A che serve un Faraone alla Scuola italiana?
Data: Giovedì, 19 febbraio 2015 ore 08:30:00 CET Argomento: Redazione
Ho saputo in tarda mattinata, di una breve visita del
sig. Davide Faraone, sottosegretario all’Istruzione, nella mia scuola.
Finito l'orario di lavoro, mi reco in aula magna per ascoltare la
conferenza-incontro appena cominciata. Insieme alle più alte autorità
regionali del governo di questa istituzione, il sottosegretario
all'Istruzione ascolta le domande debitamente preparate dai ragazzi (e
dai loro insegnanti), alcune molto pertinenti. Ne ascolta una, due,
tre, sei, nove, dieci. I quesiti posti dagli alunni via via si
specificano, inferiscono ed esplodono problemi, esigenze,
contraddizioni. Il sottosegretario non prende appunti, non annota;
ascolta. Il moderatore chiede ne vengano fatte delle altre. “Ancora?” -
penso – “ce n’è già per tirar fuori tanto più del necessario...”. Se ne
aggiungono un altro paio.
Il signor Faraone, sottosegretario all’Istruzione, si alza e comincia a
parlare. Nella sala, un minuto di attento silenzio per l’incipit,
giusto per saggiare l’intensità di tono e pensiero. Poi le frasi del
parlante si smozzicano, lambiscono questioni, circumnavigano problemi,
puntualizzano genericità. I ragazzi partono per la tangenziale della
noia. Il tono del sig. Faraone, sottosegretario all’Istruzione, è
costante e frettoloso; ogni frase agglutinata, appiccicata alla
successiva come da copione, le domande non trovano risposte. Dice che
la Scuola è finalmente diventata una priorità del governo, ma la
monotonia delle affermazioni, la loro dimensione acritica, immotivata,
non interessa né rassicura nessuno. E allo stesso modo fa aleggiare la
valutazione e progressione di carriera di presidi e docenti: vaga,
ectoplasmatica, non una parola su modalità e criteri. Ci si aspetta un
dato, una questione, un punto o una consapevolezza cui potersi
afferrare, e invece la voce del sig. Faraone, spedita ed esanime,
continua ad affastellare disomogeneità, a evocare un fantomatico mondo
del lavoro, a speculare sul prima e sul dopo delle eterne
irresponsabilità di questo Paese. Qualche ragazzo ha già messo mano al
telefonino. Irrompono gli slogan. Il flusso discorsivo con tutte le sue
facili perifrasi -“la centralità dell’alunno”, “chi educa gli
educatori?” (già, chi li educa? e i giudici chi li giudica? e i medici
chi li medica? e i notai chi li nota?) - cade su una platea di alunni
distratta, rassegnata, dagli anticorpi precocemente avvezzi
all’inconcludenza.
Qualche confuso proposito si infrange sulla scogliera delle ovvietà, o
del futuro verbale che tutto accomoda, tutto monda. Il linguaggio
continua a girare su se stesso, non conclude; le similitudini
arrancano, fa capolino un inglesismo tecnico (che non guasta mai),
furoreggia il plurale maiestatis. I ragazzi vagano oramai spersi nelle
praterie dell’indifferenza. Molti docenti si guardano delusi,
mortificati; un’altra ombra su un lavoro che pare non avere senso.
Qualche altro gongola per ragioni che la mia intelligenza e buona
volontà non saranno mai in grado di apprezzare.
Il mio pensiero, ormai in un’alienazione metafisica, chiede disperati
lumi a Gustave Flaubert ed al suo “Dictionnaire” di banalità
impossibilmente completo.
La fuffa di una ventina di minuti si avvia al termine, il moderatore si
avvicina allora al sottosegretario per ringraziarlo, ed io mi aspetto
che si dia spazio a qualche replica. Vorrei chiedere al sig. Faraone
quale significatività, quale durevole utilità crede abbia lasciato nei
ragazzi il suo parlare, e che sensazione si prova ad aver risposto in
maniera tanto approssimativa a domande tanto precise. Ma non c’è tempo:
il sig. Faraone, sottosegretario all’Istruzione, appena si è liberato
del microfono sta già stringendo la mano alle autorità assise ed
avviandosi verso la porta, mentre un altro degli illustri relatori, non
senza qualche imbarazzo, comincia a parlare ad un aula in sgombero.
Fretta ingrata (e avveduta). Ciononostante il sottosegretario non è
andato via, è lì sul piazzale dove si intrattiene a lungo col piccolo
capannello di funzionari ovviamente adunatosi intorno, e col solito
florilegio di qualche omaggiante comparsa.
Fioccano sorrisi, caldi amplessi, pose impettite, cenni metafisici,
vocazioni di appartenenza; è tutto un cercarsi ed uno sfiorarsi di
eccitate complessioni. E qui la “centralità dell’alunno” è un po’ meno
evidente. Povera Sicilia, e povera Italia. La demolizione della
funzione educativa, della sua professionalità, prosegue intanto
indisturbata; ed ho la sensazione che sempre più si consolidi la fatale
saldatura tra i faccendieri della letargia cognitiva che s’incipria
d’ogni sorta di progetti e maneggi, in basso, e i profeti del vuoto a
perdere politico che li ispirano incoraggiano e vezzeggiano, in alto.
Corrispondenza d’amorosi nonsensi. Povera Scuola, stremata da troppo
tempo da una cettoqualunquizzazione che sfoggia il suo repertorio di
vacuità, e che stende un avaro lembo sulla cultura, sulle speranze. E
delle volte mi pare ineluttabile, irreversibile.
prof. Filippo Martorana
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