Il ruolo del Meridione nella costruzione della cultura nazionale. Dal Sud conquistato la rigenerazione intellettuale dell’Italia
Data: Venerdì, 12 dicembre 2014 ore 08:00:00 CET
Argomento: Redazione


Subito dopo l'annessione territoriale si pone il problema di fare l'Italia come nazione e gli abitanti degli ex Stati come cittadini di un unico Stato. Questa non è operazione facile; ma un intellettuale meridionale sa cosa e come fare: "Fare intendere Hegel all'Italia- dice Pasquale Villari scrivendo a Bertrando Spaventa - vorrebbe dire rigenerare l'Italia. Io per me credo che, se tu cominci, vedrai sorger per via elementi d'una vita che non aspettavi [...] Io credo che, superato il primo ostacolo, tu ti vedresti padrone di tutta la gioventù. Camillo [De Meis] ti potrà dire che entusiasmo producevano le parole di De Sanctis quando egli spiegava qualche pagina dell'Estetica di Hegel. Ha fatto lezione per moltissimi anni; i suoi giovani parlavano solamente di quel tempo in cui si spiegava qualche pagina dell'Estetica di Hegel. E' un sistema quello che, una volta inteso, s'impadronisce di tutte le cognizioni di un uomo, di tutte le azioni, di tutta la vita. In Italia non si è ancora visto un simile fatto, e ve ne è bisogno; senza filosofia non si può diventar nazione, e filosofia italica oggi non v'è, né vi è speranza, se qualche giovane ardito non si spinge innanzi: ardisci" (Silvio Spaventa, Dal 1848 al 1861. Lettere Scritti Documenti, a cura di B. Croce, Laterza, Bari 1923, p.78). La lettera di Villari a B. Spaventa è molto importante perché attribuisce alla cultura un ruolo decisivo nella formazione della nuova Italia e ai grandi intellettuali meridionali, abituati a studiare in modo non libresco ed a vivere una vita di sofferenze e di miseria, lontani dalle vuote accademie, la missione di rappresentare tutta la nazione e di far ritrovare agli italiani la coscienza di sé: "Lascia che gli accademici si beino della loro grandezza, che nessuno trovi parole per lodare il suo compagno, si addormentino in questo sogno beato i vecchi filosofi; tu veglia e trova la via. Quando griderai eureca, si sveglieranno e seguiranno le tue pedate" (ibidem).

In realtà, la filosofia elaborata e praticata da Bertrando Spaventa, Francesco De Sanctis, Camillo De Meis, Sebastiano Maturi, Donato Jaja, Pasquale Villari, Augusto Vera, Francesco Fiorentino, Felice Tocco, Francesco Acri, Alfonso Asturaro, Andrea Angiulli, Pietro Siciliani, Antonio Labriola, ecc. ha enorme forza trascinante, tale da sommergere le vecchie filosofie italiche e lo stesso Gioberti molto osannato e citato nelle accademie reali e nobiliari, nonostante la viva repulsione da parte degli intellettuali meridionali d'avanguardia: "Era più di dieci anni che non leggevo Gioberti. Non mi è mai piaciuto; ma ora mi sembra un fanfarone. Niente, niente, niente di filosofico. Nessuna veduta grande; nessun criterio storico; nessuna intelligenza del suo tempo e dello spirito umano. Una chiacchiera perpetua, un dommatismo perpetuo, una fantasticheria perpetua. Povero paese nostro" (Lettera dell'11 ott. 1857 di Bertrando Spaventa al fratello Silvio, rinchiuso con Luigi Settembrini ed altri intellettuali napoletani nel penitenziario di Santo Stefano, in S. Spaventa, op. cit.,p.244). Così i filosofi del Sud fanno scuola ai giovani dell'Italia unificata, si pongono a capo delle nuove correnti, dal neohegelismo al neokantismo, dal positivismo al marxismo, dal neoplatonismo allo storicismo, e ancor prima dell'apparizione all'orizzonte di Benedetto Croce e Giovanni Gentile decretano l'egemonia filosofica e culturale del Meridione.

