Breve discorso sul 'Male' di Giuseppe Motta
Data: Domenica, 10 aprile 2016 ore 07:00:00 CEST Argomento: Redazione
Ne "i
fratelli Karamazof", Fëdor Dostoevskij fa raccontare ad Ivan la
leggenda del Santo Inquisitore, un racconto, fatto al fratello Aleksej,
sulla libertà e sulla seduzione del potere. Il grande Inquisitore parla
al Cristo tornato sulla terra nel XVI secolo ed imprigionato
dall'inquisizione. Egli spiega come il suo compito sia quello di
"liberare" gli uomini da quella "libertà" che il Cristo ha predicato e
che si è rivelata una zavorra troppo pesante da sostenere. La stessa
possibilità di scegliere tra bene e male si è rivelata un enorme
problema perché gli uomini hanno dimostrato di non essere in grado di
usare tale libertà nel modo giusto. Il racconto culmina nella frase del
Santo inquisitore che afferma: "... E
tutti saranno felici, milioni di esseri, salvo i condottieri. Giacché
noi soli, noi che custodiremo il segreto, noi soli saremo infelici".
Secondo l'interpretazione classica, il Grande Inquisitore vuol essere
la rappresentazione del male, mentre Cristo, ovviamente, è quella del
bene. In un interessante saggio di Franco Cassano, "l'umiltà del male",
il sociologo dà, invece, un'interpretazione molto più complessa del
racconto; egli, infatti, sostiene che quello descritto da Ivan,
attraverso la figura del Grande Inquisitore, è un male che conosce
profondamente la natura degli uomini e fonda il suo potere nella
capacità di coltivarne le debolezze. Nella partita contro il bene,
grazie alla sua "umiltà", cioè alla capacità di non ergersi mai a
censore della morale comune, il male parte sempre in vantaggio poiché
accetta la natura umana così come essa si manifesta, assecondandola e
potenziandone la fragilità. Se il bene incarna il dover essere, il male
rappresenta l'essere; perciò non richiede agli uomini impegnativi
percorsi di redenzione. L'attenzione del "male" per i più deboli non
deriva da un sentimento di solidarietà, ma dalla volontà di usare gli
uomini "per i propri disegni, di riprodurne la soggezione, di
mantenerli per sempre fanciulli e dipendenti da sé".
L'autore in un ulteriore approfondimento, nella riflessione sul
rapporto tra bene e male e su come esso venga vissuto dagli esseri
umani, cita l'analisi lucidissima e "scientifica" proposta a suo tempo
da Primo Levi nel romanzo "I sommersi e i salvati", là dove ci si
sofferma sulla cosiddetta "zona grigia" che, nell'inferno
dell'Olocausto, rendeva spesso confuso, nei comportamenti quotidiani
del campo di concentramento, il confine tra vittime e carnefici, tra
torturati e torturatori. La "zona grigia" non è tale solo perché le
figure dei persecutori e delle vittime si confondono, ma anche perché
questa sovrapposizione rende difficile la formulazione di un giudizio
su chiunque sia stato risucchiato al suo interno. Di fronte
all'Olocausto occorre mettere tra parentesi il giudizio. "Sospendere il giudizio sui
prigionieri-funzionari significa ... ricordare che quegli uomini
avevano il diritto ad una vita normale, l'unica che gli avrebbe
permesso di essere innocenti o colpevoli, esemplari umani ottimi o
pessimi, in quanto esseri liberi. Essi sono da sottrarre al giudizio
perché sono stati sottratti alla loro libertà".
Il male corrompe e confonde, cerca di inquinare le prove. Dichiarare la
propria incapacità di dare un giudizio non vuol dire abdicare al
giudizio stesso, ma al contrario evitare questa confusione. I deportati
avevano il diritto di "vivere la propria debolezza in condizioni
normali, mentre il male non solo l'ha dilatata con il terrore, ma l'ha
anche resa strumento dei suoi progetti e dei suoi incubi". "L'abiezione massima del nazionalsocialismo
sta proprio nell'aver ucciso l'anima delle vittime facendole diventare
carnefici a loro volta". Non a caso, sostiene l'autore, ad
uscire salvi dal lager sono stati spessi, paradossalmente, i reietti,
le anime peggiori. Quelle che, con il male, scendono a patti, perché il
ribelle, che è turbamento dell'ordine malefico ed insieme
concretizzazione di un bene possibile, è eliminato fisicamente,
tramutandosi da esempio in ammonimento. La chiave del testo è quindi
questa: una continua ricerca della soluzione giusta per combattere con
efficacia la brutalità del male, senza finirne tentati o, peggio,
schiacciati. Come Hanna Arendt, nel suo "la banalità del male", Cassano
riconosce che l'uomo medio si esonera dal proprio senso di colpa
perdendosi nella massa indistinta, cosicché in un regime totalitario
può giustificare se stesso nell'individuazione del tiranno quale capro
espiatorio, come Male Assoluto, vero e unico colpevole di ogni
nefandezza.
Ma è proprio la Arendt che fa un'acuta analisi delle interrelazioni fra
la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e
sbagliato, la facoltà di giudizio, e le loro implicazioni morali. La
filosofa ebrea si è, infatti, chiesta se la facoltà di pensare, nella
sua natura e nei suoi caratteri intrinseci, pone la possibilità
dell'alternativa di evitare di "fare il male". In questi casi fare il
male non sembra racchiudere gli standard classici del concetto di
"male", inteso come patologia, interesse personale, condanna ideologica
di chi lo fa. E' quindi fondamentale porsi la domanda se il fenomeno
del male abbia necessariamente una radice nel desiderio di farlo. La
Arendt afferma, assistendo al processo Eichmann, che si è sentita
scioccata "perché tutto questo
contraddice le nostre teorie di male", "...il male non è mai radicale,
ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una
dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo
perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida il pensiero,
perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare alle
radici e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova
nulla. Questa è la sua banalità... solo il bene ha profondità è può
essere integrale" (citazione da una lettera a Gershom Scholem).
Otto Adolf Eichmann, infatti, faceva semplicemente il "proprio dovere",
rispettava le leggi, le direttive dei superiori nel modo più efficiente
possibile. Egli entrò in un campo di concentramento solo una volta e si
sentì male per aver assistito alla fucilazione di un internato.
Non vide mai di persona le torture e le atrocità perpetrate dai nazisti
e, probabilmente, mai usò un minimo di violenza verso nessuno. "Il guaio del caso Eichmann era che uomini
come lui ce n'erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né
sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali".
Ma allora cos'è veramente il male?
(continua)
Giuseppe Motta
in anteprima l'introduzione del saggio dal titolo "Breve discorso sul
male" che sarà pubblicato a breve su giuseppemotta.it
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