A che serve un Faraone alla Scuola italiana?
Data: Giovedì, 19 febbraio 2015 ore 08:30:00 CET
Argomento: Redazione


Filippo MartoranaHo saputo in tarda mattinata, di una breve visita del sig. Davide Faraone, sottosegretario all’Istruzione, nella mia scuola. Finito l'orario di lavoro, mi reco in aula magna per ascoltare la conferenza-incontro appena cominciata. Insieme alle più alte autorità regionali del governo di questa istituzione, il sottosegretario all'Istruzione ascolta le domande debitamente preparate dai ragazzi (e dai loro insegnanti), alcune molto pertinenti. Ne ascolta una, due, tre, sei, nove, dieci. I quesiti posti dagli alunni via via si specificano, inferiscono ed esplodono problemi, esigenze, contraddizioni. Il sottosegretario non prende appunti, non annota; ascolta. Il moderatore chiede ne vengano fatte delle altre. “Ancora?” - penso – “ce n’è già per tirar fuori tanto più del necessario...”. Se ne aggiungono un altro paio.

Il signor Faraone, sottosegretario all’Istruzione, si alza e comincia a parlare. Nella sala, un minuto di attento silenzio per l’incipit, giusto per saggiare l’intensità di tono e pensiero. Poi le frasi del parlante si smozzicano, lambiscono questioni, circumnavigano problemi, puntualizzano genericità. I ragazzi partono per la tangenziale della noia. Il tono del sig. Faraone, sottosegretario all’Istruzione, è costante e frettoloso; ogni frase agglutinata, appiccicata alla successiva come da copione, le domande non trovano risposte. Dice che la Scuola è finalmente diventata una priorità del governo, ma la monotonia delle affermazioni, la loro dimensione acritica, immotivata, non interessa né rassicura nessuno. E allo stesso modo fa aleggiare la valutazione e progressione di carriera di presidi e docenti: vaga, ectoplasmatica, non una parola su modalità e criteri. Ci si aspetta un dato, una questione, un punto o una consapevolezza cui potersi afferrare, e invece la voce del sig. Faraone, spedita ed esanime, continua ad affastellare disomogeneità, a evocare un fantomatico mondo del lavoro, a speculare sul prima e sul dopo delle eterne irresponsabilità di questo Paese. Qualche ragazzo ha già messo mano al telefonino. Irrompono gli slogan. Il flusso discorsivo con tutte le sue facili perifrasi -“la centralità dell’alunno”, “chi educa gli educatori?” (già, chi li educa? e i giudici chi li giudica? e i medici chi li medica? e i notai chi li nota?) - cade su una platea di alunni distratta, rassegnata, dagli anticorpi precocemente avvezzi all’inconcludenza.

Qualche confuso proposito si infrange sulla scogliera delle ovvietà, o del futuro verbale che tutto accomoda, tutto monda. Il linguaggio continua a girare su se stesso, non conclude; le similitudini arrancano, fa capolino un inglesismo tecnico (che non guasta mai), furoreggia il plurale maiestatis. I ragazzi vagano oramai spersi nelle praterie dell’indifferenza. Molti docenti si guardano delusi, mortificati; un’altra ombra su un lavoro che pare non avere senso. Qualche altro gongola per ragioni che la mia intelligenza e buona volontà non saranno mai in grado di apprezzare.

Il mio pensiero, ormai in un’alienazione metafisica, chiede disperati lumi a Gustave Flaubert ed al suo “Dictionnaire” di banalità impossibilmente completo.
La fuffa di una ventina di minuti si avvia al termine, il moderatore si avvicina allora al sottosegretario per ringraziarlo, ed io mi aspetto che si dia spazio a qualche replica. Vorrei chiedere al sig. Faraone quale significatività, quale durevole utilità crede abbia lasciato nei ragazzi il suo parlare, e che sensazione si prova ad aver risposto in maniera tanto approssimativa a domande tanto precise. Ma non c’è tempo: il sig. Faraone, sottosegretario all’Istruzione, appena si è liberato del microfono sta già stringendo la mano alle autorità assise ed avviandosi verso la porta, mentre un altro degli illustri relatori, non senza qualche imbarazzo, comincia a parlare ad un aula in sgombero. Fretta ingrata (e avveduta). Ciononostante il sottosegretario non è andato via, è lì sul piazzale dove si intrattiene a lungo col piccolo capannello di funzionari ovviamente adunatosi intorno, e col solito florilegio di qualche omaggiante comparsa.

Fioccano sorrisi, caldi amplessi, pose impettite, cenni metafisici, vocazioni di appartenenza; è tutto un cercarsi ed uno sfiorarsi di eccitate complessioni. E qui la “centralità dell’alunno” è un po’ meno evidente. Povera Sicilia, e povera Italia. La demolizione della funzione educativa, della sua professionalità, prosegue intanto indisturbata; ed ho la sensazione che sempre più si consolidi la fatale saldatura tra i faccendieri della letargia cognitiva che s’incipria d’ogni sorta di progetti e maneggi, in basso, e i profeti del vuoto a perdere politico che li ispirano incoraggiano e vezzeggiano, in alto. Corrispondenza d’amorosi nonsensi. Povera Scuola, stremata da troppo tempo da una cettoqualunquizzazione che sfoggia il suo repertorio di vacuità, e che stende un avaro lembo sulla cultura, sulle speranze. E delle volte mi pare ineluttabile, irreversibile.

prof. Filippo Martorana





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