QUEI GIORNI. Difficilmente li dimenticherò quei giorni
Data: Sabato, 31 maggio 2014 ore 08:00:00 CEST Argomento: Redazione
A
volte rivedo come in un film certi volti, espressioni e accenti, luoghi
e fatti, come al rallentatore, una moviola a ritmi cangianti. Si era
nell'aprile del Settanta a Trento.
Tutto cominciò all'uscita da scuola, l'I.T.I.S. Buonarroti, allora
dietro la stazione centrale di Trento, vicino al Lungadige, sul corso
Michelangelo Buonarroti, poco sotto il monumento a Cesare Battisti.
Avevamo avuto un Collegio dei docenti per ragioni didattiche e mi ero
fatto elegante: abito grigio fumo e maglione a collo alto bianco.
All'imbrunire, salutati i colleghi, mi avviai per la solita strada, ma
dopo piazza Dante cambiai itinerario. Scelsi di passare da piazza
Venezia, per poi arrivare a Piazza Fiera attraverso largo Porta Nuova,
e quindi prendere via S. Bernardino, attraverso un percorso alberato,
forse a causa di quella prima arietta primaverile che scioglieva del
tutto le ultime nevi e lasciava gli alberi leggeri, liberi di
rifiorire, così come incuriosiva gli animi. Avvicinandomi alla piazza
dalla parte del Palazzo di giustizia, però, l'aria si faceva sempre più
acre e pesante. Una enorme, fitta nube lattiginosa mi avvolse e quasi
venni meno, al punto da dovermi appoggiare ad un muro per non cadere.
Lì mi soccorsero Franco e Francesco (non ricordo o, forse, non ho mai
saputo quali fossero i loro cognomi), due ragionieri-sociologi, amici
di Ancona, miei vicini di camera alla pensione di via S. Bernardino 8.
Mi aiutarono a venir fuori da quella bolgia. I due differivano poco per
il nome ma parecchio nel temperamento e nel carattere: rude boy-scout
idealista il primo, più esile, ma pratico opportunista il secondo. Man
mano che il fumo denso si diradava, vidi quello di cui poi avrebbero
parlato i giornali: la piazza elegante della città era in subbuglio.
Dei cubetti di porfido erano stati staccati dal manto stradale e dai
marciapiedi e giacevano ammucchiati in terra (erano serviti da armi ai
dimostranti più scalmanati) e perfino alcune barre metalliche dei
sedili erano divelte e sparse qua e là. Quella strana aria non era
quindi naturale: era causata dai lacrimogeni della polizia che
avevano sciolto di forza (lo seppi dopo) una grande e forse anche
violenta manifestazione di gruppi di sinistra (lotta continua ed
altri), organizzata per protestare in favore di Marco B., "trattenuto"
nel Palazzo di Giustizia. Mi sono sempre chiesto cosa ricorda
l'onorevole professore veneto, radicale-socialista-verde, di quei
giorni e di quell'evento, o cosa gli hanno riferito. Certo la memoria è
individuale e storica: mentre la seconda tende a standardizzarsi, la
prima rimane libera, per così dire, ed in preda a forti oscillazioni.
Non avevo mai provato l'effetto dei lacrimogeni, specie così
massicciamente impiegati. Avevo preso qualche piccola parte al
Sessantotto nella mia periferica Università di Catania, tra commissioni
di studio per la riforma scolastica e l'ascolto, a volte da solo, della
indimenticabile Dina Bertoni-Jovine. Ma si era arrivati al massimo al
lancio di uova marce tra fascisti ed estrema sinistra (tutta la
sinistra giovanile era allora estrema, anche o specialmente quella
cattolica di cui facevo parte).
Marco aveva anche estrazione cattolica, ma con ben altre esperienze
alle spalle. Ho saputo solo più tardi della sua amicizia dialettica con
il Renato delle Br. Allora, nel Settanta, Marco era un mito. L'ho
capito in quei giorni, quando ho trovato il suo poster manufatto
nell'appartamento di Daniela, Graziamaria e Salvatore. Erano tutti e
tre insegnanti e Salvatore teneva, ricordo, anche dei corsi di Storia
delle istituzioni a Sociologia. Era quello, l'Istituto Superiore di
Scienze Sociali, il fulcro attorno a cui si ruotava tutti,
anch'io.
