Il recupero della collegialità nella scuola. Per una ridefinizione della dirigenza scolastica
Data: Venerdì, 08 maggio 2015 ore 08:30:00 CEST
Argomento: Redazione


Il vivace dibattito di questi giorni sui pericoli che possono derivare dal rafforzamento dei poteri dirigenziali sollecita le mie considerazioni come quelle di ogni cittadino attento a ciò che accade nella comunità nazionale e sempre piuttosto prudente nell'esprimere una propria opinione sulla qualità delle proposte formulate dai protagonisti di turno e sulla bontà delle decisioni governative. In questo caso, dopo aver difeso la posizione per alcuni versi decisionista di Matteo Renzi, mi dispiace di dover rilevare una caduta di stile e di capacità intuitive del Presidente del Consiglio, sul quale avevo riposto inizialmente la mia fiducia. Non credevo che, disponendo ormai di tutte le "buone" informazioni sul funzionamento del sistema scolastico italiano, e sui suoi autentici obiettivi civili e formativi, si sarebbe poi prestato ad accogliere le antiche proposte che sembravano ormai obsolete in seguito alle puntuali e dure osservazioni pedagogiche, didattiche e culturali dei presidi della mia generazione ai politici suoi predecessori, a coloro cioè che, senza conoscere dall'interno la realtà, avevano voluto introdurre caparbiamente e teorizzare a più riprese il criterio della dirigenza come rimedio ai mali della "vecchia" scuola gentiliana, ma più ancora e con molta probabilità come spazio vitale su cui edificare, esercitare e potenziare le fortune postume del far politica.

La memoria perciò corre precipitosamente a quei tempi in cui si è acceso quel dibattito interno che ha impedito il dispiegamento completo della dirigenza scolastica e della sua assimilazione alla dirigenza statale e il totale svilimento culturale e pedagogico della scuola pubblica, anche se non ha potuto cancellare purtroppo la parziale aziendalizzazione dell'istituzione scolastica e la formalizzazione astratta della centralità imprenditoriale del dirigente. Si è potuto impedire soltanto che il dirigente scolastico potesse provenire dall'esterno, ma non si é potuto evitare che questa figura si allungasse lungo tutto l'arco del sistema scolastico,dalle materne ai licei, e allentasse i suoi legami con la formazione di base, gli studi compiuti, l'esperienza acquisita e le competenze dimostrate lungo il percorso e nei concorsi affrontati e superati di fronte a commissioni nazionali.

La dirigenza bassaniniana non ha trovato così la completa realizzazione, ed è stata una sconfitta provvisoria per il ceto politico abbarbicato al potere qualunque sia la sua origine ed il luogo della sua manifestazione, ma in compenso ha trovato il suo conforto nella carta legislativa in collegamento organico al tema dell'autonomia: "L'autonomia delle istituzioni scolastiche e degli istituti educativi si inserisce nel processo di realizzazione della autonomia eddella riorganizzazione del sistema formativo. Ai fini della realizzazione della autonomia delle istituzioni scolastiche le funzioni dell'Amministrazione centrale e periferica della pubblica istruzione in materia di gestione del servizio di istruzione, fermi restando i livelli unitari e nazionali di fruizione del diritto allo studio nonché gli elementi comuni all'intero sistema scolastico pubblico in materia di gestione e programmazione definiti dallo Stato, sono progressivamente attribuite alle istituzioni scolastiche, attuando a tal fine anche l'estensione ai circoli didattici,alle scuole medie,alle scuole e agli istituti di istruzione secondaria della personalità giuridica degli istituti tecnici e professionali e degli istituti d'arte ed ampliando l'autonomia per tutte le tipologie degli istituti d'istruzione,anche in deroga alle norme vigenti in materia di contabilità dello Stato" (art. 21 della Legge 15 marzo 1997, n. 59). E lo stesso articolo di legge al comma 16 conferisce la qualifica dirigenziale ai presidi e direttori didattici: "Nel rispetto del principio della libertà d'insegnamento e in connessione con l'individuazione di nuove figure professionali del personale docente, ferma restando l'unicità della funzione, ai capi d'istituto è conferita la qualifica dirigenziale contestualmente all'acquisto della personalità giuridica e dell'autonomia da parte delle singole istituzioni scolastiche. I contenuti e le specificità della qualifica dirigenziale sono individuati con decreto legislativo integrativo delle disposizioni del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n.29". Infatti, l'art. 3 di questo Decreto attribuisce alla dirigenza la responsabilità relativa al conseguimento dei risultati e all'efficienza ed efficacia della gestione finanziaria,tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa , di organizzazione delle risorse umane e di controllo. Qui sta il seme malefico dell'ambiguità e dello smantellamento dell'ordinamento nazionale della pubblica istruzione che ha prodotto allora le prime contestazioni inavvertite dai media tra i presidi non disposti a trasformarsi in dirigenti e che oggi finalmente fa fecondare gemme più consistenti di antipresidenzialismo contro tutti coloro che si sono annidati nella dirigenza o vi hanno trovato il loro posto al sole e si sono circondati di vassalli, valvassini e valvassori. E hanno giocato con una pseudo-burocrazia scolastica fatta di piccole figure che sempre vivono ai margini dell'attività didattica, in posizione defilata, ma che sempre sono in attesa di scalare il potere e alimentano i sogni dirigenziali e soffiano potentemente verso quella notte hegeliana in cui tutte le vacche sono nere. Non è dunque il timore di essere valutati dal super-dirigente che preoccupa i docenti,ma il terrore di essere svalutati da chi non ha competenza didattica e disciplinare. E vive di favoritismi e si circonda di mediocrità. La legge 30 luglio 1973, n.477,aveva ben definito i nuovi organi collegiali, riordinato quelli esistenti e rimesso in auge il sistema valutativo dei docenti attraverso l'istituzione del Comitato di valutazione,un organo democratico eletto dal Collegio,presieduto e coordinato dal capo d'istituto e incaricato di compilare la valutazione del servizio degli insegnanti. Bisognava riattivarlo e farlo funzionare seriamente quest'organo, anziché declassarlo e annichilirlo.

