Il linguaggio del sangue
Data: Giovedì, 10 aprile 2014 ore 07:30:00 CEST
Argomento: Redazione


Succo della vita, filo rosso che lega l’ordito dell’intera vicenda umana e del suo rapporto con la natura, il sangue è elemento primigenio di ogni cultura, a cominciare da quella contadina. Tra sacro e profano, fascino e orrore, ansie salvifiche e pratiche autolesioniste, nelle campagne del Sud il suo linguaggio accompagna l’individuo dal primo vagito all’ultimo rantolo; ne determina i comportamenti in ogni fase dell’esistere. Lu sangu fa murmuru, attesta un’antica massima siciliana ricordata da Luigi Maria Lombardi Satriani in un pregevole saggio di cui è autore insieme a Mariano Meligrana: "Il ponte di San Giacomo. L’ideologia della morte nella società contadina del Sud". Essa ribadisce «L’obbligatorietà della vendetta nei confronti dell’uccisore che solo potrà placare il mormorio del sangue dell’ucciso». Ma il sangue non connota solo negativamente l’identità meridionale. Lu sangu mi si pò fari acqua, recita un’altra massima, per ricordare che, tra parenti, su ogni disaccordo trionfa sempre la solidarietà.

Lo stesso imperativo etico regola il comparatico, quella sorta di parentela spirituale che si instaura tra i genitori di un bambino e chi lo tiene a battesimo o a cresima: cumpari e cummari si considerano quasi parenti, più che parenti, in certi casi. Nell’antico carnevale della Contea di Modica c’era addirittura un giovedì dedicato alle cummari. In quell’occasione, nelle famiglie contadine, si uccideva il maiale e, quasi a voler rinsaldare un vero e proprio patto di sangue, le cummari si scambiavano costolette, interiora e sanguinacci, che erano «e son tuttora – scriveva nella seconda metà dell’Ottocento, Serafino Amabile Guastella – doni accolti con sincera effusione». Ai nostri giorni non credo che ci sia più una sola persona che regala sanguinacci a parenti o amici. Ma qualcuno continua a mangiarli, visto che sono in vendita in talune "carnezzerie" della Sicilia interna e degli stessi quartieri popolari di Palermo. Si trovano sicuramente nelle Madonie, dove i rituali profani del sangue hanno una tradizione antica quanto la storia dell’insediamento umano in quelle contrade. Quasi scomparso è nella nostra isola l’uso di uccidere il maiale in ambito domestico. Rimane forse qualche labile traccia in pochi paesi di montagna. La stessa cosa avviene fuori della Sicilia e sicuramente nel Potentino.

«Una tradizione che resiste, ancora a Gallicchio, anche se limitata a poche famiglie, è l’uccisione del maiale», si legge infatti sul web. «Il suo sacrificio simboleggia per un verso la morte, la violenza e la sofferenza, dall’altro la vita che si rinnova: i 3-4 giorni di abbondanza che seguono la sua uccisione danno conforto e speranza per il futuro. Nelle fredde mattine d’inverno il maiale viene prelevato dal porcile dal proprietario con l’aiuto dei famigliari e di alcuni amici. Legato per il grugno viene trascinato verso il luogo scelto per la macellazione dove in un grande calderone nero, sta bollendo dell’acqua. Tocca a una persona esperta recidere con un coltello, lungo e sottile (u scannatùrё), la carotide dell’animale tenuto fermo da almeno sei o sette uomini robusti. Una volta trafitto il collo del porco, viene per prima cosa recuperato il sangue con il quale si farà il sanguinaccio. Dopo poco il maiale muore dissanguato consentendo a coloro che lo trattengono di tirare un respiro di sollievo, quando infatti il colpo mortale non è ben assestato il povero animale si dibatte a lungo tra atroci sofferenze e urla strazianti».