Il poster di Marco (bello, disegnato da Assunta Toti Buratti, docente
all'istituto d'arte) aveva preso a Trento il posto occupato in tante
case d'Italia da quello del che Guevara. C'era molta emotività in giro,
dai sedici ai trent'anni ed oltre. A casa di Daniela B., Marilena
T, e Assunta Toti B. appunto, ci trovammo in diversi, quel giorno:
Calogero, che si faceva chiamare Pippo perché si vergognava un po' di
quel nome troppo trapanese, di aspetto tra i trenta e i quaranta;
Sandro, giovane professore di greco al ginnasio, palermitano, piuttosto
borghese ed altrettanto scanzonato quanto politicizzato, oltre che
ottimo intenditore di canto e chitarra, nonché parecchio piacente alle
ragazze; Giuseppe "Gipo", l'altro palermitano del gruppo, socialista
acceso, così come Sandro si dichiarava comunista, ed io. Era un
appartamentino come i tanti, a piano terra, affittato agli studenti.
Accanto ce n'era uno (l'ho saputo tempo dopo) dove stavano Renato C. e
Mara C. Salvatore, l'ospite fisso della casa (vi prendeva i pasti
assieme alle ragazze) era in grembiule e corona di cartone in testa, in
qualità di re della casa e lavava i piatti, nonostante i suoi editti
che dovevano evitargli, ma invano, certe corvées.
Gli elogi a favore di Marco, le imprecazioni contro lo stato oppressivo
di polizia ed i sospiri per una società più libera e giusta si
mescolavano ed intercalavano alle canzoni corali di folklore regionale
ed alle fette di dolce casalingo offerto dalle gentili padrone di
casa.
In quei giorni i fermenti erano tanti e sempre vivi. Sociologia
rimaneva occupata, dall'inizio dell'anno, ma alcuni corsi ed esami
andavano lo stesso. Franco F. teneva i suoi seminari. In uno su
Psicanalisi e vita familiare si finiva per parlare quasi sempre del
confronto tra paesi capitalisti e paesi socialisti. Francesco A., il
direttore, consentiva che si dessero gli esami di Sociologia sul testo
di Adorno e sui saggi di antropologia di Altàn. Ma andavano più le
assemblee e i dibattiti in facoltà, come fuori, alla Comune S.Chiara,
il vecchio Ospedale civico che dava alloggio agli studenti al prezzo
simbolico di cinquecento lire al mese, o in pizzeria (la Vecchia Trento
e La Botte). Qualche comparsa polemica gli studenti rivoluzionari la
facevano anche ai tavoli del Caffè Italia: una minerale in sette, o al
night La Mandragola, punto d'incontro della Trento bene. Solo
all'ingresso, però, perché pochi avevano le cinquemila per andar dentro
(contro le cinquecento della Vecchia Trento, tutto compreso) ed il
buttafuori non ammetteva gente in scarponi, pantaloni di velluto ed
eskimo verde.
Ed io con gli altri.
Erano diverse migliaia. Molti senza alcuna motivazione politica. Alcuni
(pochini per la verità) abbastanza motivati e parecchio
organizzati. Sarebbe difficile parlare ora di leadership: l'arcipelago
studentesco della Trento 1970 era molto complesso. Quella ideale e
carismatica di Marco aveva la sua grande attrattiva: stava
ufficialmente a capo di lotta continua, il gruppo più forte, e attraeva
i cattolici, ch'erano poi i più attivi nelle forme di lotta palese e
legale. Esistevano mescolate diverse forme di autorità ed atteggiamenti
largamente diffusi. Uno di questi era dato dall'attesa quasi messianica
della rivoluzione. Non si facevano nomi: i veri capi come Marco erano
poco in vista, controllati da polizia e carabinieri. Si facevano anche
grosse retate da parte delle forze dell'ordine col pretesto della
ricerca della droga, che tra i giovani allora era pochissimo o punto
diffusa. Le retate si concludevano in genere con intimidazioni o
pestaggi, che facevano poi il gioco della propaganda rivoluzionaria
giovanile, anche nelle scuole.
Nei cortei pochissimi si coprivano con fazzoletti rossi al collo o
sulla bocca, per non farsi riconoscere, caschi sulla testa, e si
munivano di bastoni che prendevano nello sgabuzzino al piano terra del
palazzo che ospitava il Museo di Scienze e
Sociologia.
