Il partigiano acese Alfio Anastasi e la partecipazione del Sud alla guerra di liberazione. Per un necessario passaggio dalla memoria alla storia
Data: Sabato, 28 novembre 2015 ore 01:00:00 CET
Argomento: Redazione


Ho sempre rifiutato la narrazione dello storico valdostano Federico Chabod di un Sud tagliato fuori dalla lotta di liberazione nazionale e sottoposto ai peggiori condizionamenti sociali e culturali perché su di esso non soffiava prepotente da nessuna direzione "il vento del Nord", quello che rappresentava il progresso economico, la modernità democratica e costituzionale ed il più autentico antifascismo, quello che si sarebbe fermato ai confini meridionali della Toscana. Nel regno del Sud la Resistenza taceva, secondo lo storico, perché era avvenuta troppo presto l'invasione anglo-americana della notte del 9-10 luglio 1943 e non vi potevano germogliare le condizioni ideali e materiali di una opposizione armata e disarmata contro i nazifascisti: "Questo è il regno del Sud. Qui non troviamo, non possiamo trovare la Resistenza. Si costituiscono, è vero, dei Comitati di liberazione nazionale, ma essi sono ben diversi da quelli delle altre regioni; qui i comitati si formano quando ormai non c'è più nessuna lotta da condurre. Quelli del Nord invece combattono per due anni, molti dei loro membri rischiano continuamente la vita, e parecchi infatti la perdono; le popolazioni sanno che fra loro c'è un gruppo di uomini cui spetta il durissimo compito di guidare la lotta. In altre parole, ciò significa che sia dal punto di vista politico, sia da quello militare la popolazione del Mezzogiorno non può conoscere il fenomeno partigiano (le grandi giornate di Napoli sono un'eccezione che non muta la situazione generale). La lotta fra i partiti si svolge in modo, direi, pressoché normale, in condizioni relativamente favorevoli...
Ma è lotta di partiti, non guerra di resistenza" ( Federico Chabod, L'Italia contemporanea, Einaudi, Torino 1961, p.120).

Chabod è grandissimo storico dell'età moderna, ma sulla Resistenza a lui contemporanea gli sfuggono diversi elementi di giudizio ed in primo luogo il fatto che il Sud non poteva stare a guardare per evidenti ed inoppugnabili ragioni. Aveva visto bene, perciò, il Croce che riteneva la contemporaneità una categoria da trattare con molta prudenza e possibilmente con una certa distanza cronologica per evitare l'approccio meramente cronachistico e parziale. La storia possiede una maggiore credibilità rispetto alla cronaca per la completezza quantitativa delle informazioni e la migliore qualità dell'interpretazione e della ricostruzione degli avvenimenti,che devono essere fortemente e chiaramente documentati da una intellezione depositata in attestazioni certe e e verificabili.

Più volte ho rivelato la presenza della lotta di liberazione in Sicilia, in coincidenza dello sbarco alleato nell'Isola, e delle prime stragi nazifasciste nei paesi dell'Etna, e altrettante volte mi è capitato di apprezzare l'indimenticato Giorgio Bocca della Storia dell'Italia partigiana per i primi timidi accenni di grande significato volti a delineare la Resistenza nelle città del Sud, da Potenza a Matera e da Napoli a Cajazzo. L'insurrezione di Napoli non è stata l'unica nel Meridione, giacché altre ve ne furono in centri minori, come a Matera già il 21 settembre 1943 e in vari paesi dell'Irpinia, della Terra di Lavoro, del Molise e dell'Abruzzo: "In alcuni casi gli insorti, pur con perdite non lievi, riuscirono a cacciare i tedeschi prima dell'arrivo degli alleati; in altri le rivolte fallirono e le repressioni furono durissime, come avvenne a Lanciano tra il 4 e il 6 ottobre" (Giorgio Candeloro, Storia dell'Italia moderna. La Resistenza, Feltrinelli, Milano 2002, p. 231). E più volte ho parlato di militari meridionali "sbandati" dopo l'8 settembre che, non potendo ritornare nelle loro case lontane e non volendo aderire alla Repubblica Sociale di Salò, si diedero alla macchia e costruirono le prime postazioni resistenziali sui monti a ridosso delle grandi e piccole città del Centro-Nord, da Genova a Torino, da Milano a Udine, da Montepulciano a Pontremoli, ecc.

Questo fenomeno di iniziale resistenza spontanea affidata alle armi dei militari "sbandati", e soprattutto di quelli meridionali, non è stato adeguatamente analizzato, ma esso merita una particolare attenzione storiografica, come la meritano Cefalonia, i militari italiani massacrati,quelli dissidenti internati nei campi di concentramento in Germania e tutti quei religiosi che hanno accolto con grave rischio nelle loro parrocchie e nei loro conventi ebrei, antifascisti e partigiani. L'episodio dei monaci dell'abbazia di Farneta presso Lucca, deportati e racchiusi dai nazifascisti nel Castello "Malaspina" di Massa e fucilati il 16 settembre 1944 in luoghi periferici di questa città e distribuiti come tanti sacchi di patate lungo il percorso e successivamente raccolti da mani pietose, collocati nelle Fosse del Frigido segnalate poi da un'altissima e artistica colonna commemorativa, non può essere trascurato o minimizzato e sollecita una diversa visione e ricostruzione storiografica distante e quasi estranea ai vecchi schemi pur decorosi ed austeri della Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia. Così per il Sud e la sua chiara, decisa e indiscutibile partecipazione alla guerra di liberazione nazionale.