Di tale egemonia s'accorge per primo un eccellente intellettuale bresciano, Giambattista Passerini di Casto in Valsabbia, il quale nel 1864 scrive al critico napoletano Vittorio Imbriani a proposito del Sud e della sua filosofia: "Io ritengo sempre che il vostro Paese è quello che ha più disposizione agli studi di filosofia, come, per seguire la vostra critica, è quello che in Italia è meno disposto alla Politica" (V. Imbriani, Carteggi di Vittorio Imbriani, a cura di Nunzio Coppola, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma 1964, p.18). Grande studioso della letteratura filosofica europea, il Passerini viaggia per l'Europa, conosce personalmente De Sanctis, Raumer, Neander, Cousin, Hegel e Schleiermacher ed è in grado di comprendere la natura e la qualità sia della filosofia che dei filosofi meridionali e della cultura suo tempo. Il suo merito maggiore consiste nella traduzione della Filosofia della storia di Hegel, con un suo lungo saggio introduttivo contenente uno schizzo storico di questa disciplina ed una valutazione critica dei filosofi che ne trattano prima di Hegel, nell'aver compreso l'importanza della Scienza della logica e nell'aver criticato la pretesa hegeliana dell'immediato passaggio dall'idea al mondo reale. Egli rivolge la sua attenzione ai filosofi meridionali ed agli studi che fioriscono nelle loro regioni, giacché è attento alla costruzione della cultura nel nuovo Stato nazionale, del quale la buona filosofia può diventare l'elemento decisivo. Ma l'importanza dei filosofi deriverebbe soprattutto dalla loro collocazione nella storia della filosofia e nella vita spirituale della nazione. Essi non sono di scarso valore speculativo, anche se non godono della fama adeguata e dell'attenzione scolastica, spesso neppure nelle città in cui sono nati. Il loro spessore teoretico, come riconosce giustamente il Passerini, è indubbiamente superiore alla loro fama. Si può osservare peraltro che il Pese in cui fiorisce la filosofia si trova economicamente e socialmente indietro rispetto all'altra parte d'Italia ed ai Paesi europei come la Francia, l'Inghilterra, l'Austria, la Germania, la Svizzera. Ma nessuno di questi può togliere il primato speculativo al Meridione d'Italia subito dopo l'unificazione, nonostante la sua deficienza socio-economica, che del resto viene segnalata a chiare lettere, senza ambiguità, da uno dei più grandi intellettuali napoletani, Pasquale Villari. "Intanto - egli dice - è utile illuminare la pubblica opinione rivelando le nostre piaghe e le nostre vergogne, senza paura del ridicolo o del discredito, che si cercherà di gettare su quelli che oseranno parlare. La libera stampa e la scienza hanno da lungo tempo imparato ad affrontare questi pericoli negli altri paesi, e debbono affrontarli anche fra noi" (Pasquale Villari, Lettere meridionali, Le Monnier, Firenze 1878, p.71). Egli è il maestro di Gaetano Salvemini ed il teorico di un positivismo critico moderno e produttivo, come appare a chi legge attentamente la sua produzione, e non può essere mescolato con le grettezze materialistiche e sensistiche di altri positivisti.

Il problema che si pongono i grandi pensatori meridionali dopo il 1861 è quello di fare della buona filosofia e di applicarla possibilmente ai vari campi della ricerca scientifica. Esemplare è in questo senso la fatica storiografica di Bertrando Spaventa, Pasquale Villari, Antonio Labriola e Francesco De Sanctis, che nella sua Storia della letteratura italiana (1872-73) riassume egregiamente la necessità di combattere l'arretratezza ideologica dell'Italia presentando e commentando i migliori prodotti letterari, il meglio dei contenuti e delle opere della cultura nazionale. E così non solo i poeti siciliani e la poesia di Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Parini, Foscolo e Leopardi o la prosa di Boccacio, Machiavelli e Manzoni, ma anche le opere filosofiche di Telesio, Bruno Campanella e Vico, la scienza di Galilei, la storia di Sarpi, la commedia di Goldoni, la tragedia di Alfieri, la critica letteraria di Baretti, Algarotti e Bettinellli, ecc. escono dall'ombra, s'impongono per la loro tensione estetica, morale e intellettuale e s'imprimono energicamente nell'intelligenza degli studiosi e dei lettori della nuova Italia. Tutta la Storia desanctisiana è costruita secondo la concezione di una vita letteraria "totale", che abbraccia tutte le manifestazioni più efficaci dello spirito e della cultura, perché al centro dell'arte, della grande arte, vi è l'incontro della facoltà immaginativa, della "cosa" divenuta "forma", con la visione morale e storiografica. E l'arte non è destinata a morire sotto i colpi della filosofia, come vorrebbe Hegel, ma a vivere per sempre: " Certo, ci sono dei tempi nei quali il pensiero puro sottentra all'arte, ma l'arte e la religione sono immortali, e vivono contemporaneamente presso popoli più giovani e rinascono dalle ceneri della filosofia. L'arte, la religione e il pensiero puro non sono tre contenuti, ma lo stesso contenuto sotto tre forme che nascono, crescono, periscono per dar luogo all'altra, insino a che il contenuto si esaurisce. Da un nuovo contenuto ripullulano da capo le forme: eternità di contenuto, eternità di forme. Il contenuto non ritorna, progredisce sempre; le forme soggiacciono alla legge di ritorno del Vico. Hegel confonde le due cose e fa finire l'umanità con lui" (Francesco De Sanctis, Lettere a Pasquale Villari, Einaudi, Torino 1955, p.45). Anche la Storia desanctisiana, nel suo genere, è opera d'arte che non può morire per la sua bellezza formale, la sua intensità etica e contenutistica, la sua lingua asciutta ed efficacissima, che è anch'essa una straordinaria invenzione artistica.


