Le Auschwitz che dividono di Matteo Tacconi
Data: Mercoledì, 28 gennaio 2015 ore 08:00:00 CET Argomento: Rassegna stampa
La
tensione con la Russia di Putin derivante dalla guerra in Ucraina entra
nel 70° anniversario della liberazione del campo di concentramento
nazista in Polonia. Non è l’unico conflitto politico-culturale a esso
legato.
Settant’anni fa i soldati dell’Armata rossa giungevano a Oswiecim,
cittadina della Polonia sud-occidentale. Tristemente, è più conosciuto
il nome che le diedero i tedeschi dopo averla occupata nel 1939:
Auschwitz.
Ai margini della città si trovava un presidio dell’esercito polacco. I
nazisti lo convertirono a campo di prigionia. Quello fu il primo nucleo
del lager. All’ingresso campeggia l’infame scritta: Arbeit macht frei,
il lavoro rende liberi.
Con il tempo il perimetro del campo si espanse. Sorsero Auschwitz II e
Auschwitz III. Quest’ultima struttura, situata nel villaggio di
Monowitz, ospitava una fabbrica della Ig Farben, l’azienda produttrice
del famigerato Zyklon-B.
La seconda area del campo, Auschwitz II, divenne operativa sul finire
del 1941. Si sviluppava appena Oswiecim, nel villaggio di Brzezinka.
Birkenau, in tedesco. Nome, questo, che evoca immediatamente il grande
sterminio. Morirono lì dentro - di fame, di botte o gasate - moltissime
delle vittime di Auschwitz, stimate in un milione e mezzo di persone.
Gli ebrei furono più di un milione.
Ecco perché Auschwitz è divenuto il simbolo dell’Olocausto. Ecco perché
la Giornata della memoria. Ecco perché oggi, in ragione della cifra
tonda dei settant’anni, le celebrazioni, che si tengono all’interno del
complesso di Birkenau, saranno più solenni che mai. In Polonia
arriveranno molti capi di governo e di Stato. Ci sarà Francois
Hollande, per esempio. Così come Angela Merkel, e qui c’è una sorta di
obbligo. Mancherà invece Barack Obama.
Ma un’assenza, più di ogni altra, pesa: quella del presidente
russo Vladimir Putin, uno che non nasconde né orgoglio, né fierezza,
quando si tratta di ricordare il contributo che il proprio paese,
allora la più grande e influente repubblica sovietica, diede alla causa
della liberazione europea dal nazifascismo.
S’apprende da diversi giornali che la Polonia non lo avrebbe
ufficialmente invitato, dato che il suo arrivo, in ragione della crisi
politico-militare in Ucraina, vissuta da Varsavia e da Mosca secondo
logiche contrapposte (la prima sta con Kiev e la seconda coi ribelli
del Donbas), è stato percepito come inopportuno.
Messa così è troppo netta, come lettura. Vanno chiarite le sfumature.
Tecnicamente non si è trattato di mancato invito. L’Auschwitz Council,
responsabile del cerimoniale, ha spedito una lettera formale
all’ambasciata russa a Varsavia, come a tutte le altre rappresentanze
diplomatiche accreditate nel paese. Tuttavia questo schema è inusuale.
La prassi sarebbe quella di comunicare l’invito al livello più alto di
governo. La linea seguita, scrive il sito della Bbc, è stata
influenzata proprio dagli imbarazzi suscitati dall’Ucraina. L’Auschwitz
Council immaginava che un invito di rango ridotto avrebbe indispettito
Putin e il suo orgoglio. Insomma: s’è cercato di non invitarlo, benché
lo si sia invitato. Così più o meno ha spiegato alla Bbc Konstanty
Gebert, editorialista della Gazeta Wyborcza, il principale giornale
polacco. Per la cronaca, al posto di Putin andrà il capo
dell’amministrazione presidenziale, Sergei Ivanov.
La polemica russo-polacca, sull’Ucraina e di rimbalzo su Auschwitz, è
stata appesantita dalle dichiarazioni del nuovo ministro degli esteri
di Varsavia, Grzegorz Schetyna, che dopo l’addio di Donald Tusk alla
politica nazionale e il conseguente rimpasto di governo ha sostituito
alla guida della diplomazia Radoslaw Sikorski (attualmente presidente
della camera bassa del parlamento).
Schetyna ha detto che della liberazione di Auschwitz va dato merito,
più che all’Armata rossa, ai soldati ucraini che vi militavano. Ne è
fioccata una polemica furibonda, i russi si sono inviperiti. Schetyna
ha cercato di abbassare i toni - invano - precisando che il reparto
dell’Armata rossa che varcò i cancelli dell’inferno di Auschwitz era
ovviamente multietnico, ma ha insistito sul fatto che il suo comandante
era di nazionalità ucraina. Volendo chiosare: la guerra nell’ex
repubblica sovietica è giunta a contaminare persino la storia di
Auschwitz.
