Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato
Data: Lunedì, 18 gennaio 2016 ore 03:00:00 CET
Argomento: Redazione


"Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato". Perché Marco attribuisce a Gesù la pretesa che gli si debba credere, pena la dannazione? Un uomo che esercita il suo discernimento, fa onore a Dio per il dono che Dio gli ha fatto creandolo "a propria immagine", cioè provvisto di ragione. Se quest'uomo non si ritiene convinto dagli argomenti che i teologi chiamano di credibilità e di "credendità", neanche a Dio può essere permesso di condannarlo. Forse perché consapevole di questa difficoltà, S. Tommaso afferma che l'adesione alla fede scaturisce da un atto di volontà. Ma in questo "volontarismo" tomistico va vista una implicita ammissione di insufficienza degli argomenti razionali.

Se questi fossero davvero cogenti, non avrebbe alcun senso invocare un atto di volontà; nessuno ha mai deciso di credere al teorema di Pitagora con un atto di volontà. Dunque, perché il non-ancora-credente possa credere, occorre che egli decida di voler credere. Deve volere credere. Deve riuscire cioé in un'impresa che è di sovraumana difficoltà, se gli apostoli poterono dubitare perfino mentre assistevano alla ascensione del Risorto. Il credente dirà che l'adesione alla fede è meritoria proprio perché impegna la volontà, mentre non darebbe luogo a "meriti" se gli argomenti cui si è accennato sopra dovessero portare di necessità a credere, ma il non-credente vedrà solo contorcimenti logico-psicologici nel salto volontaristico che fa di un uomo che dubita un uomo che crede.

Ma al tempo di Gesù sarebbe stato possibile sottoporre il concetto di "fede" a una analisi come quella che qui stiamo tentando ? Certamente no, come dimostra il fatto che una tale analisi non è stata fatta. Perché non è stata fatta, se è così elementare ? Non è stata fatta perché questa analisi è figlia della razionalità di matrice greca, in nome della quale il dubbio è stato scoperto - in Grecia e non in Palestina - come indispensabile propulsore di ogni ricerca. Questa razionalità spinse Socrate a chiedersi cosa fosse il bene, il bello, il giusto e a scoprire l'ignoranza propria e di tutti.

Questa razionalità spinse Talete a postulare l'esistenza di un elemento unificatore, dal quale tutta la realtà avesse avuto origine, e a tentarne l'identificazione rinunciando alle comode scorciatoie offerte dalla religione e dal mito. Questa razionalità spinse Senofane a irridere alle divinità tradizionali, e Euclide a costruire tutto l'edificio della Geometria a partire da pochissimi assiomi, a mezzo di inattacabili argomenti logici; perfino un enunciato affatto intuitivo come "In ogni triangolo, ogni lato è minore della somma degli altri due" viene dimostrato da Euclide con il rigore che usa per ogni altro teorema. Noi europei affondiamo le nostre radici nella Grecia, siamo figli della Grecia molto piu' che della Palestina. Niente delle specificità dello spirito greco così brevemente delineate è presente nello spirito ebraico. I vasi d'argento offerti da Salomone al tempio erano larghi un braccio e avevano un giro di tre braccia.

Arrovellarsi a determinare le cifre decimali del numero pi greco o investigarne la natura (razionale ? irrazionale ?) è cosa alla quale nessun ebreo, in epoca biblica, si è mai dedicato. Se vogliamo sperare di comprendere come viveva la sua fede un pio ebreo di duemila anni fa, dobbiamo spogliarci di un abito mentale che ci siamo fatti a partire da Talete, che abbiamo arricchito con la sapienza giuridica dei romani e che si e' ulteriormente espresso con il metodo sperimentale di Galileo, il razionalismo di Cartesio, l'empirismo di Locke, l'Illuminismo di Voltaire, d'Alembert e Montesqieu, e il criticismo kantiano.

Tutta la nostra storia - ciò che Bertrand Russell chiama "la saggezza dell'Occidente" - ha portato la nostra spiritualità a divergere da quella ebraica (c'è stata la Scolastica, ma il tentativo di cristianizzare Aristotetele ha generato solo un ibrido indigeribile). Cosa è dunque il "credere" nell'ambito della spiritualità ebraica? Non è certamente il risultato di una elaborazione intellettuale ma è piuttosto una dichiarazione di fedeltà. La superficialità con la quale Matteo estrapola da Isaia (7,14) la celebre "profezia" della nascita dell'Emmanuel da una vergine (anche prescindendo dall'errata interpretazione del termine ebraico reso come "vergine") dimostra la poca considerazione nella quale l'argomentare logico era tenuto presso la comunità ebraica. Solo chi crede già puo' leggere nei tanti versetti che Matteo cita dalla Torah, dai Salmi e dai Profeti delle "profezie" riferibili a Gesù.

Che poi Pascal ponga le profezie dell'Antico Testamento tra gli argomenti che supportano la credibilità del cristianesimo dimostra solo quanto Pascal fosse contraddittorio. Dunque, al tempo di Gesù la fede non è intesa come adesione a una "verità" a cui giungere attraverso una disamina delle ragioni pro e contro, ma come adesione a un programma e - ancora di più - come fedeltà a un uomo; d'altro canto, il non-credere non e' considerato l'esito legittimo di una legittima ponderazione degli argomenti ma è equiparato a un tracotante, blasfemo rifiuto opposto alla divinità. Una societa culturalmente primitiva, qual è quella ebraica del primo secolo, non riuscendo infatti a concepire la possibilita' di determinarsi in ossequio alla sola propria coscienza, vede due sole posizioni che l'uomo puo' assumere riguardo a Dio: o con Dio o contro Dio. La durezza del Vangelo riguardo a chi non crede si comprende quindi alla luce dell'equiparazione di chi non crede a chi e' contro Dio.

Se qualcosa di corretto c'è in questo tentativo di capire cosa si intendesse per "fede" al tempo di Gesù, la conclusione è che questo concetto di fede non può essere fatto proprio dall'uomo contemporaneo. Secoli di travaglio hanno fatto emergere la dignità della terza posizione, quella di chi non trova argomenti decisivi per credere.
Bultmann ha cercato di rendere accettabile la fede all'uomo moderno depurando le Scritture di tutto ciò che va attribuito allo spirito del tempo in cui furono composte e enucleandone il "kèrigma". E' la "demitizzazione".
La minaccia di dannazione che Dio rivolge a chi non crede appartiene a quel repertorio di sovrastrutture mitologiche con le quali gli uomini hanno rivestito e talora hanno obliterato l'immagine di Dio.

Come le braccia e le gambe che la Scrittura attribuisce a Dio, anche le minacce a chi non crede vanno espunte dunque dall'immagine adulta di Dio che gli uomini del nostro secolo hanno pieno diritto di cercare - ed eventualmente di rifiutare - con piena e serena libertà di coscienza.

Maurizio Ternullo





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