Il giardino dei ciliegi di Čechov al Verga di Catania. Il tracollo economico di una famiglia aristocratica russa agli inizi del ‘900
Data: Luned́, 22 dicembre 2014 ore 07:30:00 CET
Argomento: Rassegna stampa


Ho visto, qualche sera fa, al Teatro “Verga” di Catania, produzione dello “Stabile” etneo sotto la regia di Giuseppe Dipasquale, “Il giardino dei ciliegi” di Čechov, commedia “farsa” (per l’Autore), un po’ tragica; e magari qualcosa in più: tragedia, come la definisce Stanislavskii con la ferma disapprovazione di Anton. Tratta infatti della caduta economica di una nobile famiglia dell’aristocrazia terriera russa  che  –  dopo il proprio ritorno in patria, in seguito ad una lunga permanenza a Parigi  –  assiste impotente alla vendita delle cose più care: il giardino del titolo e la casa avita. Ma Ljubov’ Andrèevna Ranèvskaja, un tempo aristicratica proprietaria terriera, nel suo declino per indebitamento, individua come fatali strali punitivi, quasi da contrappasso, i suoi “peccati”: lo spreco di «soldi senza freno», l’aver «sposato un uomo che faceva soltanto debiti», l’essersi innamorata «per disgrazia» di un altro uomo che le è costato la punizione più terribile: l’annegamento nel fiume, vicino al giardino, del suo bambino. E le sue colpe, come peccato originale, sembrano contaminare le figlie, la naturale: Anja e l’adottiva: Varja. Perdono infatti, le due ragazze, l’occasione d’accasarsi che avevano a portata di mano; la prima perde Pëtr Sergèevič Trofimov; la seconda Ermolaj Aleksèevič Lopachin. I due corteggiatori sono due figure antitetiche che eppure, alla fine, si capiscono a vicenda e rivelano di volersi bene. Trofimov, studente a vita, è un intellettuale che incarna i principi di riscatto dalla vecchia Russia feudale, anche se, da oltre quarant’anni, c’era stata (riforma di facciata!) l’emancipazione dei servi: 18 febbraio 1861; è un «uomo libero», libero anche dall’amore e qui il non sorridente destino di Anja: «noi siamo al di sopra dell’amore» dice lo studente alla giovane ragazza. E non solo di esso, perché bisogna «Evitare le cose meschine e illusorie che impediscono di essere liberi e felici»; insomma Pëtr Sergèevič è il puro idealista al servizio dell’umanità; è (profeta Čechov) l’utopista che tocca idealmente i tempi del “sol dell’avvenire”: «Noi procediamo irresistibilmente verso la lucente stella che arde laggiù, lontano! Avanti! Non restate indietro, amici!»; infatti, da lì (1903, tempo della scrittura) a due anni dopo e poi, con successo, nel 1917 (tempi della storia) ci saranno, prima, la repressione zarista della «domenica di sangue» a Pietroburgo; poi la vittoriosa “rivoluzione d’ottobre” che scardinerà l’antico sistema feudale e toglierà proprietà e ricchezze ai nobili e agli “uomini nuovi” post ’61. Lopachin, mercante, invece, rappresenta uno di questi ultimi; una sorta di Mastro don Gesualdo ma con più cuore (anche se del parere che «le cose andavano molto bene» quando «si frustava»), il quale – dopo aver inutilmente incoraggiato i proprietari a lottizzare il giardino dei ciliegi per farne villini e salvarsi dal tracollo, alla fine, vista la resistenza della famiglia, se lo compra  all’asta lui, perché in quella terra suo nonno e suo padre erano stati schiavi e non era stato loro permesso mai di «entrare nemmeno in cucina». Così Ermolaj Aleksèevič, il ragazzo che prendeva botte, rude e «mezzo analfabeta», diventa socialmente qualcuno. Può, ora, dire ai musicisti «suonate, io desidero sentirvi» e, più che altro, prendere la scure e abbattere i ciliegi per far costruire villini e dare una nuova vita ai nipoti e ai pronipoti. All’uomo “nuovo” si contrappone l’immobilismo del vecchio servitore Firs, contento di essere servo: «non ho accettato la libertà, sono rimasto con i padroni […] tutti erano contenti, ma di che cosa fossero contenti non lo sapevano nemmeno loro».
Ma c’è anche un personaggio, da non sottovalutare, responsabile del disfacimento familiare: Leonid Andrèevič Gaiev, fratello della Ranèvskaja, individuo senza qualità, dedito all’ozio e al gioco del biliardo (metafora della vita presa con leggerezza, vanità e rischio), più rassegnato della sorella alla perdita della proprietà: «ci siamo calmati siamo diventati perfino più allegri… »; avrà anche un posto in banca ma la testa sempre rivolta al biliardo: «La gialla al centro!». Come la sorella, però, non può trattenersi dal pianto nel momento dell’addio alla casa e al giardino; che è invece principio di nuova vita per Trofimov mentre nel silenzio «echeggia il colpo sordo della scure su un albero» il quale «risuona mesto e solitario». E’ il risuono di tutta la commedia che – come è stato ben detto  – è  «un canto funebre sulla vecchia Russia», la quale «sta per scomparire, sotto i colpi del maglio della rivoluzione ormai imminente».
Il giardino eclatante nel titolo, ma invisibile nella commedia di Čechov, è per Dipasquale anch’esso protagonista dell’opera; ed ha ragione, perché ne condiziona l’«intreccio», l’«azione», determinandone, in più punti, «il ritmo e la sostanza scenica». Così il regista, nella fedeltà all’opera, che traduce e adatta, fa scorrere il tempo del giardino che avvolge cose e persone; e su persone e cose vedrei dominatrice la forza del destino che, per sdrammatizzare, il Drammaturgo, cedendo alla farsa, metaforizza nei giochi di prestidigitazione e, soprattutto, delle carte della governante Šarlotta Ivanovna.
Questi gli attori nei succitati ruoli: Magda Mercatali (Ljubov’ Andrèevna Ranèvskaja), Pippo Pattavina (Ermolaj Aleksèevič Lopachin), Guia Jelo (Šarlotta Ivanovna), Gian Paolo Poddighe (Leonid Andrèevič Gaiev), Italo Dall'Orto (Firs), Alessandra Costanzo (Varja), Angelo Tosto (Pëtr Sergèevič Trofimov), Matilde Piana (Anja).
Poi altri attori in altri personaggi: Camillo Mascolino (Boris Borisovič Simeonov-Piščik, proprietario terriero), Annalisa Canfora (Duniasa, cameriera) Aldo Toscano (Boris Borisoviè Epichodov, contabile) e Cesare Biondolillo (Jaša, giovane lacchè); poi ancora: Alessandro Giorgianni (un bambino) e i viandanti, un capostazione, un impiegato delle poste, i servi di casa, l’orchestrina degli ebrei, rappresentati dagli allievi del 4° anno della Scuola d’Arte Drammatica “Umberto Spadaro”.
Un buon amalgama attoriale, con palma all’eccelsa Magda Mercatali e voto non elevato a Pippo Pattavina per la recitazione spuria.
A completamento del quadro artistico: le scene di Antonio Fiorentino; i costumi di Elena Mannini; le musiche di Germano Mazzocchetti; i movimenti di scena di Donatella Capraro e le luci di Franco Buzzanca.

Pino Pesce
già sull’edizione cartacea de “l’Alba”





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