Ma non è stata un’eccezione. Nel senso che Auschwitz, in Polonia, ha
provocato periodicamente litigi, surriscaldato gli animi, generato il
corto circuito delle emozioni.
Uno dei fattori più discussi e discutibili sta proprio nell’atto e
nella simbologia della liberazione da parte dell’Armata rossa. Durante
il comunismo Mosca e i suoi burattini nell’Europa centrale presentarono
Auschwitz come l’esempio più mostruoso degli orrori prodotti dal
nazifascismo. Il numero dei morti di Auschwitz fu gonfiato fino alla
cifra di tre milioni, senza distinguere più di tanto tra vittime ebree
e non ebree. Se questo serviva da una parte a dimostrare che l’apporto
sovietico alla liberazione dell’Europa era stato eroico e
irrinunciabile, dall’altra la tragedia dell’Olocausto ne uscì
parzialmente ridimensionata.
Al tempo stesso la retorica dell’antifascismo e la struttura comunista
del potere a Varsavia impedivano ai polacchi di confrontarsi con
l’altro lato del loro dramma nazionale. Il paese era stato occupato da
Berlino e Mosca, di comune accordo, con il patto di non aggressione. I
sovietici confermarono le acquisizioni territoriali anche dopo il 1945.
Cinque anni prima massacrarono più di più di 20 mila militari polacchi
a Katyn. L’esistenza di un vero e proprio divieto a discutere di queste
faccende fece sentire i polacchi vittime di seconda classe rispetto
agli ebrei, nonostante, come detto, il comunismo non raccontò
l’Olocausto in tutta la sua sconvolgente portata.
L’attrito tra queste due sofferenze, proseguito a lungo anche dopo il
1989, ha assunto anche una variabile religiosa. La Polonia cattolica
celebra con forte sentimento i suoi due martiri di Auschwitz, padre
Massimiliano Kolbe e Edith Stein, nata ebrea. Entrambi sono stati
santificati da Wojtyla. Il primo nel 1982. Due anni dopo, accanto al
complesso di Auschwitz, fu inaugurato un convento di suore carmelitane,
nel cui cortile fu piazzata la grande croce di legno che fu innalzata
(ma subito dopo rimossa) durante la messa di Wojtyla a Birkenau, nel
1979.
Tra gli ebrei si fece strada l’idea che la Polonia volesse fare del
campo di sterminio un luogo di pellegrinaggio cattolico. Il World
Jewish Congress e altre associazioni chiesero di spostare altrove il
convento. Le carmelitane dovettero sloggiare, anche se resistettero più
del dovuto. Si giunse inoltre a un accordo secondo il quale i simboli
religiosi non potevano essere esibito all’interno del perimetro di
Auschwitz.
Nel 1998 si tornò a battagliare. Alcuni nazionalisti cattolici
polacchi, non immuni da tendenze antisemite, piantarono proprio a
ridosso dell’ingresso del museo statale di Auschwitz più di 150 croci,
a memoria dei patrioti polacchi massacrati dai nazisti nel 1941. Molti
gruppi ebraici rumoreggiarono. Alla fine la questione si chiuse, anche
grazie alla responsabilità della chiesa polacca, una cui parte crede
fortemente che la comprensione di Auschwitz possa avvicinare popoli e
fedi.
Cose del genere non sono più successe. La Polonia s’è democratizzata,
ha curato ferite e imparato a gestire i nervi. Adesso può affrontare i
suoi drammi nazionali senza metterli in competizione con l’Olocausto.
In questo ha aiutato anche la riscoperta delle radici ebraiche del
paese, uno dei processi culturali più interessanti degli ultimi anni
(nonché una bella riposta all’accusa frequente di antisemitismo - che
comunque in passato è esistito).
È quindi improbabile che si torni a guerre delle croci e sfide della
sofferenza. Ma Auschwitz resta sempre lì, a creare incomprensioni. Il
caso Putin ne è una prova.
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Articolo originariamente pubblicato su Rassegna Est
Matteo Tacconi è coordinatore di Rassegna Est, un sito che racconta e
spiega l’Europa balcanica, centrale e post-sovietica con una
particolare attenzione alle vicende economiche. È sia un’agenzia di
giornalisti che forniscono i loro contributi a varie testate, sia un
portale di servizio indirizzato alle imprese italiane, la cui presenza
a Est è molto radicata.
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