. Ed in tale posizione, con i suoi compagni, si oppose al nazifascismo ed ai reparti armati della famigerata divisione Turkestan composta da fanatici nazisti e fascisti, tutti in uniforme di combattimento, ben armati e sostenuti da pesanti mezzi corazzati.
Il giovane Alfio Anastasi organizzò la lotta armata sul Monte Mosso e combattè valorosamente fino alla morte che lo colse il 18 dicembre 1944 a Cicogni durante una sua permanenza abituale presso la famiglia Pozzi, a seguito di una infame delazione e di feroce rastrellamento nemico con accerchiamento della cascina in cui si trovava. Il partigiano acese cadde, ferito mortalmente sotto i colpi del nemico e in via Fontanella n. 5 ora spicca la lapide che lo riguarda sorta per volontà resistenziale e profondo dolore degli abitanti del villaggio. La sua biografia è perciò importante se esplorata nella sua completezza e nei rapporti con la generalità degli avvenimenti che lo toccano da vicino, e che non sono, e non possono essere, di natura privata e psicologica, poiché rientrano in pieno nella dimensione della storicità dal momento che forniscono risposte ai diversi quesiti posti dalla storiografia e riproposti dalla narrazione storica a dimostrazione dell'assunto più volte accennato circa la partecipazione meridionale alla lotta partigiana in posizione non defilata ma preminente ed evidente.

L'ANPI piacentina ha provveduto giustamente ad onorare il partigiano acese ed i suoi compagni di lotta ed a collocare inoltre il suo nome nel Museo Monumentale dei Martiri della Resistenza Piacentina, commemorandone solennemente la figura e l'eroismo in varie occasioni e celebrandone la memoria come non si è fatto forse nel suo paese natale. E questo dato è indicativo della cura nordica e dell'incuria meridionale, che si traduce poi nella falsa interpretazione storiografica di Chabod e nella comune convinzione di un Sud estraneo alla lotta di liberazione, nonostante la massiccia presenza di targhe e lapidi commemorative disseminate lungo i percorsi settentrionali della Resistenza armata e dedicate ai partigiani meridionali caduti in battaglia. Il legame che allora si teorizzò tra popolazione e partigiani in armi fece pendere la bilancia dalla parte del Nord ed escluse ingiustamente il Sud dalla partecipazione alla guerra di liberazione. Ma la storia alla lunga fa giustizia e rimette in equilibrio la realtà delle vicende umane, pure nell'insufficienza degli elementi evocativi e delle istanze celebrative. La verità si afferma anche quando gli uomini non sanno curare il proprio patrimonio morale, culturale e ideale.

Io non smetterò mai di apprezzare immensamente coloro che hanno voluto riportare alla luce la verità delle cose e degli uomini e che si sono legati onestamente a quelle vicende lontane rendendole vicine, appassionanti e significative, , e ancora capaci di suscitare emozioni e sprigionare revisioni e riconsiderazioni del processo storico che portò alla liberazione nazionale. I miei ricordi giovanili mi inducono a risentire ancora mentalmente la voce solenne e commossa di un cugino di Alfio Anastasi, Antonino (chiamato "Nino") Anastasi, un dignitoso e rigoroso impiegato nel Comune di Acireale che mi raccontava in termini piuttosto mitologici l'ultima battaglia e la morte orribile dell'Eroe, di cui non seppi altro e probabilmente non si seppe altro nel paese natale. Perciò il ringraziamento agli Organizzatori Piacentini delle commemorazioni e delle rivelazioni sul Partigiano acese deve essere davvero grande e sincero per le ragioni che ho tentato di dire e soprattutto per il fatto assai rilevante storiograficamente di avere svelato un Sud generoso donatore di sangue alla Resistenza armata, e attivamente partecipe di quella disarmata e della lotta di liberazione dell'Italia unita.

prof. Salvatore Ragonesi





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