Le vie dell’olio tra passato e futuro (Parte II)
Data: Domenica, 09 novembre 2014 ore 08:00:00 CET
Argomento: Redazione


Sulla regione d’origine dell’olivo ci sono varie opinioni. Una vuole che esso, originario dall’Asia Minore, sia stato introdotto in Grecia e da qui in Italia e nel Mediterraneo. Un’altra individua l’area di provenienza nella regione compresa tra i monti a sud del Caucaso, le pendici dell’altipiano iranico e le coste della Siria e della Palestina. È risaputo però che l’ulivo si è sempre innestato sull’oleastro, che vegeta spontaneamente in quasi tutto il bacino del Mediterraneo. In Sicilia, per esempio, esistono ancora piccole aree residue di foresta naturale e tanti toponimi che ne attestano inconfutabilmente la presenza fin dal primo mattino del mondo: Ogliastro, Ogliastrello, ecc. A ogni buon conto, i primi scrittori di cose siciliane confermano che l’olivo nell’isola, almeno in epoca classica, era largamente coltivato ed aveva una grande rilevanza economica e paesistica.

A detta di Tucidide e di Diodoro Siculo, nelle colline a ridosso di Siracusa e di Agrigento, con le sue foglie argentate, l’albero benedetto conferiva alla campagna un’immagine di raro benessere; l’olio si esportava. Sotto i Romani l’olivicoltura è stata forse ridimensionata (per destinare le aree di risulta alla produzione del grano necessario a nutrire i cittadini dell’Urbe), ma non è certo scomparsa, a giudicare dalla grande quantità di anfore olearie rinvenute in fondo al mare a poche miglia dalle costa siciliana. I Romani d’altronde apprezzavano l’ulivo, tant’è vero che lo diffusero in tutto il Nord Africa, fino al confine del deserto, e istituirono la cosiddetta Arca olearia, una sorta di moderna Borsa dove si trattavano grosse partite d’olio d’oliva.

L’olivicoltura fu poi rilanciata dai Bizantini e dagli Arabi; sopravvisse ai dominatori nordici, che pure facevano largo uso di grassi d’origine animale. Nel Cinquecento assurse alla dignità di coltura specializzata, come risposta alla crisi degli allevamenti di suini determinata dagli scriteriati disboscamenti che fecero quasi scomparire la produzione di ghiande. Un’area di significativa espansione fu, nel Cinquecento, il Marchesato di Geraci, stando almeno a quanto si può leggere nel libro-inchiesta “I contadini di Sicilia”, di Sidney Sonnino: il marchese «allo scopo di arricchire le città e le terre per attirarvi maggiore popolazione, dava a chiunque il permesso di innestare gli oleastri, che qui crescono dappertutto spontanei, e di far proprie le piante di ulivo». Proprie, per modo di dire. In forza del diritto dei nòzzoli, i contadini erano costretti a molire le drupe esclusivamente nei trappeti del marchese; «le olive – spiega Orazio Cancila – già macerate sotto il torchio non dovevano che ricevere tre colpi di pressa per cacciare parte dell’olio». Il resto, che non era poco, restava assieme alla sansa al padrone.

Abolito nel 1785 dal viceré Caracciolo, il diritto dei nòzzoli fu ripristinato l’anno dopo dal suo successore, principe di Caramanico. E quando furono soppresse le angherie feudali, si istituirono “i gritti di lu trappitu” (di cui erano beneficiari i frantoiani), che pesavano sugli agricoltori più degli stessi diritti dei signori feudali. Aveva ragione Salvatore Salomone Marino: ‘Ntra trappitu, trappiteddu e trappitara, ògghiu mancu ni portu ‘na quartara. Era il lamento del contadino olivicoltore che dopo un anno di lavoro portava a casa poco olio. Senza considerare che non poteva sottrarsi al dovere di pagare, già dentro i locali del frantoio, il contributo in natura per la festa del Patrono. Ciononostante, il coltivatore siciliano non si è mai stancato di piantare e coltivare olivi. Li cura amorevolmente, quasi fossero persone.

Nelle aziende capitalistiche il monte giornate impiegato nella raccolta delle olive era generalmente distribuito per l’80% alle donne e ai fanciulli e per il 20% agli uomini; e, se dobbiamo prestar fede alle parole di Giuseppe Pitrè, la manodopera femminile era remunerata con salari di fame: «A due ore dal cominciamento della fatica, le più agiate della ciurma mangiano un grano di pane, qualche volta accompagnato con un pochino di cipolla e qualche oliva passa. Le altre, che si rimangono a dente asciutto, fingono di non vederle; e se da quelle invitate siano a partecipare del loro, abbassano la testa e rispondono aspramente: Obbligata!».
Nell’ex contea di Modica, i raccoglitori di olive d’ambo i sessi dormivano in promiscuità in un magazzino della masseria: «tutti si stendono su d’uno strame coprendosi ciascuno dei propri abiti e le donne delle loro vesti, sovente umide». Dopo una lunga giornata di lavoro, «ricevono ciascuno in una ampia scodella una minestra di fave, metà della quale vien conservata pel domani, due ore prima dell’alba».
Ma, per quanto trattate male, le raccoglitrici di olive non si stancavano mai di ringraziare il padrone che le aveva assunte, né di pregare l’Altissimo per propiziare nuove annate di carica; tanta era la paura di perdere quella misera fonte di reddito!

Dall’olivo non si ricava solo l’olio. Parte dei suoi frutti, appositamente curati, integrano l’alimentazione umana. Un tempo erano addirittura quasi il solo companatico della povera gente.
La sansa alimentava forni, bracieri e focolari; la morchia si barattava col sapone.
I polloni del portainnesto servivano per costruire ceste, panieri e altri oggetti di uso agricolo e domestico; dai tronchi si ricavavano mobili indistruttibili e stupende sculture; dai rami giocattoli e arnesi di lavoro. L’olio d’oliva era fra l’altro ritenuto il toccasana di molti mali: ògghiu cumuni sana ogni duluri, recita un vecchio detto popolare. Talune malattie si curavano però con oli speciali come l’ògghiu di piricò, ossia olio d’oliva aromatizzato da «fiori e foglie d’iperico raccolti nella notte di San Giovanni».
Non c’era male che potesse resistere di fronte all’olio d’oliva, se arricchito da talune essenze naturali come la ruta, quando bisognava curare l’isteria, o il succo di limone, nel caso di molte altre malattie, compreso il colera. E non si dimentichi che la medicina omeopatica tuttora fa largo uso del prezioso liquido estratto dalla drupa olearia.

Le vie dell’olio, come quelle del Signore, sono insomma infinite. Dall’alimentazione alla cosmesi, all’industria farmaceutica... Ovunque sembra che stiano per dischiudersi spazi davvero interessanti per la valorizzazione dell’olio d’oliva. Né si può ragionevolmente temere che il provvidenziale grasso vegetale perda parte della sua importanza man mano che si consolidano le logiche del villaggio globale. Anzi, tutto lascia ritenere che l’olio d’oliva debba ricevere nuovi importanti apprezzamenti proprio dai mercati lontani dall’area di produzione. A farmi radicare in questa convinzione è, soprattutto, il successo che ogni giorno di più registra la dieta mediterranea, che com’è noto ha tra i suoi capisaldi l’olio d’oliva, ormai da molti anni apprezzato anche da tanti uomini e donne dei paesi nordici, già consumatori di grassi insaturi e oli di semi vari…
Prof. Giuseppe Oddo





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