1 Maggio. Festa del lavoro e del futuro
Data: Giovedì, 01 maggio 2014 ore 11:00:00 CEST
Argomento: Redazione


"La vera festa è il lunedì mattina, quando si va a lavorare", mi ripete sempre mio padre. E al lavoro voglio dedicare la riflessione di oggi, 1 maggio, Festa del lavoro. Del lavoro che stanca, che produce, che dà dignità, che ti realizza, che ti soddisfa, che ti rende felici, e che a volte, purtroppo, uccide. Del lavoro che crea, che ti rende cooperatore del creato, co-creatore. Al lavoro di insegnante dedico il pensiero di oggi. Del nostro lavoro umile, paziente, silenzioso, coraggioso. E solitario, molto spesso. Ma, soprattutto, gioioso, creativo, coinvolgente, fecondo. E giovane. Perché chi vive accanto ai giovani rimane giovane per sempre. Un lavoro, il nostro, che non finisce mai di stupire e di inventare. Di seminare e di coltivare. E di raccogliere. In un futuro prossimo. Ma è anche un lavoro, molto spesso, bistrattato e biasimato, beffato e dimenticato. E malpagato. Vissuto, giorno dopo giorno, lezione dopo lezione, gomito a gomito, con i ragazzi, con la meglio gioventù che ci poteva capitare, con chicchi di speranza e di futuro. E di libertà. Speso su antologie e abbecedari, su manuali e compendi, che fuori valgono niente, ma che dentro le aule sono oro colato. Donato alla vita e al futuro che verrà, ai ragazzi e alle ragazze che saranno uomini e donne di domani. Dove, a noi insegnanti, non è dato di capire e di entrare.
"Essi sono altrove molto più lontano della notte / Molto più in alto del giorno".
Molto più in alto di noi, poveri, semplici insegnanti. Poi verrà domani, e sarà un altro giorno di duro lavoro...

Angelo Battiato (inviato speciale a Brescia)
angelo.battiato@istruzione.it



"Vivo come un soldato". Così scriveva una maestra, all'inizio del secolo. E in effetti le condizioni di vita, per insegnanti e alunni erano molto dure. Le scuole erano fatiscenti, le classi sovraffollate, lo stipendio basso e differenziato tra uomini e donne, i contratti "provvisori" (si usava questo aggettivo, allora) per anni e anni.
Eppure, malgrado tutto, è stata la scuola pubblica (e in particolare le maestre, misconosciute eroine di un'epoca ancora da raccontare) a "fare" davvero l'Italia. A proiettarla nella modernità. A sconfiggere (o a mitigare) l'analfabetismo assoluto, che regnava sovrano in tutta la penisola. Un analfabetismo che imprigionava milioni di uomini e donne in un destino di subalternità sociale.
È passato un secolo e ancora molte scuole sono fatiscenti, gli insegnanti "precari" (adesso si dice così) e i programmi obsoleti, inadeguati alle nuove sfide del mondo globale. È cambiato il modo di comunicare, la rivoluzione digitale sta cambiando perfino il modo di leggere, ma la scuola non ha mezzi per rinnovare se stessa. È la cenerentola della politica. È povera, pur essendo ricca di energie e di volontà. E anche di desideri, perché a scuola non si impara soltanto a leggere e a scrivere. A scuola si impara a "vedere" e a progettare la vita futura.
Insegnare. Imparare. Sono due attività che stanno alla base della convivenza umana.
L'augurio è di non essere costretti a insegnare e a imparare soltanto come soldati, sempre in trincea, sempre in battaglia. Vorremmo che la scuola, la scuola pubblica, fosse un luogo di pace, dove coltivare sogni e concrete speranze.

Maria Rosa Cutrufelli





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