Per tutti gli esclusi e i tagliati fuori
Data: Domenica, 13 marzo 2016 ore 05:00:00 CET Argomento: Redazione
Michela
Pedron, si occupa di pittura, fotografia ed installazione, classe
’80, vive e lavora tra Trento e Venezia, una docente ci racconta
la sua mostra in Giappone. Ho incontrato Michela, ad una riunione
presso il Liceo Rosmini di Trento, guardavo i suoi capelli e quel
taglio così disarmante, netto sul viso e lunghi dietro. Due realtà
distanti, corto e lungo, mi fermo nella forma e guardo nella sostanza:
un sinolo impeccabile. Mi viene in mente un ideale che si discosta
leggermente dai modelli tradizionali di estetica in Giappone che
è quello del “taglio” (切れ kire?) o “taglio-continuo” (切れ続き
kire-tsuzuki?).
Il “taglio” è un'importante metafora di base della scuola Rinzai del
Buddismo Zen, ed essa si riferisce all'essere “tagliati fuori” dalla
vita di tutti i giorni, nel senso di “rinuncia” all'oppressione del
superfluo. Il concetto di kire trova la sua espressione principalmente
nell'arte dell‘ikebana, dove la vita biologica del fiore viene
“tagliata fuori” per lasciare che si esprima la vera natura del fiore
stesso. L'ikebana inoltre dimostra a chi osserva l'opera che i fiori
non sono “oggetti” statici, ma che essi possono essere spostati e
tagliati a piacimento: tutto ciò serve a ricordare
all'osservatore che l'“impermanenza” è ovunque, in tutte le parti
dell'ambiente, e in particolare all'interno di se stessi. Il “taglio”
appare anche nel kireji (切れ字? “parola tagliata”), un termine usato per
una speciale categoria di vocaboli presenti in alcuni tipi di poesia
giapponese. Esso è usato soprattutto nella poesia haiku, quando
un'immagine viene “tagliata fuori” nello stesso tempo in cui si lega a
quella successiva.
Si accorge del mio sguardo, mentre penso alla mia metafora e
sorride. Ricambio, scopro un’artista e svelo l’arte che torna a
scuola. Poche battute e fra una lezione e un’altra ci prendiamo una
pausa. Ci raccontiamo la mobilità e la precarietà che contraddistingue
la nostra professione, in bilico fra la certezza della nostra presenza
in aula e la voglia di tradurre linguaggi incompresi.
Iscritta all’Accademia di Belle Arti di Venezia, si diploma nel
febbraio 2005 con il massimo dei voti.
Si specializza in Arti Visive e Discipline per lo Spettacolo ad
indirizzo Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia, nel 2006.
Mi racconta della sua evoluzione delle sue opere durante gli anni,
attraverso mezzi espressivi diversi, ma mantenendo sempre inalterato lo
spirito di osservazione: intrecciando realtà e banalità, cercando di
vedere oltre i luoghi comuni e dare nuovo significato a ciò che l’opera
porta alla luce
I lavori non sono mai singoli pezzi casuali, mi dice, ma più opere
raggruppabili in serie, cioè una volta sviluppata e resa un’opera ne
vengono prodotte altre con lo stesso criterio e con lo stesso ideale.
Questo processo diviene un’esigenza primaria poiché le varie serie
differiscono per materiali, tecniche e soggetti.
Nonostante ciò, osservando l’intera produzione di questi anni si
percepisce un filo conduttore che lega tra loro tutte le opere e ne fa
un insieme vario ma omogeneo.
Sulle ali
dell’oritsuru
Un’antica leggenda giapponese
racconta che chi riesce a piegare almeno mille gru di carta, secondo la
tecnica degli origami, potrà vedere esauditi i desideri e le preghiere
che ha nel cuore. Nella visione della Pedron, non mille gru ma una gru
mille volte grande che porta sul becco un segno indelebile, il sangue
dell’artista, e che assume un valore profondamente sacrale e sancisce
il suo legame, come un ponte, tra l’occidente e l’oriente.
Michela Pedron è sicuramente in grado di sintonizzarsi con il mondo.
Nelle sue opere sfila una parata di icone contemporanee composta da
elementi glamour, optical e new pop che si ispirano direttamente
all’immaginario.
Nel mondo della moda, del design, del cinema e della fiction
televisiva, si assiste oggi ad un rilancio: è il ritorno del rosa (vuoi
shocking, o più sommessamente pastello) unitamente ad un gusto
cromatico kitsch, un po’ retrò, ammiccante a quegli ultimi anni
cinquanta che avrebbero visto, di lì a poco, esplodere il fenomeno
mondiale della Pop Art.
Attuale in questo senso si può, dunque, dire l’opera di Michela Pedron,
attraverso il suo sito http://www.michelapedron.com/index.php,
che sconfina nelle dimensioni di un’arte sinestetica,
visivo-sensoriale, prediligendo cromatismi pop, superfici glossy,
brillanti, ritmate da morbide, avvolgenti interpolazioni di peluche
dalle forti connotazioni tattili, con profondi rimandi emotivi e
valenze epidermiche.
Il mondo che vanno rivelando i lavori di Michela Pedron è un mondo
marcatamente al femminile, ma smaliziato, non privo quindi di ironia ed
auto-ironia, in sintonia peraltro con l’opera di artiste a lei
contemporanee, come ad esempio, la ginevrina Silvie Fleury con i
suoi immensi missili “in partenza per Venere” ricoperti di morbida
pelliccia.
Michela Pedron ha saputo raccogliere indubbiamente le eredità
stilistiche tematiche di un Warhol, un Lichtenstein, un Klein,
sposandole però alle suggestioni-provocazioni dell’odierno e ammirato
Jeff Koons, senza rinunciare, con questo, ad una sensibilità autentica,
distintiva, ascrivibile ad un modo originale, personale di intendere
l’arte e di vedere il proprio ed altrui universo.
Vi sono, inoltre, una serie di “elementi disturbatori”,
riconducibili all’estetica del kitsch e ad una visione che trasforma
la realtà in prodotto e viceversa e non tralascia alcuni legami con
l’estetica multimediale: bicchieri di Pepsi cola, loghi e marche in
bella vista, pupazzetti di Hello Kitty, super eroi americani, inserti
di peluches, piume e oggetti di plastica raccolti dal quotidiano e
volontariamente decontestualizzati e posti in dialogo fra loro. Tutto
questo con una stretta e spesso irriverente connessione con la grande
tradizione dell’arte italiana: emergono così, come riaffiorassero dal
subconscio dell’artista, statuette del David di Michelangelo, gondole
veneziane, decorazioni mosaicate e altre icone del Bel Paese shakerate
però all’interno del calderone contemporaneo.
Il viaggio verso il Giappone, paese che presenta in molte sue
manifestazioni estetiche una marcata accezione pop, rappresenta per
l’artista coinvolta un metaforico ritorno alle origini, un viaggio a
ritroso verso un continente, che è stato la culla della cultura neopop.
E’ proprio in questa poliedricità di modi di agire, in questa libertà
di espressione sia tecnica che concettuale, nella possibilità di
ibridazione di linguaggi differenti, di interazione tra cultura alta e
cultura bassa, tra materiali nobili e materiali comuni, ma soprattutto,
in questo dichiarato spirito di sperimentazione che risiede e si
identifica il nucleo dell’eredità dada e duchampiana dell’artista.
Carmen Valentino
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