Oggi potrà sembrare qualcosa di grave e terribile, ma allora, in quei
giorni, vedere in uno sgabuzzino delle rudimentali bombe molotov e dei
ragazzi che provavano a confezionarle era del tutto naturale e non
scandalizzava nessuno, anche se ad onor del vero devo dire che non ne
vidi mai usare, così come non vidi mai delle vere e proprie armi. La
maggior parte dei dimostranti si limitava a scandire, anche sotto la
pioggia battente, slogans che inneggiavano ad una libertà vera, ad un
futuro migliore, ad una società più giusta. Rita, una ragazza minuta ed
agile come un giunco, in preda a forte commozione si chiedeva, dopo i
cortei, quando sarebbe arrivata davvero la rivoluzione, per avere una
sua collocazione sociale e affettiva più vera, in una società dove non
ci fosse bisogno di sforzarsi a vendere qualcosa a qualcuno per
mangiare a mensa. Figurarsi poi come si potevano vendere allora a dei
poveri rudi rivoluzionari belletti e profumi vari.
Le due cose che potevano colpire l'immaginazione, per la loro estrema
eleganza, erano le minigonne scozzesi della Susanna e le calze operate
della Rossana, la cassiera della mensa.
Già, la mensa.
A tavola tutto era più allegro e spensierato. Sul viale Bolognini,
vicino al torrente, il Collegio delle Dame di Sion ospitava circa cento
studentesse sociologhe ed aveva una sala da pranzo per diverse
centinaia di persone, sala che si riempiva e svuotava più volte all'ora
dei pasti (450 lire con frutta e bevanda). Ai tavoli si formavano i
gruppi: siciliani, marchigiani, toscani, rivoluzionari fiorentini,
anarchici genovesi, ragazze di provenienza composita in cerca di
affetto o avventure (poca cultura da quelle parti, con le doverose
eccezioni). Dopo cena si chiudeva spesso con grandi cori e chitarra: we
shall over come, compagni dai campi e dalle officine, vitti 'na crozza,
bandiera rossa e così via, fino a scandalizzare il gruppo
internazionale delle buone suore padrone di casa che non se ne davano
per inteso, anzi erano sempre allegre e gentili con
tutti.
In quei giorni gli strani tipi, o sarebbe meglio dire i furbi,
abbondavano. Un occhio alla scuola, per la carriera futura, un occhio
alla politica, per non restar tagliati fuori dopo la rivoluzione, un
occhio alle ragazze, quello più attento naturalmente, perché lo
meritavano. Il prototipo era uno come Dodo di Cremona. Riusciva a dar
sempre gli esami superandoli, anche se con il minimo garantito, a
conquistare e colmare di attenzioni parecchie ragazze, a coltivare il
suo hobby preferito (pescare residuati bellici dal Lago di Garda) e
portare a spasso gli amici con la sua 124 Fiat di cui andava tanto
fiero. Altro bel tipo era l'Adriano, di Catania, sempre ingolfato nel
lavoro intellettuale, al seguito di parecchi docenti fra Trento e
Padova. Qualche maligno insinuava che il suo star dietro ai "baroni"
avesse qualche implicazione sul piano dei rapporti umani, oltre che
culturali, qualcosa cioè di fisiologico o
anatomofunzionale.
A parte il difficile confronto con il leader Marco, la figura dei
docenti, confrontati con la "fauna" studentesca di Sociologia, non
sempre ne usciva bene. Franco A. ora Francesco dalle grandi firme,
opinionista universale, era allora il capo ma godeva poca stima ed era
temuto o disprezzato come rappresentante dell'establishment
cultural-politico che faceva capo alla Cattolica di Milano. Era
difficile vederlo, ma facilissimo sentirne parlar male. I rapporti
didattici erano comunque l'ultima cosa al mondo che sembrava
preoccupare gli studenti di Sociologia. Altri problemi li tenevano
occupati: la rivoluzione il giorno dopo, la ragazza per passare la
serata, il gruppo per la gita domenicale in montagna.
C'era molto sentimento in giro, oltre al crudo senso pratico di molti.
Quello traspariva dai frequenti cori con chitarra (di Sandro o Gipo) e
armonica (la mia), dalla lettura delle struggenti poesie di Prévert, al
vecchio S.Chiara (la comune studentesca) con il sottofondo musicale
delle canzoni di Joan Baez o di Fabrizio de André, nel clima diffuso di
malinconia, quando si discuteva a lungo sul da fare tra una visita e
l'altra della polizia alla comune, in cerca di droga dentro le chitarre
ed i rasoi elettrici. Non ce n'era naturalmente.
