La Funzione Docente: impiegato statale o crocerossina?
Data: Mercoledì, 04 marzo 2015 ore 10:00:00 CET Argomento: Redazione
La
scuola italiana è in eccitazione. Attende che il governo emani i
decreti attuativi per l’immissioni in ruolo di un cospicuo numero di
docenti precari. Di certo, si sa solo questo, che non si potranno
assumere tutti gli aventi diritto, e che, per l’ennesima volta, si farà
strame delle leggi attualmente in vigore: non tutti i precari, ma solo
coloro che hanno servizio e forse soltanto nella scuola pubblica.
Forse, l’immissioni in ruolo degli ultimi vincitori del concorso del
2012-13 non avverrà nelle regioni per le cui cattedre avevano
partecipato. Sono ancora troppi i dubbi - questo è chiaro, ma in Italia
i diritti acquisiti sono da sempre appannaggio di chi ha la fortuna di
appartenere ad una delle tante caste che hanno peso in questa nazione.
E, fra queste, non c’è quella del corpo docente.
La riforma, che l’attuale governo vorrebbe attuare entro il prossimo
settembre, non è una vera riforma. È una questione di lavoro, e non
della sua qualità. Da noi non c’è stata, negli ultimi anni, una
discussione generale su ciò che debba essere un docente. Francia e
Inghilterra si sono interrogate negli anni ’90, e ancora nei primi anni
di questo secolo, ma da noi dobbiamo risalire ai primissimi decenni del
XX per avere un dibattito esteso e propositivo, che culminerà nella
riforma di Giovanni Gentile. Poi, solo un continuo mutamento e una
troppo facile opera di demolizione di una forma di scuola, tarata non
tanto dalle intemperie storiche in cui fu partorita, quanto
dall’inevitabile mutare delle cose. Non è che la riforma Gentile, se
non fosse stata fatta da un idealista e sotto un altro regime che non
quello fascista, avrebbe comunque potuto resistere allo scorrere del
tempo. Semmai, la sicumera con la quale la si è pian piano demolita
(proprio a partire dall’indomani dell’approvazione, perché ritenuta
troppo rigida), ha nascosto il vero tarlo che rode l’attuale scuola
italiana: la funzione del docente.
Gentile sapeva che cosa dovesse essere e, conseguentemente, cosa
dovesse fare un docente. Discutibile – ma vi è opera o pensiero d’uomo
che non lo sia per principio? Non si tratterebbe di riproporre
quell’idea di docente, ma di interrogarsi su quale debba essere il
compito di una nuova generazioni di maestri. In realtà, è piuttosto
facile dimostrare che questa assenza ne denuncia una assai più
radicale. In tutti i suoi dialoghi, soprattutto nella Repubblica,
Platone non ha mai mancato al compito di indicare in che modo si
dovesse educare, abbozzando perfino un cursus studiorum per i
governanti della città. Ha potuto farlo, perché gli era chiara la
dimensione antropologica e quella politica dell’uomo. Se sai in cosa
consista la felicità, la pienezza d’essere di un uomo, e che in cosa
consista la virtù di un cittadino, allora sai anche come devi educarlo.
C’è una ecumene di linguaggio che è la prima base di ogni altra
discussione.
Gentile si ispirerà a Platone più di quanto non si sia disposti a
concedere. Ma il punto non è questo. È che ai tempi di Gentile si
discuteva su cosa insegnare, ma la funzione della scuola e quella del
docente non erano messi in discussione in nessun’altra pedagogia, si
trattasse anche di quella cattolica o di quella marxista. I momenti di
crisi furono soltanto due: il giuramento allo Stato, con annessa
riverenza al regime, e le leggi razziali. Ma, in fondo, il corpo
docente italiano non era diviso in sé, semmai fu diviso dalla politica:
fascisti, liberali, comunisti o cattolici che ci si professasse,
l’etica del docente era una, ed una la missione che ciascuno sentiva di
dover incarnare, quale che fosse, infine, il mondo a cui avrebbe dovuto
condurre il proprio operato.
Possiamo dire altrettanto dell’oggi? Al di là della nostra formazione
politica, non c’è dubbio che ci sentiamo innanzi tutto impiegati
statali. Bramiamo di esserlo. Le tre ‘storie’ della politica italiana –
marxismo, liberalismo, cattolicesimo – hanno finito per sottomettersi
alla straripante sicurezza che dona l’astratto – nel suo senso
filosofico - ente statale. E se i liberali hanno mancato l’appuntamento
con la storia – troppe le rivoluzioni liberali promesse e mai compiute
– interessante è la strana parabola dei marxisti e dei cattolici:
l’individuo per gli uni, la persona per gli altri avrebbe dovuto essere
il perno, e invece ha finito per cedere il posto non tanto alla classe
sociale o alla ecclesia, ma allo Stato nella sua immagine più borghese:
servizi, tasse, ecc.