Spettacolo particolarmente cruento, tipico dei paesi madoniti (ma anche di altre aree siciliane) era nel passato la scanna di capretti e agnelli che si faceva periodicamente nelle grandi masserie: «In un batter d’occhio – racconta Cristoforo Grisanti – i garzoni portan quivi scodelloni e caldaie, i macellai, aiutati, se occorra dai pastori, con coltelli lunghi o sottili prendono posto in siti diversi, e, in due o tre ore, centinaia di vispi animaletti che saltellavano e belavano allegramente, sono colla massima indifferenza scannati [...] quei tanti ventricoli vengono pazientemente riempiti del sangue che era stato conservato, legati al sommo, immersi nell’acqua bollente, estratti, dopo intostiti, messi a raffreddare, e gli intestini più stretti attorcigliati intorno ai più lunghi [...] ed eccoti le famose stigghiole [...] Lavatisi tutti e puliti, pecorai e garzoni, il curatolo che non è meno stanco degli altri, invita tutti, compresi i compratori, a riposarsi e mangiare nella masseria, e tosto ciascuno siede e mangia del pane suo con pezzi di sangue ancora tiepido e stigghiole dagli allegri garzoni cotte sulla bragge o cenere calda non importa [...] e i cani, irrequieti e dimenando le villose code, fuori van pescando qualche avanzo e lambendo qua e là fin le gocce di sangue cadute».

Scene come queste possono provocare disgusto a noi che viviamo nel terzo millennio; e non è da escludere che lo dessero anche a non pochi individui delle generazioni passate. Sta di fatto che il sangue era considerato un alimento importante, specialmente per le persone denutrite. Non a caso l’anemia si curava con grossi bicchieri di sangue che gli addetti ai macelli comunali non negavano mai a chi lo chiedesse. Spesso erano gli stessi medici a consigliare agli ammalati di rivolgersi al macello. E non si creda che nella Sicilia arcaica si consumasse solo sangue di animali uccisi; era apprezzato anche il sangunazzu di vistioli, frutto dei salassi che periodicamente si praticavano ai buoi e alle vacche: «rozzo cibo», ammetteva Cristoforo Grisanti, ma pur sempre «grazia di Dio» da dividere con parenti e amici. Se, per sgravarsi del «sangue vecchio», i bovini e gli equini offrivano le vene alla balestra del maniscalco o dello stesso contadino, gli uomini si facevano salassare dal barbiere almeno una volta all’anno, preferibilmente il giorno di san Valentino, a Palermo. «Altrove – cito Giuseppe Pitrè – era divozione fare altrettanto in certe solenne festività dell’anno; com’era consuetudine il farlo all’entrare di ogni nuova stagione in certi giorni designati, a luna nuova e non so con quali condizioni fisiche o metereologiche». Il salasso era ritenuto efficacissimo nella cura della pleurite, della polmonite e di tante altre malattie. Per taluni mali erano invece preferite le mignatte, allevate e applicate, nemmeno a dirlo, dal barbiere. Tralasciando le innumerevoli pratiche magiche connesse al sangue e gli antichi tabù radicati nelle campagne meridionali fin dai tempi di Plinio e di Columella, è appena il caso di ricordare, sia pure di sfuggita, i rituali di autoflagellazione nelle comunità rurali. La letteratura agiografica dei secoli XVI e XVII è prodiga di informazioni in proposito: uomini e donne in odore di santità che durante la Settimana Santa si laceravano le carni; prediche di quaresimalisti che si concludevano con vesti stracciate e isteriche processioni di autoflagellanti.

Nato nella terra arsa dei tarantolati, dotato del potere della levitazione, san Giuseppe da Copertino nel corso della sua vita terrena si disciplinò tanto da farsi prosciugare fino all’ultima goccia di sangue. In compenso salvò più volte i campi dalla siccità. Memori, forse, dell’antico esempio del Santo pugliese, ancora nel 1975, in un paesino del Sannio circa trecento persone, che partecipavano a una processione per impetrare la pioggia, «si sono flagellate per ore secondo precise modalità condivise dall’intero paese». Miracoli di fede contadina! Miracoli universali, considerato che anche in Abissinia si faceva scorrere il sangue per far piovere. Naturalmente ai nostri giorni non ci si flagella più per muovere a compassione Giove Pluvio. Ma qualche processione per impetrare la pioggia, con i preti in cotta e stola e gli stendardi delle confraternite, ogni tanto s’inscena ancora nei comuni della Sicilia interna, specialmente nei periodi di prolungata siccità. Non è forse, anche questa circostanza, spia di una concezione del mondo e della vita affermatasi in condizioni di estrema precarietà esistenziale? Concezione del mondo, cultura contadina criticabile quanto si vuole, ma comunque pregnante di valori, non ultimo dei quali quello della solidarietà, come dimostra la presenza in queste manifestazioni di persone estranee al processo produttivo agricolo.

Prof. Giuseppe Oddo





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