Le prime azioni di guerra partigiana quasi dovunque, nell'Italia del Centro-Nord sono state compiute da giovani militari meridionali "sbandati" dopo l'8 settembre 1943 e nascosti tra i monti ed i boschi dell'Appennino e delle Alpi. Alfio Anastasi era uno di questi. Egli era nato ad Acireale in provincia di Catania il 2 febbraio 1914 e dopo l'8 settembre salì in montagna, sull'Appennino piacentino, in direzione di Cicogni nel Comune di Pecorara sul Monte Mosso e divenne un consapevole, attivo ed eroico partigiano del Corpo Volontari della Libertà. Ed in tale posizione, con i suoi compagni, si oppose al nazifascismo ed ai reparti armati della famigerata divisione Turkestan composta da fanatici nazisti e fascisti, tutti in uniforme di combattimento, ben armati e sostenuti da pesanti mezzi corazzati. Egli combattè valorosamente fino alla morte che lo colse a Fontanella di Cicogni nel Comune di Pecorara durante una sua permanenza abituale presso la famiglia Pozzi, a seguito di una spiata e di feroce rastrellamento nemico con accerchiamento della cascina in cui si trovava. Il partigiano acese cadde, ferito mortalmente sotto i colpi del nemico e in quel luogo spicca la lapide che lo riguarda. La sua biografia è perciò importante se esplorata nella sua completezza e nei rapporti con la generalità degli avvenimenti che lo toccano da vicino, ma che non sono, e non possono essere, di natura privata e psicologica, poiché rientrano in pieno nella dimensione della storicità, nella storia autentica dell'opera, dell'azione, delle idee, della formazione dell'uomo e delle circostanze e necessità della sua rivolta intellettuale e morale nel momento decisivo della scelta dopo l'8 settembre.

L'ANPI piacentina ha provveduto giustamente ad onorare il partigiano acese ed i suoi compagni di lotta ed a collocare inoltre il suo nome nel Museo Monumentale dei Martiri della Resistenza Piacentina ed a commemorarne solennemente la figura e l'eroismo in varie occasioni ed a celebrarne la memoria come non si è fatto forse nel suo paese natale. E questo dato è indicativo della cura nordica e dell'incuria meridionale, che si traduce poi nella interpretazione storiografica di Chabod e nella comune convinzione di un Sud estraneo alla lotta di liberazione, nonostante la massiccia presenza di targhe e lapidi commemorative disseminate lungo i percorsi settentrionali della Resistenza armata e dedicate ai partigiani meridionali caduti in battaglia o fatti prigionieri dai nazifascisti e quindi trucidati e fucilati. Il legame che allora si teorizzò tra popolazione e partigiani in armi fece pendere la bilancia dalla parte del Nord ed escluse ingiustamente il Sud dalla partecipazione alla guerra di liberazione. Ma la storia alla lunga fa giustizia e rimette in equilibrio la realtà delle vicende umane, pure nell'insufficienza degli elementi evocativi e delle istanze celebrative. La verità si afferma anche quando gli uomini non sanno curare adeguatamente il proprio patrimonio morale, culturale e ideale.

Io posso solo apprezzare coloro che hanno voluto riportare alla luce la verità delle cose e degli uomini e che si sono legati organicamente e onestamente a quelle vicende lontane rendendole vicine, appassionanti e significative, e ancora capaci di suscitare emozioni e sprigionare revisioni e riconsiderazioni del processo storico che portò alla liberazione nazionale. I miei ricordi giovanili mi inducono a risentire ancora mentalmente la voce suadente e commossa di un cugino di Alfio Anastasi, Antonino (chiamato "Nino") Anastasi, un dignitoso e rigoroso impiegato nel Comune di Acireale che mi raccontava in termini piuttosto fantasiosi l'ultima battaglia e la morte orribile dell'Eroe, di cui non seppi altro e probabilmente non si seppe altro nel paese natale. Perciò l'apprezzamento agli Organizzatori Piacentini delle commemorazioni e delle rivelazioni sul Partigiano acese è davvero grande e sincero, anche se non è stato possibile a tutt'oggi ricostruirne la biografia completa, cioè possedere e sistemare la totalità delle informazioni fin dagli anni giovanili prima e dopo l'arruolamento militare. Ma esistono adesso le condizioni della buona ricostruzione biografica, cioè di quella biografia che non è semplice psicologia e che permetta di esprimere un giudizio preciso sulle azioni compiute, perché egli è vissuto per l'azione. E si sono determinate pure le profonde motivazioni della ulteriore ricerca storiografica sul Sud generoso donatore di sangue alla Resistenza armata, a quella disarmata ed alla libertà dell'Italia.

prof. Salvatore Ragonesi





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