Lo sgabuzzino delle scope
Data: Mercoledì, 03 febbraio 2016 ore 03:30:00 CET
Argomento: Redazione


Si era nell'aprile del millenovecentosettanta. Avevo lasciato a Trento per qualche giorno i miei amici di via San Bernardino ed i miei allievi dell'ITI Buonarroti per recarmi a Padova. Un paio di mesi dopo essermi laureato, avendo saputo che sarei andato da lì a non molto ad insegnare a Trento, avevo indirizzato la mia domanda per sostenere gli esami di concorso (allora era praticamente tale) per conseguire l'abilitazione all'insegnamento di FSPP (filosofia, storia, pedagogia, psicologia) al Provveditore agli studi di Padova. Arrivato nel pomeriggio del giorno prima dell'esame scritto trovai subito una pensione al centro, non molto distante dall'Istituto femminile sede dell'esame (allora le scuole tecnico-professionali andavano per sesso). La mia prima ovvia preoccupazione fu quella di provare il percorso dalla pensione alla scuola, per non avere sorprese l'indomani sui tempi di percorrenza necessari per essere presente prima delle ore otto nella sede d'esame. Il percorso era agevole, anche se bisognava percorrere tre o quattro brevi tratti di strade diverse.

Grande fu però il mio disappunto all'alba dell'indomani nel constatare che una fitta nebbia, nonostante o forse proprio per il clima primaverile, invadeva la città, rendendo inutile così la passeggiata del giorno prima. Arrivai comunque al "femminile" Istituto, dove una folla urlante di avvocati (scoprii da lì a poco la loro professione) e di neolaureati come me si accalcava davanti ai cancelli chiusi. All'apertura di quelli si scatenò una corsa piuttosto convulsa verso varie direzioni all'interno della scuola, finché ci ritrovammo tutti in un grande salone a contenderci inspiegabilmente le sedie che stavano davanti a dei tavolinetti. Dopo parecchi minuti di attesa, finalmente vennero distribuite della grandi buste con dentro dei fogli bianchi e delle altre buste più piccole con dentro dei cartoncini che avrebbero assicurato l'assoluto anonimato del compito che ci accingevamo a svolgere.

Un signore molto sussiegoso, inviato dal Provveditore, ci impose silenzio e ci lesse delle asserzioni a carattere filosofico alcune, storico e pedagogico altre, che avremmo dovuto sviluppare (scegliendone una) in un testo adeguatamente lungo sul quale essere giudicati. Ma il silenzio imposto durò poco, anzi pochissimo, perché si levò alto un vocio convulso del quale dopo un poco riuscii a cogliere il contenuto. Era più o meno questo: "noi siamo già degli insegnanti, molti di noi avvocati, con lunga esperienza professionale e didattica, non accettiamo che alcuno ci dia lezioni di cultura e preparazione scolastica, ma visto che per continuare a lavorare ci richiedete un titolo di abilitazione, lo vogliamo tutti e subito, grazie alla nostra esperienza lavorativa a seguito della laurea conseguita".

Il signore che parlava a nome del Provveditore, dopo avere disperatamente ottenuto di nuovo un poco di silenzio, spiegò con un certo affanno e (mi è sembrato) una certa timidezza se non paura che quanto veniva richiesto non era assolutamente possibile. Cosa per me ovvia, visto che ancora non era operante per la scuola quello che poco dopo divenne l'ope legis. La controproposta della massa fu molto confusa, ma dopo essersi rapidamente formato un piccolo comitato rivoluzionario guidato da uno che assunse la funzione di leader, la richiesta fu più precisa: visto che un compito va comunque fatto aboliamo l'anonimato della prova e presentiamo un elaborato unico.

A seguito di un ulteriore diniego del funzionario la folla divenne piuttosto minacciosa al punto da indurre il suddetto funzionario, presto affiancato da altre poche persone ad intavolare una trattativa. Si rintracciò un telefono a gettoni e da lì sia il funzionario che il rappresentante dei candidati (termine a quel punto piuttosto improrprio) parlarono con il Provveditore agli studi. Questi declinò ogni responsabilità e li rimandò al Ministero che di fatto qualcuno riuscì a contattare telefonicamente. Ma dal Ministero negarono la loro competenza e rimandarono la palla al Provveditore locale. Nel frattempo era trascorsa buona parte della mattinata, mentre io in un angolo cercavo di prendere in considerazione i temi proposti, senza potere svolgerne alcuno in quel caos. Nel contempo sbirciando fuori dalle finestre mi resi conto che sotto in strada si stavano raccogliendo parecchie forze di polizia, il che mi creò subito una certa preoccupazione (conoscevo già dai fatti di Trento, in quei giorni, l'efficienza rude della polizia padovana).

