C'è Benito e Benito
Data: Giovedì, 04 settembre 2014 ore 07:30:00 CEST Argomento: Redazione
Da piccolo, i
fumetti mi furono proibiti da genitori che li ritenevano antieducativi
e mi consentivano solo le didascalie e gli ottonari del “Corriere dei
piccoli”. Perciò leggevo “Topolino” nascosto sotto le coperte,
beccandomi una precoce miopia; perciò sbirciavo in sacrestia nelle
pagine del “Vittorioso” che gli altri chierichetti sciorinavano
sghignazzando, e ricavandone pensieri non propriamente edificanti.
Su quelle pagine spiate squillavano i colori accesi e la comicità
irriverente di Jacovitti, che avrei ritrovato più tardi – affrancato da
tutele e interdetti – nel supplemento a fumetti del “Giorno”.
Cosa ci facesse Jac nelle sacrestie, coi suoi salami allusivi e
beffardi, le sue donne poppute e la sua anarchia debordante, me lo sono
sempre chiesto, tanto più che la censura democristiana, dopo quella del
Minculpop e accanto agli anatemi togliattiani, occhiutamente vigilava
sugli irridenti spropositi, sulla musa felicemente maleducata, sulla
truculenta ed esilarante fisiologia di Benito Franco Jacovitti.
Ma l’altra faccia della sua vocazione sovversiva era la disponibilità
di Jacovitti, che poteva disegnare la campagna elettorale del missino
Michelini come collaborare a “Tango”, il supplemento satirico
dell’“Unità”, poteva animare le battaglie di Pannella come prestarsi,
dalle pagine del mitico “Linus”, all’oltraggio del suo pubblico
iper-sinistro: “Fascista!”.
Fascista non fu né clericale né altro, né tanto meno (stolta ingiuria
anche questa da anni ’60-’70) “qualunquista”.
In realtà, come il nostro grande Vitaliano Brancati, anch’egli
censurato (e in quegli anni lo furono tutti, da Shakespeare a Totò), e
anch’egli irriducibile avversario di tutte le chiese, di tutte le
ideologie totalizzanti, di tutti i fanatismi, e come un Longanesi o un
Malaparte, anche l’umile Jacovitti e i suoi omini grassotteli e
iperdotati furono in realtà – e a loro modo – degli anarco-liberali,
timidi e beffardi anti-eroi e perciò cittadini ideali di un’Italia che
brechtianamente non abbia bisogno di eroi, di gesti estremi ed
espiazioni sacrificali, perché dovrebbero bastare (ma purtroppo non
bastano) uno sberleffo o una pernacchia a travolgere il Palazzo del
potere, i suoi abusi, le sue menzogne.
Nell’horror vacui e nell’ossessione del dettaglio che costringono
Jacovitti a riempire fino agli angoli le sue tavole di ometti e
donnone, di salami e uccellacci, di gags e insolenze, in una sorta di
intreccio caotico e di moltiplicazione iperbolica della corporeità che
deborda e tracima dalla pagina, sopravvivono il gusto “carico” e il
rigoglioso immaginario di matrice popolaresca che mezzo millennio fa,
scompostamente irrompendo nella compunta ed esangue iconografia del
classicismo rinascimentale, proliferarono nelle fiere plebee e nei
campi di battaglia ritratti da Bruegel e nelle enclaves dell’inconscio
squadernate da Bosch.
In quei grandi come nello strapaesano Jacovitti, nelle loro
rappresentazioni sature e smodate, è in atto il medesimo procedimento
di “carnevalizzazione”, ovvero di ribaltamento polemico dei valori e
dei linguaggi mendacemente “sublimi”, è in atto la stessa franca e
irriverente messinscena degli aspetti “bassi” e fisiologici, degli
eccessi sovversivi e licenziosi che le culture contadine e plebee
contrapponevano, nel tempo circoscritto e vigilato del carnevale,
all’algido e mendace spiritualismo delle corti. È il sogno dell’albero
di cuccagna ad affiorare dai salami seminterrati di Jac, ovvero
l’utopia della spartizione egualitaria e del godimento immediato, così
come dai suoi caserecci kamasutra e da quei corpi dilatati e
aggrovigliati si sprigionano un vitalismo pagano e una comicità
fescennina che nessun aspersorio, per fortuna nostra, ha mai potuto né
potrà mai redimere: almeno finché una schietta risata sopravviverà al
truce conformismo che ci minaccia e una lisca di pesce ammiccherà
ancora in fondo a una coloratissima e ingarbugliata vignetta.
prof. Antonio Di Grado
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