Divenuto impiegato statale, il docente non si chiede più cosa debba
essere. Come potrebbe, del resto? Non abbiamo più un’ecumene in cui
navigare sicuri. Non abbiamo più gli stessi valori, le stesse speranze,
né qualcuno che ce ne proponga. Del nostro scetticismo, anzi, ne
abbiamo fatto una bandiera: non abbiamo più alcuna fede da trasmettere.
Solidarietà e libertà non dicono ancora nulla, perché lasciano inevase
domande di capitale importanza: cosa si intende con solidarietà e cosa
con libertà? E solidarietà con chi? Libertà per chi? E fino a che
punto?
Lo Stato, inoltre, non è più quello che si percepiva ai tempi di Croce,
di Gentile, di Gramsci, di Sturzo o nei primissimi anni della
Repubblica. Non è più uno spazio intersoggettivo nato nel tempo dalla
reciproca interazioni di individui. Infatti, non avendo più
un’esperienza condivisa, come potrebbe un ente astratto dirci cosa
dobbiamo credere e, di conseguenza, cosa insegnare? Non può. Si limita,
ormai, a chiedere il minimo.
La prima conseguenza di questa mancanza di un orizzonte comune è la
parità tra scuola di proprietà pubblica e quella di proprietà privata.
Solo una visione ideologica molto marcata può ancora impedirla. Di
fatto, sono venuti meno i presupposti storici perché si possa
continuare in questa anacronistica divisione. Il controllo
dell’insegnamento ha assolto il suo compito: lo Stato doveva
trasmettere valori, innanzi tutto i valori su sui si fondava. Al di là
del fatto che il mezzo per farlo, oggi, non è più la scuola ma i media,
quali valori lo Stato italiano dovrebbe volere che il suo corpo docente
trasmetta? Il giovane deve essere educato al rispetto della
Costituzione e delle leggi, e deve poter trovare un luogo in cui
sviluppare le proprie capacità attraverso determinate materie. Ma
questa è cosa assai diversa del modello ‘forte’ di scuola nato
nell’Ottocento, ed è sopratutto un modello di scuola che è già la
scuola paritaria. Inoltre, quando le cose funzionano davvero, la stessa
scuola pubblica mostra di non essere più tale, di non essere più una
scuola di Stato, perché è ormai un dato di fatto che il suo
funzionamento si basa sul sacrificio vero e proprio di dirigenti
scolastici, di docenti sottopagati che fanno anche più quanto spetti
loro, di famiglie che tinteggiano pareti e riforniscono di carta
igienica gli istituti (oltre che di carta per stampare, di gessetti per
scrivere, ecc). Lo Stato ha finito il suo compito di grande
pedagogo. E, se guardiamo agli eventi del secolo scorso, l’esperienza
si è conclusa in modo catastrofico. Presto o tardi, smetterà anche di
essere proprietario, e si tornerà agli individui, alle persone e alla
loro consociazione.
Non sappiamo cosa debba essere un docente, ma ciò non vuol dire che non
sappiamo più che farcene. Lo sappiamo bene, invece. In questi anni, la
funzione docente è divenuta surrogato di altre. Innanzi tutto, la
scuola e il suo corpo docente sono stati chiamati a supplire alle
deficienze della famiglia, divenendone, ad andar bene, un’appendice.
Così, però, l’esperienza dei ragazzi è divenuta manchevole di un
aspetto per nulla secondario, quello di una mediazione paragonabile ad
una prima navigazione. Una navigazione non già nel mare aperto della
società, come in un oceano, ma per le acque più tranquille di un mare
nostro, più a misura delle reali capacità di navigazione del ragazzo.
La scuola è sempre stata questo luogo mediano tra famiglia e società,
favorendo un graduale inserimento dei più piccoli nei ranghi dei più
grandi. Lo ha fatto sapendo dosare coccole e scappellotti. Ora, mentre
in altri paesi europei (pensiamo alla Germania, divenuta speranza per i
giovani italiani laureati e non) le aspirazione dei ragazzi vengono
spente già alla tenera età di nove, dieci anni quando non si mostrano
subito conformi ad un cammino di istruzione superiore degno dei bisogni
della società, in Italia si illudono diciassettenni, facendo loro
credere che le loro lacune potranno colmarsi col tempo, così come le
loro insufficienze sono divenute sufficienze piene all’ultimo
scrutinio. Dice nulla il fatto che cresca di anno in anno il numero di
studenti che prova il test di selezione per iscriversi a medicina, un
corso di studi tra i più selettivi a causa dell’enorme mole di studio?
Quanti giovani lasciano il porto ‘quieto’ della scuola secondaria senza
avere coscienza dei propri limiti?