Per farla breve ed evitare di sforzare la mia labile mente con ricordi così lontani, le lunghe trattative si conclusero verso mezzogiorno con la decisione (unilaterale) di formare dei gruppi di studio che avrebbero sviluppato i vari temi proposti. Pur cogliendo molto bene i rischi della evidente unilateralità della soluzione, mi offersi, contattando in qualche modo il leader, di sviluppare il tema che mi era più familiare, l'unico di cui ricordo qualcosa, che riguardava la filosofia della scienza ai suoi albori, con qualche riferimento implicito a Wittgenstein, Carnap, Morris e altri, argomenti che avevo ben approfondito nell'ultimo periodo universitario. Ma anche quell'improprio e precario accordo fu mandato a monte dalla folla vociante che tornò alla posizione iniziale della abilitazione per tutti, senza se e senza ma, come si direbbe oggi, comunque ope legis come si sarebbe detto da lì a poco.

Mentre la confusione più assoluta regnava nel salone, i funzionari aumentavano di numero, fuori sulla strada si accalcavano poliziotti, parenti dei candidati vocianti e qualche giornalista, mi accorsi che qualcuno furtivamente sgattoiolava fuori dalla grande sala. Trovandomi ancora in mano tutto l'occorrente per scrivere qualcosa sul tema proposto, mi allontanai anch'io alla ricerca di un angolo tranquillo. Fu così che essendomi accorto che si era formata una specie di ronda per impedire che qualcuno svolgesse il compito, mentre qualche altro (sicuramente funzionario) cercava di favorire il rimpiattino dei pochi, mi ritrovai in uno sgabuzzino pieno di scope ed altri arnesi di pulizia, fortunatamente fornito di luce elettrica, dove vicino ad una suorina che lì mi aveva preceduto, svolsi il mio compito appoggiandomi alla meno peggio sulle gambe piegate mentre sedevo non ricordo più su cosa.

Finito rapidamente di scrivere sei sette pagine di protocollo sul tema della filosofia della scienza (il mio standard abituale), consegnai l'occorrente ad uno dei funzionari che si faceva presente nei luoghi di noi fuggiaschi ed uscii fuori dall'Istituto, stanco ed affamato, quando era già il crepuscolo. Fuori mi accolse una piccola folla di persone in evidente stato di apprensione per quanto succedeva dentro. Avendoli rassicurati che non era successo nulla di grave e che le liti erano esclusivamente verbali, attraversai il gruppo di parenti e di poliziotti indenne, glissando la stampa e tornai rapidamente alla mia pensione e da lì, dopo un breve pasto, a Trento.

Seppi tempo dopo, da una comunicazione scritta piuttosto formale, che la commissione d'esame era stata sostituita e che ad una certa data avrei potuto sostenere il colloquio e tenere la mia lezione davanti alla nuova commissione.
Fu quello che feci, dopo avere ovviamente letto il saggio scritto dal nuovo presidente di commissione (un certo Laurenti) sulla filosofia antica.

Quando dopo l'esame mi recai al bar vicino per un caffé ritrovai i commissari, che mi erano sembrati tanto austeri e alquanto sospettosi, mentre si rifocillavano. Salutai garbatamente ed una gentile signora del gruppo mi si accostò seccata dicendomi: ma lei non ci ha nenache ringraziato perché le abbiamo dato il massimo". Mi scusai dicendo che non sapevo nemmeno che il voto che mi avevano assegnato era quello massimo consentito. Così risalutai e me ne tornai a casa da abilitato.

Ciò non impedì che continuassi per un altro anno ad insegnare lettere nei tecnici da supplente, dopo avere rifiutato l'incarico per insegnarle alla scuola media.

Roberto Laudani
robertolaudani@simail.it





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