Si era in tanti, ognuno con i propri impegni e problemi, come la
Susanna di Torino, vaga bellezza bionda e longilinea, che il giorno
andava spesso in giro con dei bimbi in braccio, perché faceva la
bambinaia ad ore per sbarcare il lunario. Era di buona famiglia, ma
come la maggior parte delle ragazze di Sociologia aveva rotto con
quella. O come la Paoletta di Nola, brunetta molto carina e velata
sempre di tristezza perché il suo amore era spesso trattenuto dalla
polizia.
Calogero-Pippo ed io ci vedevamo tutti i giorni a tavola, assieme ad
Enrico, Dodo, Sandro, Gipo, Daniela, Gisella, Carmela (siciliana
naturalmente), Erina, Carla (l'unica del posto, ma non era sociologa),
Serafino, Elettra, Rita e tanti altri. Dopo pranzo si stava parecchio
tempo insieme e dopo cena spesso si cantava sotto la guida di Gioconda,
allegra rocciatrice e segretaria d'azienda della Val Rendena: cori
alpini; o si provava il sirtaki con Vula, una greco-turco-cipriota
esule, vissuta diversi anni in Argentina ed ora a Sociologia senza una
lira, in cerca di amicizia e di affetto. Calogero e Dodo erano un
centro d'attrazione per l'auto disponibile, mentre a me si ricorreva
per le spiegazioni filosofiche inerenti agli studi sociali. Del resto,
anche la '500 di Calogero dovevo guidarla io perché lui aveva perso la
patente alla nostra prima uscita. Con lui trascorrevo parecchio tempo.
Era siciliano come me, docente di matematica alla Media, come io lo ero
di lettere all'ITI. Temperamento quieto e tranquillo, forse un po'
mesto, come me appassionato di opera lirica. Mi mostrava le foto della
grande casa paterna ormai vuota, con la mamma perduta alla finestra, e
non si capiva se rimpiangeva di più il paese lontano o si
autocommiserava per essere stato respinto dai parenti del suo giovane
amore di Matera. Perciò era venuto a Sociologia, dove aveva distrazione
e la vicinanza della famiglia del fratello, militare a Bolzano.
I locali della facoltà, in quei giorni, erano diventati una esposizione
permanente di graffiti tra l'osceno, lo scurrile e il goliardico.
Sarebbe ridicolo e comunque impossibile riferirne i dettagli, ma le
giovani mamme anticonformiste (rara e preziosa merce nella Trento di
allora) portavano i bimbi a vedere, anche con i
mariti.
I discorsi di Marco, uscito allora di prigione e subito laureato, in
facoltà erano asettici nei confronti della repressione poliziesca e dei
militari di Verona e Padova, ma la rabbia era enorme quanto
l'impotenza. Si reagiva con le ragazzate, nonostante ogni tentativo di
Marco di riportare il tutto in termini politici: Giovanni P., certo
parente di un famoso Leopoldo, faceva caroselli in Jeep facendosi
inseguire dai poliziotti che non riuscivano ad acciuffarlo. Nello
sgabuzzino sotto il Museo delle Scienze cresceva il movimento ed
aumentava la gente poco nota che faceva discorsi sempre più estremi. Il
tutto però finiva in proteste inutili, accompagnate da grande rabbia.
Le ragioni erano molte e troppo spesso valide.
Quando in pizzeria, tra un boccone e un sorso di birra, tra una pagina
de Il posto del valore in un mondo di fatti di Koehler ed un capitolo
delle Lezioni di Sociologia di Adorno, lo scoramento prendeva, le
ragioni erano sempre molte, anche se non tutte ugualmente
valide.
Con le ultime brevi e soffici nevicate, finito del tutto l'inverno e
rifioriti gli alberi dei viali, in quei giorni le lotte si spensero a
poco a poco, rifiorì la natura e gli animi si placarono. Ripresero gli
amori, se mai si erano interrotti, e le passeggiate a Goccia d'oro e su
per i torrenti fino ai laghetti dolomitici in disgelo, e lungo i boschi
pieni di fiori odorosi, su su per la Val di Non e la Val di Sole, fino
in Alto Adige in quei giorni.
Aprile 1986
Roberto Laudani
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