Ricordiamo tutti il comunicato stampa dell’ex ministro Fioroni: «Alle
superiori, in dieci anni, abbiamo scrutinato e mandato avanti circa 8
milioni e 800.000 studenti con lacune gravi o gravissime». Era il 2007.
Qualcuno può dire che sia cambiato qualcosa?
Da buoni italiani, figli di poeti, scrittori, pensatori e giurisperiti,
ci siamo inventati un arzigogolo di leggi, di normative e di pedagogie,
per ammantare di belle parole il fallimento storico di una generazione
di docenti. Stiamo truccando il futuro di milioni di giovani, come i
governi ellenici fecero con i loro conti per aderire alla moneta unica.
Diciamo di aver saputo tirare fuori le capacità di uno studente, ci
vantiamo perfino di saper valutare meglio delle generazioni che ci
hanno preceduto, ma in realtà siamo ancora zelanti contabili al soldo
degli apparati statali. Dietro la ventata di freschezza pedagogica, che
porta decine di migliaia di giovani, ogni anno, a non aver sudato la
promozione, e a vedere il proprio volto, infine, stampigliato su
qualche ‘vetrina di centisti’, c’è uno Stato che non finanzierebbe i
corsi di recupero che pure ha istituito, per colmare debiti che è
meglio non far accumulare – e buona pace al secchio; ci sono paure per
classi che si perdono e per posti di lavoro che scomparirebbero; ci
sono genitori che pretendono un ‘foglio di carta’, ignari che ormai
sono le competenze a venire valutate dai datori di lavoro, e non già i
titoli – il valore legale del titolo di studio è ormai stato superato
dai fatti, positivo o no che sia.
Supplente della famiglia, supplente degli enti assistenziali dello
Stato andati in malora. In molte zone della Sicilia, della Calabria e,
in generale, del Mezzogiorno la scuola è rimasta l’unica istituzione a
presidiare il territorio. Le parrocchie scompaiono a causa della
mancanza di sacerdoti, le caserme dei carabinieri vengono chiuse per
risparmiare, i quartieri si degradano per diverse ragioni e viene a
mancare un luogo deputato da sempre alla socializzazione (ce lo ha
spiegato bene Cristopher Lasch in La ribellione delle elite), e così la
scuola diventa la siepe oltre la quale si stende la tenebra della
solitudine. Fuori dalla scuola, in molte zone d’Italia, ormai anche in
quel che era il ricco ed opulento Nord, non c’è nessuno che attenda i
ragazzi per prendersene cura. Ed è così che scatta la sindrome della
crocerossina. Ma un’illusione, per quanto nata dalla buona fede,
rimarrà pur sempre un’illusione. Dalla confusione dei ruoli non se n’è
mai cavato nulla di buono. La scuola, da sola, può formare in un ambito
comunque molto ristretto, anche quando è quel liceo classico che, una
volta, si diceva formasse l’uomo e il cittadino (e che, difatti, ora è
in crisi). Da sola non può far crescere, perché la crescita integrale
di una persona non è affare di un ente e di uno sparuto gruppo di
persone, il cui agire è peraltro limitato da non poche norme. Se oggi
siamo atomi, seppur per tolleranza e non per indifferenza, non possiamo
riscoprirci d’un tratto societas in un’aula. Non è un caso, tuttavia,
che le attività extra-curriculari siano cresciute a dismisura negli
anni, ed oggi, soprattutto nel Nord, i poetici viaggi di istruzione
siano stati sostituiti dalle più prosaiche settimane bianche o dalle
crociere.
Risanare una società malata, e dunque creare momenti di aggregazione,
organizzando gite o facendo delle aule consultori per famiglie allo
sbando. Tutto molto onorevole, ma non più inerente alla funzione del
docente. Il cui compito è – occorre ribadirlo – quello di far crescere
formando nel campo che gli è stato assegnato. Un’equazione o il
pensiero di un filosofo non sono solo materia di studio e di
valutazione – dirlo, scriverlo, vantarsene in convegni è come andare
fieri di aver scoperto l’acqua calda – ma modi di esprimere il nostro
approccio alla realtà, e possono anche divenire ‘problemi
esistenziali’. E quando ciò accade, è la vera vittoria del docente.
Così come una volta gli veniva chiesto di essere un burocrate di
concetti, oggi al docente viene chiesto di essere un burocrate di
servizi. E non è né l’uno né l’altro. La sbronza di posti di lavoro
che, con tutti i limiti, il governo ci propinerà, potrebbe obliare
definitivamente una discussione che non può più attendere. Se così
fosse, non dovremmo più avere rimpianti: la specificità del nostro
lavoro andrebbe definitivamente persa. Con buona pace di tutte le belle
parole che potremmo inventare per negare, davanti alla Storia, il
nostro definitivo fallimento.
Antonio Giovanni Pesce
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