Il marxismo di Antonio Gramsci come storicismo 'assoluto'. Per una rilettura critica dei 'Quaderni del carcere'
Data: Domenica, 22 marzo 2015 ore 07:45:00 CET Argomento: Redazione
L'articolo
"Gramsci il totalitario" del
sociologo Alessandro Orsini
sembrava aver travolto d'un colpo l'idea che avevamo faticosamente
acquisito in epoca difficile di un Gramsci in carcere democratico e
liberale, per nulla intimidito nel voler seguire le orme dello
storicismo crociano. Ma quello di Orsini era soltanto un ulteriore e
maldestro tentativo di rappresentare il comunista sardo con il
metodo più semplice e disinvolto che era (ed è) è quello di prendere
alcune espressioni, di isolarle e di costruirvi una narrazione di
comodo e quindi di trasformare Gramsci in un teorizzatore e predicatore
dell'intolleranza:"Il mio libro,frutto di un lavoro di scavo durato un
decennio,contiene un'ampia documentazione a sostegno della tesi che
Gramsci fu un teorico della pedagogia dell'intolleranza" (A. Orsini
"Gramsci il totalitario", sul
settimanale "Sette" del 26
aprile 2012,
p.67). Il lavoro di scavo può durare un ventennio, anziché un decennio,
ma se non si riesce ad usare una competenza di filologia in fatto di
storia della filosofia e ad esprimere una conoscenza completa del
personaggio, della sua opera e del suo tempo per un approccio
realistico e veritiero, allora gli anni trascorsi ad estrapolare brani
giovanili diventano davvero improduttivi. E poi le fonti vanno usate
tutte, quelle favorevoli alla propria tesi e quelle contrarie, e la
documentazione deve seguire tutto il percorso esistenziale e
intellettuale del personaggio e non fermarsi a tratteggiare un solo
momento del primo Gramsci giornalista dalla penna aggressiva e
avvelenata, come appunto capita per lo più ai giovani dotati di forte
spirito antitetico.
Tutto ciò va detto se si vuole intendere seriamente la faticosa
formazione del pensiero di Gramsci, dagli anni adolescenziali a quelli
torinesi ed a quelli del carcere, e la lenta acquisizione del suo
marxismo come storicismo a contatto soprattutto con gli scritti di
Benedetto Croce e con la sua posizione antipositivistica ed
antidogmatica che lo conduce gradualmente a leggere il materialismo
storico di Marx in termini metodologici,umanistici e antistalinisti, ed
a recuperare e valorizzare Kant, Hegel, Machiavelli, Cuoco, Labriola,
De Sanctis,ecc., più che Stalin, Lenin e tutto il pesante patrimonio
culturale del bolscevismo rivoluzionario. In quest'ottica egli può
affermare che il tradizionale atteggiamento passivo degli intellettuali
riformisti in attesa di eventi cruciali dovuti al funzionamento del
sistema capitalistico deve essere sostituito da una presa di coscienza
attiva e da un intreccio dialettico dei fattori,di cui quello
soggettivo sta in prima fila. Il suo marxismo matura così con lo studio
sistematico, graduale e profondo della storia italiana e della
filosofia moderna,e non nasce tutto armato come Minerva dalla testa di
Marx e di Lenin, né tanto meno di Stalin, ma conosce i dolori,le
fatiche e le ambiguità di una gestazione prolungata nel tempo e capace
perciò di recuperare gli elementi più fecondi della civiltà borghese e
del pensiero liberale. Per questa ragione quello che più conta
alla fine è il Gramsci in carcere,il Gramsci filosofo della
storia,della politica e della cultura, quel Gramsci che scrive "per
l'eternità" e non più per la contingenza politica o per il partito e
l'immediatezza della lotta proletaria.
