Elogio del ripetente
Data: Domenica, 16 marzo 2014 ore 07:30:00 CET Argomento: Rassegna stampa
Pinuccio
non fa i compiti. Mirko gioca col cellulare. Davide rompe le penne.
Romoletto scrive “vado ha casa”. Siamo di fronte a vecchi Pinocchi o
nuovi somari? Cosa succede nella testa di molti adolescenti di oggi?
Perché è così difficile coinvolgerli nelle attività didattiche? Per
rispondere a queste domande non basta analizzare le statistiche
dell’abbandono scolastico o interpretare i risultati delle prove di
verifica. Bisogna indagare sulle emergenze sociali e culturali del
nostro mondo, legate alla rivoluzione digitale, alla crisi della
famiglia, alla frantumazione informativa, alla decadenza di principi
morali un tempo ritenuti invalicabili.
Eraldo Affinati, insegnante e scrittore, autore del libro “Elogio del
ripetente” (Mondadori), da sempre impegnato nel recupero dei ragazzi
difficili, in quest’intervista, racconta con tenerezza non priva di
ironia lo splendore e la fragilità dei quindicenni con cui divide
l’esistenza quotidiana.
Il tuo libro ha un titolo che potrebbe
apparire provocatorio, “Elogio del ripetente”. Perché questo messaggio
in controtendenza rispetto alla linea generale che vuole individui
adatti o perfettamente adattabili a prestazioni medie e standardizzate
che spesso scambiamo per “eccellenza”.
«Questa riflessione sul “ripetente” nasce dalla mia esperienza
biografica. Io insegno a ragazzi ritenuti “difficili” che arrivano
all’istituto professionale come se fosse l’ultima spiaggia. Questi miei
studenti spesso sono già stati bocciati all’istituto tecnico o al
liceo. Sono, in altri termini, ragazzi “difficili”. Eppure, proprio
loro ti fanno capire quanto sia profonda e diffusa una crisi etica
generale, di cui la scuola raccoglie cocci e conseguenze. Il
“ripetente” diventa, così, un frammento che la società vorrebbe
allontanare da sé, ma che in realtà illumina e spiega molte cose di
quella medesima società. I ragazzi “difficili”, i “ripetenti”,
sono quasi dei “frantumi” di questo Paese. Frantumi che cadono in basso
e che a noi tocca raccogliere».
Sono anche vittime di un crescente
divario di possibilità. Spesso accettiamo senza troppo criticarla
l’idea che si parta tutti dallo stesso punto, che in una società
democratica tutti abbiano accesso agli stessi strumenti…
«Non tutti partono dalla stessa posizione, eppure tutti fingiamo che si
parta da una linea comune. C’è chi nasce baciato dalla sorte e chi no,
chi durante il suo percorso cade, inciampa, si rialza e chi invece
prosegue senza intoppi. Ma dobbiamo uscire da questa finzione. L’Elogio
del ripetente è un libro di campo sulla scuola italiana ma direi
anche sulla società italiana e attraverso l’incontro con il ripetente
ho cercato di capire alcuni snodi etici contemporanei. Snodi che
riguardano noi, le nostre vite, qui e ora».
Come è possibile stabilire un
contatto, una comunicazione che rompa una barriera di indifferenza che
sembra fin troppo spessa?
«Per quanto riguarda il lavoro con i ragazzi ti devi mettere in gioco.
Consideriamo che spesso questi ragazzi non hanno mai incontrato
qualcuno nella loro vita che si mettesse in gioco per loro. Un adulto,
intendo, che cercasse di cogliere le ragioni profonde della loro
intemperanza, della loro rabbia e della loro indisciplina. Se questo
riesce ottieni grande soddisfazione. Ci sono anche le sconfitte e le
difficoltà, ma questa è la bellezza dell’insegnamento di
frontiera. L’educatore è uno che si ferisce. D’altronde, se ti
metti in gioco e ti coinvolgi non puoi che ferirti».
È un ruolo doppio e delicato, quasi da
amico e da maestro se non ho capito male…
«Esattamente. Fai l’amico quando ti metti in gioco e intercetti il loro
livello. Ma fai il maestro quando cerchi di incarnare il limite che
loro non devono superare. Se tu fai tutto questo rischi molto, perché
chiami in gioco anche i tuoi problemi. Devi sempre essere lucido e
equilibrato. Il momento educativo è un momento complesso che chiama in
gioco anche la “gioventù dell’educatore” ».
Che cosa intendi dire?
«Devi essere credibile e saldo. Non devi essere un eterno giovane. Ma
questo richiede un duro lavoro che devi fare anche dentro te stesso».