Non v'è dubbio che quella proposta da Renzi non è una vera riforma, poiché si tratta invece di un provvedimento che si riduce ad alcuni aspetti marginali e già in atto: l'aumento del numero degli insegnanti da assumere a tempo indeterminato, l'arricchimento stipendiale con alcuni bonus, la reintroduzione della valutazione dei docenti, il forte accentramento dei poteri nelle mani del dirigente scolastico,ecc. Riforma e controriforma insieme al potenziamento dell'autonomia, che come per le regioni ed i comuni servirà a spappolare del tutto ciò che resta del sistema scolastico faticosamente costruito dall'Unità in poi. Sarebbe stato più serio parlare del nuovo reclutamento per l'immediato e dei criteri "nazionali" di assunzione dei docenti e dei presidi per il futuro prossimo, e della loro preparazione in funzione degli obiettivi formativi da realizzare nella scuola di ogni ordine e grado. E lasciare perdere la riforma, che è cosa troppo impegnativa e complicata per un Parlamento di nominati dai partiti e dai loro capi. Meglio sarebbe rinunciarvi e rinviarla ad altra circostanza, con criteri totalmente difformi da quelli presentati da Renzi, dei quali egli non porta intera la responsabilità, giacché, come si è visto, la colpa risale lontano nel tempo ai padri dell'autonomismo e del titolo V della Costituzione. Nessuno perciò si scandalizzi più di tanto .

Per il momento si lasci che il Collegio dei docenti venga chiamato a deliberare sulla globalità della programmazione educativa e didattica, tracciando il quadro d'insieme delle attività scolastiche e indicando obiettivi generali e finali, che il Consiglio d'istituto e la Giunta esecutiva svolgano le loro funzioni soprattutto in relazione all'approvazione dei bilanci e all'organizzazione e alla programmazione del calendario scolastico e delle attività che richiedono investimenti finanziari e che i Consigli di classe, di carattere più specifico, siano chiamati a realizzare una programmazione didattica con tempi più contratti e obiettivi più ravvicinati ed immediati e con un coordinamento interdisciplinare più puntuale; ma sia l'uno che gli altri sono destinati a non poter funzionare se non vengono sistematicamente sollecitati e attivati per focalizzare le varie questioni ed esprimere pienamente le loro potenzialità deliberanti. Non è un male se l'attività didattica e culturale assuma i connotati della programmazione interdisciplinare e collegiale. La collegialità sta nell'atto di nascita dell'ordinamento scolastico italiano. Già con la riforma del 1923 di Giovanni Gentile, di Giuseppe Lombardo Radice,di Ernesto Codignola e di altri validi pedagogisti e uomini di cultura e di scuola si è potuto procedere oltre l'autoritarismo dell'epoca e proporre un ordinamento scolastico non indecente, con poteri effettivi nelle mani degli organi collegiali e con la garanzia della libertà d'insegnamento affidata ai singoli docenti.

