Che ti portarono quest’anno i Morti? - Il giorno dei morti. Camilleri
Data: Domenica, 01 novembre 2015 ore 03:30:00 CET Argomento: Redazione
Fino
al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre,
ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a
lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di
catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si
vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo
sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a
regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi
nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un
cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano
in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e
di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio. Eccitati,
sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri
morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una
carezza, si calavano a pigliare il cesto.
Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca.
Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e
perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano
a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più
riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè
una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di
latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che
formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente
supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano
e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.
I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e
dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele,
“mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù,
carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere
raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima
ballerina in un passo di danza.
A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine,
andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i
morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli
per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?».
Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età
precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti
alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il
manubrio di uno sparluccicante triciclo.
Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano
fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine.
Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale
e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li
portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo
spàsimo, i figli o i figli dei figli.
Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano,
materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella
di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci
hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può
indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così
diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla
morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha
disimparato a servire.
da Racconti quotidiani di Andrea
Cammilleri
|
|