Dobbiamo quindi guardarci dal rischio
della seduzione…
«Questo è il punto vero. Se punti tutto sulla seduzione puoi ammaliare
l’adolescente, ma poi quello stesso adolescente ti abbandona. Ti
abbandona perché è stato spesso sedotto dai suoi genitori e dalla
società. La scuola in fondo è rimasta l’unico luogo in cui questi
ragazzi dovrebbero essere concentrati, rigorosi, attenti. La società,
là fuori, li spinge invece altrove: verso i miti di carta del successo,
della bellezza, della ricchezza. Ecco perché l’insegnante si trova
spesso solo. C’è un senso di solitudine lancinante in chi insegna. Però
proprio adesso quella è la frontiera che non va abbandonata. Se
lasciamo sguarnita anche questa frontiera gettiamo nel vuoto una
generazione».
Questo stare tra le due linee, nella
tua narrativa, trova spesso la forma del viaggio… Stare sul campo è
muoversi tra queste due linee cercando di raggiungere una postura etica…
«Quando scrivo parto sempre da un’esperienza concreta. Non riuscirei
mai a scrivere inventando una storia. Naturalmente, questa esperienza
trova il suo senso nella scrittura. L’ultima stazione di questi miei
viaggi psico-fisici è sempre la scrittura: lì capisco se l’esperienza
ha avuto un senso oppure no. In questa chiave, anche il mio ultimo
libro è assolutamente in linea con “Campo del sangue” (1997)
o “Un teologo contro Hitler” (2002) o “Pellegrin d’amore” (2010).
Per me la scrittura serve a dar senso all’esperienza. Questo è lo
statuto della letteratura. Ma lo constato anche nella scuola, quando ho
a che fare con i ragazzi che, quando scrivono, se riescono a
formalizzare l’esperienza, capiscono quello che hanno fatto. Lo dico
soprattutto a proposito dei ragazzi stranieri, ai quali insegno lingua
italiana».
Nel finale dell’Elogio del
ripetente parli del sogno di un’altra scuola…
«È il sogno che coltivo nel concreto, con la Penny Wirton. Una
scuola che ho creato con mia moglie, Anna Luce Lenzi, composta da
insegnanti volontari disposti a mettersi in gioco insegnando la nostra
lingua agli studenti stranieri. Studenti che spesso sono orfani, che
arrivano come profughi e non conoscono una sola parola di italiano… Per
loro imparare l’italiano significa diventare cittadini di questo Paese».
Tu dunque insegni all’istituto
professionale e alla Penny Wirton, la scuola che hai creato 4 anni fa e
che si sta diffondendo, come modello generativo, in tutta Italia. Ci
spieghi un po’? Da che cosa viene il nome, prima di tutto?
«Penny Wirton è il protagonista di un racconto di Silvio D’Arzo (Penny
Wirton e sua madre). La scuola è strutturata secondo un percorso di
insegnamento che non avviene secondo la classica divisione
“gruppi-classe”, ma a tu per tu. Per ogni docente ci sono al massimo
due o tre allievi. Nel ruolo di docenti, ho coinvolto anche “ripetenti”
e giovani di seconda generazione. Ecco allora che coloro che si trovano
in difficoltà nella prima scuola, l’istituto professionale, trovano
l’opportunità di mettersi alla prova assumendo una responsabilità
inedita: quella dell’insegnante. Gli studenti della Penny Wirton
sembrano spugne, tu versi acqua e loro assorbono tutto: eccolo il sogno
di un’altra scuola. Fuori dalla finzione pedagogica: far finta di
insegnare, far finta di ascoltare come spesso accade… Lì non c’è più
finzione pedagogica, perché questi ragazzi vengono da te con una
richiesta precisa: “insegnami a dire forchetta”, “insegnami a dire
piatto”, “come si fa a trovare un lavoro”, “pane e acqua, vino”… Lì hai
lo studente modello, eccolo dunque il sogno concreto di un’altra
scuola: lo studente che ti sollecita. E’ possibile che lo studente
venga e chieda. Siamo abituati a
numeri, standard, test a risposte multiple e, cosa veramente penosa,
perché presumono la malafede del ragazzo, a trabocchetto… Ma qui è come
si riapparisse il volto, il nome… Se nel punto più critico di
un’esperienza, questa esperienza ci sottraesse all’anonimato. È un
rapporto esclusivo col singolo, non falsamente inclusivo…
Cercare il volto, cercare la persona è fondamentale. Se c’è
motivazione, per esempio, anche il ripetente escluso dalla scuola
tradizionale può attivarsi e diventare docente, può vivere
un’esperienza del dare e del ricevere. Cercare il volto è la vera
responsabilità a cui siamo chiamati. La responsabilità del prendersi in
carico lo sguardo altrui».
Intervista di Marco Dotti (dal sito Vita)
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