La contraddizione tra le condizioni di arretratezza socio-economica del Sud e la singolare qualità della sua cultura filosofica e della sua letteratura (come dimostrano in modo indiscutibile Luigi Capuana, Giovanni Verga, Federico De Roberto, Elio Vittorini, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ecc. che in epoca positivistica e neorealistica dominano il paesaggio letterario italiano) è davvero molto stridente, ma è proprio la debolezza della struttura che, secondo me, consente per esempio ad un possente uomo del Meridione, Antonio Labriola, di interpretare il marxismo in modo acutamente antideterministico, di rivedere il rapporto irrigidito di struttura e sovrastruttura e di integrare la teoria del materialismo storico con una visione totale e totalmente dialettica, per la quale le forme della coscienza, come son determinate dalle condizioni di vita, sono e costituiscono anch'esse la struttura portante della storia. Questa non è data dalla sola anatomia economica, ma da tutto quello che tale anatomia riveste e ricopre, fino ai riflessi multicolori della fantasia. Per dirla con il Labriola, "non c'è fatto della storia che non ripeta la sua origine dalle condizioni della sottostante struttura economica, ma non c'è fatto della storia che non sia preceduto, accompagnato e seguito da determinate forme di coscienza, sia questa superstiziosa o sperimentata, ingenua o riflessa, matura o incongrua, impulsiva o ammaestrata, fantastica o ragionante" (A.Labriola, Del materialismo storico. Delucidazione preliminare, Newton Compton, Roma 1975, p.50).

Labriola sa che esiste una stretta connessione tra struttura e sovrastruttura e che la produzione delle idee non è meno qualificante della produzione materiale; solo che tra le due produzioni si stabilisce un rapporto dialettico che esclude il monolitismo ed esalta la mediazione nell'integralità e nella totalità della ricognizione cognitiva. Si tratta, è bene dirlo, di una giusta visione della metodologia marxista che molti altri revisionismi confermeranno e che serve ad intendere più correttamente le questioni della storia. Questa visione antieconomicistica è il frutto di una acuta lettura di Marx e di una contestazione del verbo rozzamente positivista (affermatosi decisamente nella II Internazionale) che semplifica la realtà e immiserisce i fatti e gli apparati ideologici e culturali. Il caso del Verga e di tutti i grandi scrittori e poeti sta lì a dimostrare che il vero artistico non è un semplice prodotto sovrastrutturale e che la storia non può non confrontarsi con la totalità delle strutture e delle sovrastrutture, delle verità di ragione e delle verità di fatto. La lezione di Labriola non può essere facilmente dimenticata, e in effetti essa viene ricordata e ripresa da Antonio Gramsci soprattutto nei suoi Quaderni del carcere, che ripresentano il pensiero di Croce e Gentile in una versione totalmente rinnovata e quasi irriconoscibile.

Antonio Gramsci è un uomo del Sud, come Jovine, Silone, Brancati, Vittorini, Quasimodo, Tomasi di Lampedusa, Leonardo Sciascia, ecc.; egli è un intellettuale che non dimentica la lezione di Marx, ma soprattutto non perde la memoria della nazione alla quale sente fortemente di appartenere prima che al marxismo ed al sovietismo. La cultura storicistica, che egli ha profondamente assimilato da De Sanctis, Labriola e Croce, non gli consente di andare al di là del territorio conosciuto e conoscibile, senza correre il rischio di astrazioni inconcludenti o fuorvianti. Per lui, la storiografia è il solo territorio praticabile e fruibile con interpretazioni stringenti e puntuali sotto il profilo filologico. Il resto appartiene ai teorici privi di storicità, ai filosofi puri incapaci di vedere i dati di fatto e di diritto e di avere un punto di partenza che non sia la loro vicenda personale e autocelebrativa. Questa è la filosofia che scorre nelle vene gramsciane pure all'interno del carcere e nell'isolamento dai compagni di partito. E la sua faticosa elaborazione in carcere è uno dei migliori contributi che il Meridione offre alla costruzione della cultura nazionale.

prof. Salvatore Ragonesi
salvatoreragonesi@hotmail.com





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