Certo, è necessario ammettere onestamente che Gramsci non sfugge
all'ambiguità della sua stessa originalità, cioè al fatto di per sé
contraddittorio di lavorare su termini elaborati da altri autori (per
esempio da Labriola, da Croce o da Gentile) e di adoperare un
linguaggio del tutto funzionale a compiti completamente speculativi e
con valenza non strumentale. In carcere si verifica questa
difficoltà durante il lavoro di ricomposizione storiografica e
filosofica che si annuncia con il progetto di una ricerca "per
l'eternità" il 19 marzo 1927. Adesso il pensatore sardo rimette in
questione il linguaggio tradizionale del marxismo, si dice assillato
dal bisogno di fare qualcosa "per l'eternità", e perciò si dà un piano
di studio e di lavoro che lo renda attivo pur nella segregazione
carceraria imposta dal regime fascista con la sua detenzione. E non
esita a prendere spunti positivi per questo lavoro soprattutto da
un filosofo "revisionista" come Benedetto Croce che egli pone al centro
delle proprie riflessioni, sia pure criticamente: "Ho già accennato
alla grande importanza che il Croce assegna alla sua attività teorica
di revisionista e come, per sua stessa ammissione esplicita, tutto il
suo lavorìo di pensatore in questi ultimi venti anni sia stato guidato
dal fine di completare la revisione fino a farla diventare
liquidazione. Come revisionista egli ha contribuito a suscitare la
corrente della storia economico-giuridica [...] oggi ha dato forma
letteraria a quella storia che egli chiama etico-politica, di cui la
Storia d'Europa dovrebbe essere
e diventare il paradigma. In che
consiste l'innovazione portata da Croce, ha essa quel significato che
egli le attribuisce e specialmente ha quel valore liquidatore che egli
pretende?" (A. Gramsci, "Lettera a
Tania" del 2 maggio 1932, in "Lettere
dal carcere", II, Editrice l'Unità 1988, p.110).
Al di là del revisionismo più o meno crociano, Gramsci elabora dunque
le proprie idee all'interno dell'apparato concettuale di Croce che gli
fornisce parecchi stimoli filosofici e molte sollecitazioni alla
ricerca del nuovo ordine filosofico-linguistico-ideologico, a
cominciare dall'idea centrale dell'egemonia: "Si può dire concretamente
che il Croce, nell'attività storico-politica, fa battere l'accento
unicamente su quel momento che in politica si chiama dell'egemonia, del
consenso, della direzione culturale, per distinguerlo dal momento della
forza, della costrizione, dell'intervento legislativo e statale o
poliziesco. In verità non si capisce perché il Croce creda alla
capacità di questa sua impostazione della teoria della storia di
liquidare definitivamente ogni filosofia della praxis" (ibidem).
Gramsci sa benissimo come e perché Croce, a differenza di Gentile,
abbia cercato, sin dalla pubblicazione di "Materialismo storico ed
economia marxistica" del 1900, di "liquidare" una certa
filosofia della
praxis e abbia valorizzato del materialismo storico l'aspetto
metodologico per comprendere più a fondo la realtà storica (la vera ed
unica scienza è la storia,diceva Marx) e non abbia l'intenzione di
procedere al rovesciamento violento della società borghese per
instaurare il nuovo ordine proletario. Perciò egli rinuncia alla guerra
di movimento e si attesta crocianamente sulla guerra di posizione che è
quella per l'egemonìa, e nel 1932, al culmine di questa riflessione
sulla filosofia di Croce, dice che in fondo il filosofo napoletano ha
trasformato giustamente la filosofia della praxis in linguaggio
storicistico, dandogli però una veste speculativa che va opportunamente
reinterpretata con lo "storicismo realistico della filosofia
della praxis". La verità è che Gramsci accetta di Croce la teoria e
metodologia della storia e la coincidenza di storiografia e filosofia.
I ventinove "Quaderni del carcere"
regolari ed i quattro
"speciali" (di traduzione) nell'edizione critica einaudiana curata dal
grande studioso Valentino Gerratana costituiscono il prodotto più
elaborato e maturo di una tale convergenza. Ad essi bisogna
attingere per capire il Gramsci più sistematico che lavora per la
verità e per l'eternità.
Nel percorso non sempre lineare dei "Quaderni"
Gramsci ritrova se
stesso, spesso in totale contrasto con le proprie convinzioni
leniniste giovanili, ma in linea con le sue più autentiche intenzioni e
aspirazioni maturate forse già prima di entrare in carcere e ovviamente
rese più solide durante la detenzione carceraria. Anche nel documento
che può considerarsi il suo testamento politico, quello contenuto nel
"Rapporto" di Athos Lisa, nel
quale, sfidando tutti i dogmi della Terza
Internazionale, egli insiste sulla necessità di obiettivi politici
intermedi e sull'Assemblea Costituente nella lotta comune contro il
fascismo, si nota l'abbandono del "rovesciamento" rivoluzionario e
della praxis di marca marxista-leninista. E Gramsci subisce cocenti
tormenti per aver comunicato questa posizione ai suoi compagni di
prigione, e va incontro al proprio definitivo isolamento all'interno
dell'isolamento carcerario.
