Un futuro di perplessità ...
Data: Mercoledì, 13 maggio 2015 ore 01:00:00 CEST
Argomento: Redazione


Appartengo ad una generazione, forse l'ultima, che ha avuto il privilegio di prefigurare in giovinezza il futuro come sviluppo senza fine, come accumulazione di benessere, come arricchimento sociale e civile. Avevamo molto meno cose di quante ne abbiano oggi i giovani, ma ci si teneva alto il morale con la speranza di una vita migliore. Molto tardi questa generazione ha cominciato a capire che i propri figli sarebbero stati i primi nella recente e nella lontana storia a non potere avere tutto quello che avevano avuto i loro genitori. Anche se più istruiti; anche se più preparati.
Appartengo ad una generazione che ha ricevuto tanto, che ha goduto parecchio, ma che lascia poco agli altri che verranno.

Ho visto popolare i paesi di macchine, il mondo di mostruosi ordigni; il cielo di missili e di astronavi; le case di radio, di tv, di telefoni, di elettrodomestici; i territori di fabbriche. Ho visto trasformare il modo di vivere, di lavorare, i rapporti umani, i rapporti familiari. L'ebbrezza del cambiamento aveva contagiato il modo di pensare, di porsi di fronte al mondo. Tutto ciò che apparteneva al passato e voleva ancora appartenerci veniva considerato con fastidio.

Appartengo ad una generazione che aveva ancora una propria terra e una propria città, prima di entrare a fare parte del villaggio-mondo. E anche questa era una fortuna... a nostra insaputa.
In Italia la trasformazione da società rurale in società industriale e post-moderna si è compiuta nel ciclo di vita di lavoro di quelli che sono nati dopo la guerra. Un cambiamento rapido, impetuoso, che ha fatto la sue vittime, perché non tutti erano preparati ad accettarlo e a poterlo assimilare. Non tutti avevano gli strumenti per farlo in così breve tempo. Tutto ciò per moltissime persone ha comportato un cambiamento di status sociale e di collocazione geografica senza pari nella storia nazionale; per milioni di persone è arrivato il benessere, l'uscita dalla precarietà, dalla fame, dall'ignoranza. Ma anche lo sradicamento, la solitudine.
Siamo stati, quelli della mia generazione, dentro una colossale, biblica mobilità sociale verso l'alto; di crescita.

Oggi, quando osservo i giovani e penso al loro futuro vengo preso dallo sconforto; mi chiedo a che cosa siano serviti il mio impegno nel lavoro, se non siano state una colossale impostura la scuola e l'università di massa. Mi pare che così gaudenti e spendaccioni non vogliano prendere atto di quello che sta succedendo e della sorte che riserverà loro il futuro. Le fabbriche chiudono o delocalizzano; la pubblica amministrazione non assume, il settore dei servizi in continuo e stressante cambiamento propone lavori precari e mal pagati, lo spostamento dell'età pensionabile impedisce l'ingresso delle nuove generazioni nel mondo del lavoro.Si prolunga a sproposito la loro condizione giovanile.

Si comincia a dubitare che ci siano ancora margini di sviluppo, quantitativo o qualitativo che sia. Non solo è più difficile salire; è diventato più facile scendere in una società patrimonializzata, dove sono tornati a contare il conto in banca e il certificato di famiglia, le case e i terreni di proprietà.
Si può tornare indietro: questo è il problema e le istituzioni sono governate da persone inadeguate per il compito di restituire la speranza di un dignitoso futuro alle nuove generazioni.
Il futuro non propone sicurezze, ma perplessità.

prof. Raimondo Giunta





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