Questo è in fondo il problema attuale:il deperimento degli organi collegiali rimossi o emarginati da una concezione inutilmente decisionista e più ancora da una prassi mestamente manageriale. Non si è avuto il coraggio di sopprimere sulla carta il vecchio stato giuridico che tutelava libertà individuale del docente e collegialità dell'azione didattica, però in realtà esso è stato sconquassato da una serie di sovrapposizioni legislative e amministrative che hanno fatto assumere in questi anni una posizione extradidattica al capo d'istituto, svuotandolo della sua funzione di promozione e di coordinamento delle attività della scuola e staccandolo brutalmente dal vivo della processualità pedagogica e culturale, e ponendolo in una triste condizione d'isolamento didattico.
Il dirigente scolastico, conquistando un falso potere manageriale, ha perduto tuttavia autorevolezza didattica e inevitabilmente è diventato incapace di conoscere e soddisfare le vere esigenze dell'apprendimento,costretto ad occuparsi di molte altre cose,tranne che della guida concreta e attiva dell'istruzione e dei processi educativi e cognitivi degli studenti. La sua fatica è notevolmente aumentata in direzione di obiettivi accessori rispetto alla didattica quotidiana e al necessario rafforzamento dei contenuti del sapere e della produzione e distribuzione di cultura. Egli, proprio in questo senso, ha lasciato sul campo il suo carisma pedagogico,senza poter più rappresentare una leadership efficace e sicura nel miglioramento costante dell'insegnamento e nel funzionamento ininterrotto di quella collegialità che era quanto di meglio avesse elaborato la scuola nazionale.

Le regole sono cambiate con l'istituzione di una dirigenza scolastica di tipo amministrativo, in contrasto poco dialettico con la funzione docente e con le tradizionali istanze di collegialità. L'autonomia si è trasformata nel frattempo in anarchia con il venir meno del principio organizzatorio complessivo che un tempo richiamava la presenza didattica e coordinatrice del capo d'istituto. Gli "autonomi" poteri di direzione hanno non solo deformato l'antica e prestigiosa figura del preside, ma hanno anche prodotto lo sbriciolamento di tutta l'organizzazione, come hanno dovuto alla fine riconoscere i più acuti sostenitori dell'autonomia, a cominciare da Piero Romei che qualche anno fa, prima dell'improvvisa scomparsa, si era accorto che la scuola sarebbe andata alla deriva senza una sostanziale collegialità gestionale e organizzativa esclusivamente finalizzata alla produzione effettiva di formazione e di cultura.

Si sono allentati i vincoli istituzionali e principalmente quei doveri di vigilanza didattica che un tempo servivano a tutelare sia l'interesse collettivo che le buone pratiche pedagogiche, e le recenti proteste mostrano chiaramente che ogni insegnante tende a sopravvivere nella sua autarchia, facendo da sé come può, mentre non sta più al suo posto di trincea, incolpevolmente, colui al quale lo stato giuridico affidava compiti "specifici" che connotavano la sua professionalità e la sua dignità. E le scuole rimangono adesso prive della loro principale figura di riferimento,anche se presentano molte figure di sistema distribuite in molteplici articolazioni di funzioni amministrativo-gestionali e didattico-strumentali. Manca, appunto, la collegialità del coordinamento, cioè un indirizzo che maturi nella comunità e che sappia recuperare lo spirito della democrazia scolastica,di cui il vecchio preside era garante. Bisogna allora immettere subito il preside - dirigente entro il sistema della comunicazione culturale e didattica e ricollocarlo nel dialogo disciplinare là dove si parla di scuola e si fa scuola, anziché amministrazione e gestione delle risorse umane e finanziarie che è bene rimangano nelle mani del Direttore amministrativo e dei suoi organi. Questo deve capire Matteo Renzi, se vuole ancora mantenere un certo consenso, fare cosa utile alla comunità nazionale e invertire una rotta che porta pericolosamente alla distruzione di una tra le istituzioni più nobili e prestigiose del nostro Paese.

prof. Salvatore Ragonesi
salvatoreragonesi@hotmail.com





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