Non per nulla adesso è la riflessione intorno alla undicesima "Tesi su
Feuerbach" ad occupare un posto decisivo nell'itinerario di
Gramsci, che traduce e ritraduce nei suoi "Quaderni" complementari le
"Tesi" marxiane e ne deduce che
la praxis non può soppiantare la
teoria e che l'attività pratica di trasformazione del mondo non
può rinnegare lo strumento fondamentale della teoresi che rimane (e
deve rimanere) al suo posto a combattere la sua battaglia per la
continua comprensione ed interpretazione del mondo. Se mai,
crocianamente, egli può affermare l'identità di storia e filosofia in
una visione per la quale la filosofia non può essere semplice
sovrastruttura destinata a scomparire nella trasformazione storica del
mondo, ma espressione di storicità, di egemonia, strumento del
consenso e della capacità di direzione della società.
Gramsci riattiva il concetto di praxis, ma con una diversa impostazione
rispetto alle "Tesi su Feuerbach"
di Marx e con un riferimento molto
più puntuale a Croce: "Anche da questo punto di vista appare come il
Croce abbia saputo mettere bene a profitto il suo studio della
filosofia della praxis. Cosa è infatti la tesi crociana dell'identità
di filosofia e di storia se non un modo, il modo crociano, di
presentare lo stesso problema posto dalle glosse al Feuerbach e
confermato dall'Engels nel suo opuscolo su Feuerbach? Per Engels
la storia è pratica (l'esperimento, l'industria), per Croce la
storia è ancora un concetto speculativo; cioè Croce ha rifatto a
rovescio il cammino che dalla filosofia speculativa portava a una
filosofia concreta e storica, la filosofia della praxis; il Croce ha
ritradotto in linguaggio speculativo le acquisizioni progressive della
filosofia della praxis e in quella ritraduzione è il meglio del suo
pensiero" (A. Gramsci, "Quaderno 10",
in "Quaderni del carcere" a
cura
di V.Gerratana, secondo vol., p.1271). Insomma,come l'originario
materialismo storico di Marx è lo sviluppo dell'hegelismo, così la
moderna filosofia della praxis dev'essere lo sviluppo dello
storicismo crociano, dove la filosofia è il processo di
costruzione della verità storiografica. E la definizione del marxismo
come filosofia della praxis, a questo punto, appare necessariamente
trasformata in quella di marxismo come teoria della storia e
realizzazione della crociana concezione etico-politica.
Questa visione neo-crociana è molto distante dalla tradizionale
interpretazione marxista e altrettanto lontana da gretto pragmatismo
rivoluzionario del marxismo-leninismo. Quando Gramsci vuole ridefinire
il marxismo in termini di praxis altro non fa che riprendere il
linguaggio di Croce: " Né il monismo materialista né quello idealista,
né Materia né Spirito evidentemente, ma materialismo storico, cioè
attività dell'uomo(storia) in concreto,cioè applicata a una certa
materia organizzata (forze materiali di produzione), alla natura
trasformata dall'uomo. Filosofia dell'atto (praxis), ma non dell'atto
puro, ma proprio dell'atto cioè reale nel senso profano
della parola (A. Gramsci "Quaderno 4", in "Quaderni del Carcere", primo
vol., 455).
Il linguaggio gramsciano è quello tipico di Croce, ma lo è anche il
contenuto che definisce la praxis in termini di attività del soggetto e
che attribuisce alla soggettività umana un insieme di qualità e di
rapporti sintetizzati nell'ideologia. Questa diventa adesso lo
strumento con il quale l'uomo prende coscienza delle sue condizioni
esistenziali e della situazione storica. Fuori e al di là delle
ideologie non vi è nulla, tranne il fatto che esse possono avvicinarsi
alla verità con maggiore o minore misura. L'alternativa tra verità ed
errore è dunque possibile e la loro distanza non è data dal successo o
dall'insuccesso dell'azione rivoluzionaria, ma dalla presenza o
dall'assenza di qualcosa di stabilmente, fortemente e gnoseologicamente
costitutivo dell'idea. Perciò l'educazione intellettuale dell'uomo
diventa fattore decisivo, anche ai fini di una formazione della
coscienza politica non immediata, né facilmente influenzabile ed
impressionabile. In questo senso la praxis è individuata nell'agire
"ideologico" del soggetto, che a sua volta è un "blocco storico", cioè
unità organica di natura e spirito, sintesi di opposti e distinti,
intreccio di volontà, sentimento e intelligenza, blocco di "elementi
puramente individuali e soggettivi e di elementi di massa e oggettivi o
materiali coi quali l'individuo è in rapporto attivo" (A. Gramsci,
"Quaderno 10", in "Quaderni del carcere", cit.,secondo
vol.,p.1338).
L'attuale ripresa del dibattito sul pensiero e la vita di Gramsci
favorisce la permanenza delle "Lettere"
e dei "Quaderni" nelle
biblioteche in un momento in cui sembra perdersi ogni capacità e
volontà di lettura dei classici, che sono indiscutibilmente delle opere
non effimere, al di sopra di ogni rapporto con la storia assai
marginale della politica. E le "Lettere"
ed i "Quaderni"
contrassegnano un capitolo importante della storia della filosofia e
della cultura in Italia e in Europa. Bisogna essere grati in fondo a
quelli come Orsini che ci permettono di far valere la classicità delle
opere gramsciane, nonostante gli attacchi irrazionali e astratti. La
classicità di Gramsci impone sempre una seria reinterpretazione
dei suoi testi, e ciò ne favorisce la rilettura e la circolazione con
nuovi significati e rinnovate prospettive culturali e al di là delle
stesse miserevoli forzature dell'interpretazione marxista-leninista.
Per quanto mi riguarda ho già avuto modo nella metà degli anni Settanta
del Novecento di superare questa interpretazione con grande scandalo
dei vecchi militanti di partito e dei nuovi (v. S. Ragonesi, in AA.VV.,
"Egemonia Stato Partito in Gramsci",
Editori Riunitii, Roma 1977,
pp.206-211).
Certo è che lo storicismo gramsciano, da qualche studioso troppo
aristocratico considerato come un residuo di provincialismo filosofico,
riappare oggi arricchito di nuove implicazioni e sfumature perché
ripulito dei tanti elementi di strumentalismo politicistico. Una
interpretazione più adeguata ora non può non passare dalla critica a
Marx là dove questi sembra voler distruggere il processo della
storicità nella credenza della illusorietà delle sovrastrutture. In
questo senso allora lo storicismo gramsciano è revisionista e si
presenta fornito della strumentazione necessaria a criticare la
filosofia della praxis ed a comprendere la totalità del blocco
storico, che è un riflesso dialettico di quello individuale che
vede la compresenza dialettica di strutture e sovrastrutture, di
pensiero ed azione, di filosofia e storiografia, di etica e politica,
ecc. La filosofia della praxis si trasforma in storicismo critico
e permette il recupero del Marx migliore, quello dei "Manoscritti
economico-filosofici", della "Ideologia tedesca" e dello stesso
"Capitale", dove l'economico non assume più il ruolo tradizionale di
protagonista esclusivo, ma entra in relazione dialettica con tutti gli
altri fattori ideologici, e questi non recitano semplicemente la parte
dell'effimero marginale collocato in condizioni di estrema miseria non
suscettibile di vera azione e considerazione storica,e la lotta di
classe non occupa più tutto il campo della prassi umana e storica.
Gramsci ritrova dunque il "suo" Marx e soprattutto il "suo" Croce, con
il quale può affermare il carattere metodologico del materialismo
storico e la relatività di tutte le ideologie, e al tempo stesso la
loro
fondamentale importanza in quanto forme connaturate all'umano, e può
approdare con tutto il blocco di strutture e sovrastrutture al
suo storicismo che è una visione globale delle cose e non già una
loro semplice e immediata percezione o una loro rappresentazione
unilaterale e settaria, fatta e concepita per l'azione rivoluzionaria.
E qui si chiarisce che l'omaggio finale a Lenin non deve fuorviare.
Adesso tutto si gioca in casa, cioè nell'analisi della tradizione
storica italiana da Dante a Gentile e nel contrasto
dialettico di Umanesimo-Rinascimento-Riforma e nel confronto preminente
con il filosofo italiano più in vista negli anni Trenta,che è Benedetto
Croce, e con il suo linguaggio, dal quale Gramsci ricava
implicitamente e talvolta esplicitamente la visione non economicistica
e non pragmatica del materialismo storico, ovvero l'interpretazione né
statica né unilaterale del rapporto tra struttura economica e
sovrastrutture ideologiche. E queste non sono puri riflessi dei
rapporti materiali di produzione, il "Dio nascosto" che produce e
regola ogni processo sociale, intellettuale e politico, bensì fattori
indispensabili e costitutivi della storicità e della stessa
soggettività umana. Il comunismo è altra cosa: è un luogo lontano che
non può essere la Russia sovietica di Lenin e di Stalin. La cosa più
concreta e realistica è invece la scoperta dell'ideologia come luogo
della consapevolezza storica delle contraddizioni immanenti all'uomo ed
alla società e come forma della cultura capace di egemonia
intellettuale e politica e di civilizzazione.
prof. Salvatore Ragonesi
salvatoreragonesi@hotmail.com
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